IL FOGLIO: LA PRODUTTIVITÀ E LE PAROLE-BANDIERA DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA

IL CURIOSO SLALOM DELLA CGIL, CHE FIRMA GLI ACCORDI INTERCONFEDERALI AD ANNI ALTERNI (2009 NO, 2011 SÌ, 2012 NO, 2013 SÌ), SPIEGANDO DI VOLTA IN VOLTA IL MUTAMENTO DI LINEA CON ALCUNE SOTTOLINEATURE CONTENUTE NEI TESTI, CHE HANNO IN REALTÀ UN MODESTISSIMO CONTENUTO PRATICO

È riportata qui di seguito la traccia di un’intervista, dalla quale Marco Valerio Lo Prete ha tratto un articolo-colloquio pubblicato sul Foglio l’8 maggio 2013 – Sono disponibili in formato pdf, mediante il link qui sotto, il testo della circolare del ministero del lavoro del 3 aprile 2013, il testo dell’accordo interconfederale 24 aprile 2013 e quello della circolare con cui la Cgil ha presentato alle proprie strutture l’accordo stesso

icona-dwl8  Scarica il testo in formato pdf della circolare del Min. lavoro 3 aprile 2013

icona-dwl8 Scarica il testo in formato pdf dell’accordo 24 aprile 2013

icona-dwl8 Scarica il testo in formato pdf della circolare Cgil 25 aprile 2013
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Detassazione di produttività: lei è stato sorpreso dal fatto che la Cgil, che solo nel dicembre scorso parlava di intesa “coerente con la politica del governo che scarica sui lavoratori i costi e le scelte per uscire dalla crisi”, due settimane fa abbia deciso di firmare quella stessa intesa?
Molto sorpreso, no. Su questo terreno ormai da qualche tempo la Cgil segue la pratica dello stop and go. Nel 2009 ha rifiutato di firmare l’accordo interconfederale sulla struttura della contrattazione collettiva perché riteneva che esso concedesse troppo spazio alla contrattazione aziendale; poi nel 2011 ha firmato quello del 28 giugno, che di spazio per la contrattazione aziendale in deroga ne concede nettamente di più; nel novembre 2012  non ha firmato l’accordo sulla produttività, ma è tornata a firmarlo sei mesi dopo nel 2013.

Si è dato una spiegazione per questo slalom?
La mia impressione è che il motivo determinante delle scelte della Cgil vada sempre cercato sul terreno della politica nazionale: nel 2009 non firma, perché l’accordo ha come promotore il ministro del Lavoro Sacconi; nel 2011 firma perché l’accordo taglia fuori il ministro e dall’altra parte del tavolo c’è una Presidente di Confindustria che ha appena litigato con lui; nel 2012 non firma perché l’accordo è promosso dall’odiato ministro Fornero; nel 2013 firma perché l’odiato ministro Fornero è ormai di fatto fuori gioco. Poi ciascuna di queste scelte viene giustificata con qualche sottolineatura, qualche parola-bandiera in più o in meno, cui viene attribuito un significato pratico molto maggiore di quanto essa non abbia in realtà.

Ammesso che l’avversità ideologica rispetto al governo Monti abbia giocato un ruolo, come giudica l’atteggiamento di un sindacato che antepone questi aspetti alla utilità di un’intesa sulla produttività?
Non troverei niente di male nel fatto che un grande sindacato cercasse di contrastare le interferenze della politica e del legislatore nel sistema delle relazioni industriali. Ma per poterle contrastare efficacemente c’è un unico modo: costruire un sistema di relazioni industriali forte e indipendente, indifferente all’alternarsi di forze politiche diverse al governo del Paese, capace di funzionare autonomamente e di risolvere tutti i problemi col metodo della negoziazione e dell’accordo. Il sistema italiano delle relazioni industriali, invece, è debole, privo di una visione comune alle parti sugli obiettivi da raggiungere e i vincoli da rispettare; e quanto più è debole, tanto più è permeabile agli interventi del legislatore. Ogni accordo non stipulato è uno spazio in più per l’ingerenza del governo di turno. Se poi questo è sgradito alla Cgil, ne deriva un motivo in più per non accordarsi; quindi ancora una volta uno spazio in più per l’ingerenza del legislatore.

Un circolo vizioso.
Sì. E, come in tutti i circoli viziosi, la responsabilità non è imputabile a una parte soltanto. Anche gli altri protagonisti, su entrambi i lati del tavolo, hanno le loro responsabilità nell’aver reso il sistema italiano delle relazioni industriali così permeabile alla politica. È un gioco sistemico, nel quale non si devono fare delle punteggiature arbitrarie; non ha molto senso cercare di stabilire “chi ha fatto il cattivo per primo”.

Ammesso che l’avversità ideologica rispetto a Monti-Fornero abbia giocato un ruolo, c’è anche la possibilità – confermata dalle affermazioni Cgil che riporto nell’articolo – che in realtà nel frattempo l’intesa sia cambiata e diventata effettivamente meno indigeribile. In particolare in due punti che le chiederei di commentare. Il primo: il riferimento, nelle condizionalità del “secondo binario”, allo Statuto dei lavoratori. Sarebbe stato rispettato comunque, ovvio, ma se lo stesso vieta il demansionamento, che senso ha citarlo accanto alla norma che incentiva anche questa possibilità?
Questa è una di quelle parole-bandiera di cui ho parlato prima: la sua presenza o assenza nel testo ha un significato simbolico. Qui il richiamo è all’articolo 13 dello Statuto, cioè alla norma fondativa della cosiddetta “rigidità funzionale” all’interno delle imprese. Da molti esperti della materia si è sottolineata la necessità di riscrivere questa norma; ma, in attesa che venga riscritta, la contrattazione collettiva può fare moltissimo – e in molti casi lo ha fatto – per renderne più flessibile il contenuto, definendo criteri di “equivalenza” delle mansioni più adattabili alle esigenze del processo produttivo e dell’evoluzione tecnologica. Per esempio, l’accordo interconfederale del giugno 2011 ha sancito la più ampia possibilità per la contrattazione aziendale di intervenire su questi criteri di equivalenza, anche in deroga rispetto al contratto nazionale. E quell’accordo lo ha firmato anche la Cgil. Per questo dico che il richiamo all’articolo 13 dello Statuto, nell’accordo del 24 aprile, è soltanto “di bandiera”, ma non ha un apprezzabile contenuto pratico.

Il secondo punto, sbandierato dalla Cgil come il più importante (e notato anche da altri sindacati, come la Cisl, sempre in sue note esplicative interne): nella circolare del ministero le modifiche alla distribuzione dell’orario di lavoro rientrano nel primo binario (dal secondo in cui si trovavano), e quindi bastano queste per attingere ai fondi della detassazione. In questo modo salta l’aspetto più innovativo della riforma, visto che il ministro Fornero ha ripetuto spesso che i fondi non sarebbero stati distribuiti a pioggia e che anzi ci sarebbero stati almeno “tre criteri” stringenti da rispettare. Come giudica questo cambiamento? Non le sembra che questo sia più sostanziale? Quanto meno, abbastanza sostanziale per far tornare il sistema d’incentivazione allo status quo ante?
Effettivamente può essere che sia come dice lei. Studierò la cosa più da vicino. Però mi pare strano che una circolare ministeriale abbia la pretesa di mutare sostanzialmente il contenuto di un provvedimento legislativo; tanto più se questo è di natura fiscale e competenti ad applicarlo sono i severissimi e occhiuti uffici del ministero dell’Economia e delle Finanze. I casi sono due: o tra circolare del ministero del Lavoro e decreto la divergenza sostanziale c’è, e allora gli uffici tributari applicheranno il decreto e non la circolare; oppure non c’è, e allora si ritorna al discorso sulle sottolineature lessicali usate come bandiere, ma prive di contenuto pratico. Resta il fatto che questi giochi di parole contribuiscono a complicare e rendere illeggibile la normativa italiana su questa materia. Oltre che a rendere più aleatorio l’esito delle controversie giudiziali: sia quelle in materia di lavoro, sia quelle tributarie.

Il 24 aprile, nel documento firmato da Cgil-Cisl-Uil e Confindustria, ritorna anche il riferimento al CCNL. Le deroghe si potranno fare lo stesso, certo, ma la Cgil ha ottenuto di poter rivendicare che le intese modificativie a livello aziendale o territoriale che consentono l’accesso allo sgravio fiscale devono muoversi nel solco tracciato dai CCNL. Come valutare questa modifica? E’ in linea con l’intesa del giugno 2011 o ne restringe un po’ portata e interpretazione?
È un altro caso di parola-bandiera: il contratto nazionale, la bandiera della Cgil. Ma la stessa Cgil ha firmato l’accordo interconfederale del giugno 2011, il quale stabilisce che il contratto nazionale può – nel rispetto di alcune regole – essere ampiamente derogato dal contratto aziendale. Dunque, il “solco tracciato dai CCNL” è oggi un solco molto ampio, ricco di possibili diramazioni, che dunque consente molte deviazioni anche assai rilevanti. Sul piano pratico, gli accordi aziendali in deroga continueranno a essere stipulati, anche da parte della stessa Cgil. E credo che anche i sindacalisti e i militanti di base della Cgil saranno contenti che gli sgravi fiscali si applichino con la dovuta ampiezza a questi accordi, quando saranno loro ad averli approvati e firmati.

Marchionne non era uscito da Confindustria nel 2011-2012 proprio perché questa intesa, e questo ritorno ossessivo al CCNL, impediva effettivamente che il suo modello di relazioni industriali all’americana si potessa applicare per intero?
Sì. Resta il fatto che, se gli accordi aziendali Fiat di Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco fossero stati stipulati dopo l’accordo interconfederale del giugno 2011, essi sarebbero stati tutti perfettamente compatibili con il contratto nazionale, reso derogabile da quell’accordo. Il problema è, semmai, che quell’accordo interconfederale ha, a tutt’oggi, un’applicazione effettiva molto limitata: la contrattazione aziendale non sta approfittando come dovrebbe degli spazi che quell’accordo apre, per sperimentare modelli nuovi di organizzazione del lavoro, di inquadramento professionale, di distribuzione dei tempi di lavoro, di struttura delle retribuzioni.

Come valuta il ruolo della circolare che – a elezioni già fatte, e con governo uscente – annacqua i criteri-Fornero? Le burocrazie sono alleate dello status quo? Non c’è stato controllo politico, forse, e il clima concertativo da dietro le quinte è tornato più forte?
È una lettura possibile. Del resto, sappiamo bene che solo una politica forte può affrancare l’amministrazione pubblica dai riti consociativi, dalla prassi per cui una mano lava l’altra. E un Governo dimissionario non può esprimere una politica forte.

Come valuta le concessioni di Confindustria di fronte al tentativo di rendere meno esigenti le condizioni per ottenere la detassazione sulla produttività?  Gli imprenditori non hanno sprecato un’occasione per farsi forza con un governo effettivamente riformatore come quello Monti-Fornero? E perché secondo lei?
Forse la vera spiegazione di questo comportamento di Confindustria va cercata proprio nella sua consapevolezza che, a parte le parole-bandiera, sul piano pratico queste pattuizioni cambiano poco o nulla. Come dire: se cambia poco o nulla, meglio evitare le liti e consentire alle imprese di beneficiare di un clima più disteso.

L’obiettivo delle parti sociali, in definitiva, è parso ancora una volta quello di arrivare a utilizzare i fondi pubblici senza accettare alcuna logica condizionale (o comunque con meno condizioni possibili). Che impatto ha questo atteggiamento sull’andamento della produttività in Italia? Quali insegnamenti per questo governo appena nato, specie nei rapporti con le parti sociali?
Il nostro sistema delle relazioni industriali è e resta prevalentemente diffidente alle grandi innovazioni, soprattutto sul piano dell’organizzazione del lavoro e della struttura delle retribuzioni. Ovvio che la produttività ne risulti frenata. E che ne risulti frenata a sua volta la crescita economica complessiva. Basti pensare all’effetto tonificante che potrebbe avere sulla nostra economia meridionale una contrattazione aziendale diffusa che riservasse maggiore spazio alla parte variabile della retribuzione in relazione alla produttività o alla redditività dell’azienda, rispetto allo zoccolo fisso del minimo tabellare. Sarebbe il contrario delle “gabbie salariali”: questo significherebbe sgabbiare la contrattazione collettiva, e consentire al sindacato di attirare nel nostro Mezzogiorno il meglio dell’imprenditoria mondiale e di guidare i lavoratori nella scommessa comune con i buoni imprenditori sui loro piani industriali innovativi.

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