UNO STUDENTE CI SCRIVE: “MI AVETE RIDATO LA SPERANZA NEL PD CHE VORREI”

UN GRUPPO DI GIOVANI DEMOCRATICI DI NAPOLI ADERISCE ALL’INIZIATIVA AVVIATA CON L’ASSEMBLEA DEL 20 LUGLIO E SI MOBILITA PER L’AGENDA MONTI

Lettera di Salvatore Monaco, iscritto ai Giovani Democratici di Napoli, pervenuta il 20 luglio 2012

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Caro prof. Ichino,
oggi ho partecipato all’iniziativa a sostegno del governo Monti e della necessità della prosecuzione, per la prossima legislatura, della sua opera di risanamento e riformatrice. Non so se si ricorda di me, sono il ragazzo, l’unico purtroppo (ed è davvero l’unica nota stonata di un pomeriggio davvero molto interessante), che è intercvenuto nel corso dell’assemblea: quello che ha distribuito nella sala il suo intervento e che le ha chiesto una foto. Per me è stato un onore conoscerla di persona, e le rinnovo l’invito a venire da noi a Napoli, per discutere di lavoro, welfare, pensioni e riforme. Mi ha detto che a novembre verrà da noi a Napoli; ci conto professore, sono sicuro che manterrà la sua parola. Le sensazioni di questa giornata sono state bellissime, come ho cercato, un pò goffamente, nel mio brevissimo saluto finale (altri hanno sforato, ma non potevo nè volevo venir meno alla cortesia con la quale, mi è stata concessa la parola), di enunciare. Mi auguro che abbia letto l’intervento che avrei voluto leggere e che le ho consegnato. Mi farebbe molto piacere saper cosa ne pensa in proposito. Sarebbe un onore per me. Spero la prossima volta (se ho capito bene si parla del 29 settembre) di poter leggere un mio intervento e non soltanto “salutare”. Come ho cercato di dire, però, mi sono sentito a casa.
Non ho dissentito da nessun intervento (tranne un riferimento ardito al PCI di Petruccioli). Mi avete ridato speranza nel PD che vorrei, ossia il grande partito dei riformisti italiani. Vi ringrazio. Sarebbero tante le cose che vorrei scrivere, ma sarebbero superflue. La ringrazio, personalmente, prof.Ichino, per la disponibilità e la pazienza, oltre che per la competenza e la chiarezza della formulazione delle sue idee, che io, come tutti i presenti oggi, e tantissimi italiani, condividiamo. Mi raccomando non molli proprio adesso che l’Italia ha bisogno di persone come lei!
Cordiali saluti

Salvatore Monaco
studente di medicina e chirurgia di Napoli
iscritto ai Giovani Democratici di Napoli

 

L’INTERVENTO SCRITTO DI SALVATORE MONACO CONSEGNATO ALLA PRESIDENZA DELL’ASSEMBLEA

Non potevamo non aderire a questa iniziativa, oltre che per la stima personale che nutriamo nei confronti del senatore Ichino, soprattutto per il merito delle questioni, poste all’attenzione di questa assemblea. Il sostegno
al governo Monti è pieno e convinto, nonostante gli errori che possono essere stati commessi, per esempio sulla questione esodati, non gestita al meglio, dal ministro competente, dai vertici Inps e altri, tuttavia il prof.Ichino ha ampiamente esposto con dovizia di particolari la vicenda, o alcuni aspetti della riforma del lavoro o della spending review.

Ciò che però teniamo ad affermare con forza e convinzione è che il prossimo governo, qualunque esso sia, non può  non tener conto della lezione degli ultimi mesi, e dall’opera di risanamento dell’attuale governo, presieduto
da Mario Monti. Un sostegno che dai più è visto sotto una cattiva luce, col fumo negli occhi, un patto col Diavolo, soprattutto nel PDL, ma anche nel Partito Democratico. E per questo è necessario ribadire che sostenere il governo Monti, supportandolo nella difficile missione che gli hanno affidato, non è né una tortura né un sopruso né un momento passeggero. È una nobilissima presa di coscienza del fallimento di decenni di politiche sbagliate. Chi ha portato l’Italia sull’orlo del baratro non ha il diritto di dare lezioni a chicchessia, tantomeno a chi ha reso di nuovo l’Italia, protagonista in Europa e nel mondo, non più per i suoi difetti, e le sue mancanze.

L’asprezza della crisi mondiale ha aperto gli occhi a molti sulla realtà:
paghiamo decenni di immobilismo politico, della mancata approvazione delle
necessarie quanto opportune riforme strutturali, di cui il Paese non poteva più
fare a meno, di malaffare, clientelismo, soffocamento del merito, della mancata
trasparenza, dell’inefficienza nei pubblici servizi, e potremmo continuare
oltre.

La colpa è di una classe politica non all’altezza dell’enormità delle sfide
che si è trovata a dover affrontare, a dover governare. Ma non solo. Anche di
una connivenza di ampi strati della popolazione, che non hanno saputo far altro
che avallare queste politiche e queste condotte scellerate, per mero tornaconto
personale e opportunistico. Ognuno di noi, deve essere principio attivo del
cambiamento, deve essere promotore e vigile osservatore affinché esso possa
avvenire. Troppo spesso si sono chiusi gli occhi. Troppo spesso si sono voltate
le spalle.

Il governo Monti, invece, in molti cittadini, ha ridato speranza. Ha
infuso, consentiteci anche un po’ di retorica, l’orgoglio di essere italiani,
di essere rispettati nei consessi internazionali, di non essere più costretti a
subire cocenti umiliazioni (riprendendo le parole dello stesso premier, di
qualche giorno fa, all’Abi), come i sorrisi del cancelliere tedesco e del
presidente francese uscente. Ridurre però l’azione del governo a una mera
questione patriottica sarebbe riduttivo. Grazie a questo governo si è cercato
di mettere al centro della nostra agenda politica l’Europa.

Europa intesa come grande casa comune in cui tutti noi, tutti i popoli
europei, possiamo finalmente costruire un futuro di pace e benessere economico,
ma anche intesa come modello a cui noi dobbiamo tendere. Molti, purtroppo anche
nel PD, non sono d’accordo. E sbagliano, lasciandosi andare a illusorie vanit�
nazionalistiche, stataliste, accentratrici. Non è certo esente da critiche
l’Unione Europea così com’è. Noi auspichiamo finalmente la creazione degli
Stati Uniti d’Europa, l’unica speranza per evitare di accantonare un sogno,
quello dell’Europa Unita, che ormai ci accompagna da quasi 70 anni. E che con
la creazione dell’euro sembrava raggiunto.

La realtà ci ha ricordato che non è così. Senza una effettiva unione
politica non ci potrà mai essere l’Europa che hanno sognato i nostri padri.
Unione politica, sicuramente, ma anche unione fiscale ed economica. Come diceva
lei, senatore Ichino, ciò non è un capriccio dei Paesi meno virtuosi, ma una
necessità di tutte le nazioni europee, comprese Francia e Germania. Soltanto
nella cornice di una unione fiscale, oltre che monetaria, il rigore dei
bilanci, e gli strumenti di contrasto al lievitare dei debiti pubblici e dei
tassi di interesse sugli stessi (come lo scudo antispread, fortemente voluto, e
ideato, dallo stesso premier italiano), hanno ragione di esistere e di essere
efficacemente produttivi. Come pure, e siamo sicuro di incontrare il favore di
tutti i partecipanti a questa assemblea, l’istituzione degli eurobond e dei
project bond. L’opposizione della Germania come può essere superata? Con le
politiche di risanamento, di rigore che il governo Monti sta mettendo in campo.
Non dobbiamo lasciarci trascinare nello sterile teatrino delle pulsioni
antitedesche, come avviene soprattutto in quei partiti personali, in cui il
populismo e la demagogia imperano. Chi accetterebbe mai di prestare denaro a un
Paese inadempiente degli impegni sottoscritti in sede comunitaria e
inaffidabile politicamente? Nessuno. E noi lezioni alla Germania, o chi per
essa, proprio non possiamo darne, almeno fino a 8 mesi fa.

E veniamo ad una analisi, purtroppo brutale ma, ahinoi veritiera, della
situazione italiana. Come ci ricorda uno studio di Confcommercio di ieri
(19-07-2012), la pressione fiscale italiana reale è la più alta del
mondo. L’Italia si posiziona infatti al top
della classifica davanti a Danimarca (48,6%), Francia (48,2%) e Svezia (48%).
Quella ufficiale è al 45,2%. Ma non abbiamo i livelli di welfare di questi
Paesi, né il tasso di corruzione, né il valore del sommerso e potrei
continuare. Il nostro sommerso è pari a 154 miliardi di euro (il 17,5% del
PIL). Un costo spaventoso che ormai non ci possiamo più permettere.

A tal proposito, proponiamo, o comunque mettiamo al
centro del dibattito un’idea: quella della tracciabilità completa di tutte le
operazioni finanziarie. Siamo molto indietro rispetto al resto del mondo
occidentale su questo tema, e riteniamo che siamo giunto il momento di
diminuire questo gap. L’orizzonte deve essere quello dell’abolizione del
contante, ma nel frattempo, si potrebbero pensare a delle misure intermedie,
che ci accompagnino gradualmente in quella direzione. Ad esempio la
deducibilità di tutte le ricevute fiscali e delle fatture, in maniera tale da
incentivarne la richiesta di emissione. Molto poi si deve fare a livello delle
transazioni finanziarie. Si parla molto di Tobin tax e crediamo che sia un
utile strumento per contrastare la speculazione finanziaria. Oltre ad un
accordo con la Svizzera per evitare fughe di capitali di dubbia provenienza.

Molto ha fatto il governo, in tema di lotta agli
sprechi, alla riforma previdenziale, alla riforma del lavoro, alla spending
review. Ma moltissimo ancora c’è da fare. Come hanno scritto i firmatari del
documento pubblicato sul Corriere “i termini essenziali dell’agenda
riformatrice dei prossimi mesi sono chiari: incisiva e coraggiosa revisione
della spesa pubblica, per conseguire il pareggio strutturale di bilancio, per
ridurre l’imposizione fiscale sul lavoro e l’impresa, per tornare a investire
sulla formazione del capitale umano, sulla ricerca e sull’infrastrutturazione
del Paese, per introdurre maggiori elementi di equità intergenerazionale nel sistema
del welfare, affrontando la fase transitoria  con soluzioni coerenti e non
regressive rispetto alla logica della riforma. Nel breve, devono derivare da
risparmi di spesa le risorse necessarie per centrare l’obiettivo del pareggio
strutturale senza ricorrere – dal primo ottobre prossimo – al già deliberato
aumento delle aliquote Iva, che finirebbe per approfondire la recessione in
atto”.

Noi concordiamo pienamente. Questi sono e devono essere i temi al centro dell’azione politica del prossimo governo, e comunque devono essere al centro dell’agenda di un grande partito riformista, come deve
essere il PD. Invece, purtroppo con dispiacere, in esso c’è chi vorrebbe, una volta al governo, sfasciare tutto il lavoro di questo governo. Non avere il coraggio di cambiare l’Italia. Noi riteniamo invece che la valorizzazione del merito, l’abbassamento delle tasse sulle famiglie e sul lavoro, in maniera tale da incrementare i salari e rilanciare al domanda interna, una riforma della giustizia veloce ed efficiente, investimenti in ricerca e istruzione, superamento del dualismo tra ipertutelati e schiavi nel mondo del lavoro, una vera rivoluzione industriale ecologica, una rivoluzione tecnologica e tanto altro ancora, siano di “sinistra” (per usare il tormentone tanto caro a certuni).

Per molti sembreranno temi “futuristici” (e non lo sono) ma la domanda che ci poniamo, anche, e soprattutto, da giovani, è: perché non possiamo puntare in alto? Perché dobbiamo essere sempre gli ultimi? Crediamo nella bontà delle nostre idee, diamo fiducia a una generazione a cui le generazioni precedenti hanno tolto tanto, troppo. Investire sui giovani non per sport, non per gentile concessione, ma per convinzione. Per presa di
coscienza che sono una risorsa del Paese. E invece di esportare “cervelli”, attiriamoli e teniamoci le eccellenze che abbiamo in casa nostra.

Vogliamo però fare un invito al Partito Democratico, e
soprattutto a quella parte, consistente, che critica le politiche del governo,
che mostra insofferenza e che vorrebbe bollare questi mesi come una parentesi
da cancellare al più presto, ogni riferimento al responsabile economico del
partito (non) è puramente casuale. E questo invito lo facciamo con le parole di
Antonio Polito sul Corriere del 18 luglio 2012:

“È diventato di moda condannare l’austerità e suggerire alternative keynesiane:
iniezioni di denaro pubblico per battere la recessione. Ma mentre da noi le si
invoca, in Germania sono convinti che l’Italia di oggi sia proprio il frutto di
un lungo ciclo di politiche keynesiane. E in effetti è legittimo pensarlo di un
Paese che ha accumulato la bellezza di duemila miliardi di euro di debiti. Si è
trattato, a dire il vero, di una versione più casereccia del tax and spending
dei socialismi scandinavi. Anche perché, duemila miliardi di debiti dopo, noi
abbiamo ancora otto milioni di poveri e crescenti ineguaglianze. Alte tasse e
alta spesa pubblica non hanno prodotto da noi la coesione sociale svedese o il
tasso di occupazione danese. E, se è per questo, nemmeno l’innovazione
tecnologica finlandese, l’assistenza sanitaria francese o l’industria
tedesca. Quei duemila miliardi sono stati solo la risposta affannosa di
una classe politica provinciale all’emergere della globalizzazione: altri
risolsero con una Thatcher, noi indebitandoci.

Eppure i medici pietosi accusano il «neoliberismo selvaggio» per questi
disastrosi vent’anni. Non è chiaro a quali selvaggi si riferiscano. Ai governi
di Ciampi e di Prodi, al colbertista Tremonti? A un centrodestra che, caso
unico in Europa, è riuscito a far crescere spesa pubblica e tassazione? Ma
ammettiamo per un attimo che abbiano ragione, e che dai vizi conclamati del
mercato si debba passare alle virtù della mano pubblica: con quali soldi?

Poiché in cassa non c’è un euro, e poiché non possiamo battere moneta per
inflazionare il nostro debito, si presume che i keynesiani di ritorno pensino a
un ricorso ai mercati. Vorrebbero cioè curare il debito con altro debito. Ai
tassi di interesse attuali? Consegnando ai vituperati mercati una sovranit�
ancora maggiore sulle nostre scelte economiche? Perfino per fare una politica
keynesiana bisognerebbe prima convincere i mercati che si possono fidare di
noi, e prestarci soldi a bassi tassi. L’austerità di oggi è dunque la
precondizione di qualsiasi politica di domani, anche di quella più
illusoriamente espansiva”

Cari amici democratici, ricordatevi sempre queste parole. Gli italiani non
credono più ai millantatori, bastano Grillo e Berlusconi. Il tempo
dell’irresponsabilità è finito.

Due parole in conclusione sul mercato del lavoro. La
riforma Fornero indubbiamente introduce elementi positivi, con alcuni aspetti
negativi, migliorabili. Il professore Ichino sicuramente è stato in precedenza
e sarà molto chiaro, e non ci dilunghiamo oltre. Anzi approfittiamo per
invitarlo a Napoli, già da settembre, per discutere di questi temi. Non solo
per la stima, che ancora una volta ribadiamo. Non solo per il sostegno,
convinto, alla sue, alle nostre battaglie, o per la solidarietà incondizionata
agli attacchi, meschini e vergognosi di cui è oggetto, e contro i quali ci
sentiamo di reagire con forza e determinazione (e cogliamo l’occasione per
esortarlo ancora una volta a continuare la sua battaglia, dentro il Parlamento), ma, soprattutto perché il suo
contributo prezioso aiuterebbe molti ad avere idee più chiare sulla necessit�
delle scelte prese e da prendere. Le persone come Ichino non vanno “fermate”
anzi vanno “salvaguardate” perché, d’accordo o meno con le sue idee, sono un
patrimonio per tutti coloro che amano il pensiero libero e il confronto tra più
pensieri liberi.

Tornando in tema, ecco alcuni flash di prospettiva.
Degli auspici, molto cari, sicuramente a Ichino, ma anche a tutti i riformisti
italiani. Prima di tutto è urgente introdurre in Italia la flexsecurity, la
vera grande riforma strutturale, rivoluzionaria, per certi versi, di cui
abbiamo bisogno in materia di lavoro. Occorre un sistema universale di
ammortizzatori sociali, in maniera tale da non rendere la condizione del
licenziamento un dramma, e in tantissimi casi lo è davvero, in un periodo di
crisi come questo specialmente. Ma non basta, è fondamentale intervenire nella
formazione e nel ricollocamento a diversa occupazione del lavoratore che perde
il posto di lavoro. Noi vogliamo un mondo del lavoro dinamico, fluido, non
ingessato e antiquato non al passo dei tempi, come vorrebbero i conservatori di
destra e di sinistra.

Citando il professore:  Ci sono tre
modi di intendere il “diritto al lavoro”. Il modo burocratico:
“se vai all’ufficio di collocamento, hai diritto a essere avviato a un lavoro,
sulla base di una graduatoria”. Il modo sindacale:
“Se hai un posto di lavoro, non puoi essere licenziato”. Il modo costituzionale: “lo Stato ha il dovere di creare le condizioni
affinché tutti abbiano una opportunità di lavoro secondo le proprie capacità e
la propria scelta”. Il primo lo
abbiamo sperimentato per mezzo secolo, dal 1949 al 1997, con il nostro
monopolio statale del collocamento: l’esperienza mostra che in quel modo, di
fatto, abbiamo garantito soltanto il diritto dei collocatori alla
bustarella. Il secondo lo abbiamo sperimentato per quarant’anni, dal 1970
a oggi, con l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: è il diritto a tenersi
il proprio posto stabile quando lo si è trovato, ma non è affatto il diritto al
lavoro stabile per chi ancora non lo ha trovato (e quindi non ha alcun soggetto
passivo al quale rivolgere la propria pretesa). Resta il terzo, ovvero il modo più
serio e più impegnativo di intendere il principio costituzionale del diritto al
lavoro: l’esperienza degli ultimi due secoli mostra che non vi è modo migliore
per garantire a tutti una opportunità di lavoro secondo le proprie capacità e
la propria scelta, che quello di un mercato del lavoro ben funzionante, fluido
e innervato di servizi efficienti, in un sistema economico aperto”.

Per noi, bisogna lavorare nelle seguenti direzioni:
riformare e potenziare i corsi di formazione professionale, i centri per l’impiego,
ormai ridotti a meri entri burocratizzati senza utilità effettiva, e
ridisegnando un nuovo rapporto, diretto, tra mondo della scuola e
dell’università e mondo del lavoro, oggi troppo distanti tra di loro, mentre
dovrebbero essere in sinergica dipendenza e interconnessione. Non inventiamo
nulla, basta prendere esempio dal modello tedesco, in cui la teoria non è
separata dalla prassi, e lo studente quando esce dal mondo della scuola, o
dell’università, è già formato e pronto per lavorare.

Questi sono solo piccoli spunti, i piani di intervento
sono numerosi, così come numerosi sono gli ambiti. Tutti i settori vanno
riformati, rivisti, perfezionati ed efficientati. Dal settore pubblico (bene la
spending review, concettualmente e anche in molte applicazioni pratiche, ma
occhi sempre bene aperti ad evitare qualsiasi diminutio di prestazioni e
servizi essenziali) a quello privato, dalle professioni (lotta senza quartiere
a tutte le lobbies, non è possibile che l’Italia sia stata bloccata anche dai
tassisti!) all’industria (manca un vero, nuovo, innovativo, ecologico piano di
sviluppo e riconversione industriale), passando per agricoltura e servizi
(iniziare a premiare il merito, parametri valutativi di livello europeo: chi
lavora di più e bene guadagni di più, chi lavora meno guadagni di meno; chi
truffa e non lavora sia licenziato).

E tutte le riforme devono essere riformiste. Ormai la
nostra sfida, del nostro secolo, è cambiare. Due schieramenti si oppongono: non
più destra e sinistra ma riformisti contro conservatori (di destra e di
sinistra). E noi abbiamo scelto, con chiarezza, da che parte stare.

Grazie per l’attenzione.

 

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