CHE COSA PUÒ FARE IL GOVERNO LETTA IN MATERIA DI LAVORO

NON È REALISTICO AFFIDARE L’ATTUAZIONE DEL PROGRAMMA  YOUTH GUARANTEE LANCIATO DALL’UNIONE EUROPEA AI CENTRI PUBBLICI PER L’IMPIEGO, CHE MEDIANO MENO DEL 3% DEGLI INCONTRI FRA DOMANDA E OFFERTA: OCCORRE VALORIZZARE LE CAPACITÀ DELLE IMPRESE DEL SETTORE

Articolo di Elisabetta Gualmini pubblicato su la Stampa del 24 maggio 2013

Fa bene Enrico Letta a ripetere in ogni occasione che tra le priorità del suo governo ci sono gli interventi per il lavoro. Dopo averlo detto a Bruxelles, lo ha confermato ieri all’Assemblea annuale di Confindustria. Col doppio risultato di strappare l’agenda politica dalle mani di Berlusconi e di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dal fuoco amico dei suoi compagni di partito che fanno a gara a tirar fuori proposte “indecenti” rispetto ai vincoli della strana maggioranza.
La determinazione del premier è decisamente apprezzabile, purché ci sia la consapevolezza, sua e dei suoi ministri, che un esecutivo di emergenza e di larghe intese, può fare solo cose piccole e ad efficacia immediata. Essendo chiaro che quel “siate ambiziosi” di Van Rompuy ai leader europei in vista del vertice di Berlino sul lavoro più che convinzione era cortesia. E che la partita è davvero complessa, come il governo dovrebbe aver capito, dopo che la sua prima mossa è stata messa sotto accusa. Il  rifinanziamento degli ammortizzatori in deroga tramite i fondi sulla produttività, togliendo cioè ai lavoratori per dare ai lavoratori, ha già fatto evocare prima a Camusso e ieri a Squinzi una inutile guerra tra poveri. Meglio abbandonare promesse altisonanti e convertirsi fin da subito a un  minimalismo pragmatico.
In particolare, alcuni propositi indicati dal Ministro del Welfare – gli incentivi per la staffetta generazionale e la riorganizzazione dei centri per l’impiego – rischiano di non produrre alcun esito, e comunque avrebbe senso parlarne quando sarà stato accertato che sono finanziariamente sostenibili. Lo scambio “solidaristico” proposto da Giovannini, tra chi si appresta ad uscire dal mercato del lavoro, che accetta volontariamente di lavorare di meno, e chi si accinge ad entrarvi, assomiglia molto a uno strumento introdotto circa 30 anni fa (nel 1984), il contratto di solidarietà espansivo. Uno strumento che non ha mai funzionato nel nostro paese sia perché prevede un contributo dello stato piuttosto oneroso, sia perché in contesti economici difficili le imprese non sempre sono riuscite ad assumere e hanno finito per utilizzare la staffetta solo per metà, cioè per rendere meno indolore l’uscita di chi, comunque, sarebbe stato licenziato. L’idea, di per sé suggestiva, di “lavorare meno per lavorare tutti”, importata dalla Francia e adottata con entusiasmo dalla Cisl di Pierre Carniti, venne presto accantonata e di scambio tra padri e figli non si parlò più. Altro che mano sul cuore (e sul portafoglio). Ognuno pensasse a sé. Non si comprende come nell’economia dal fiato corto di oggi, in cui lo stato non ha soldi per nessuno, la staffetta possa funzionare, prevedendo la copertura completa dei contributi pensionistici per gli ultimi tre anni di attività dei lavoratori, messi nel frattempo in part-time.
Ancora più insidiosa è l’idea di riformare i centri per l’impiego e affidare loro la gestione dei fondi del programma europeo “Youth guarantee” (questi certi per fortuna) a favore dell’inserimento lavorativo dei giovani. I centri per l’impiego sono tra gli enti pubblici più inefficienti. Completamente scavalcati dalle agenzie private di collocamento, intermediano meno del 3% dell’offerta di lavoro. Pensare di riportarli in vita per gestire la più importante delle partite europee dei prossimi mesi, come ha accennato il sottosegretario Dell’Aringa, va contro ogni principio di realtà. Parliamo peraltro di strutture oggi in mano a quelle province su cui pendono impietose le forbici del Ministro Delrio. Se il privato funziona meglio (e nel collocamento funziona meglio almeno dalla riforma del 1949), bisogna avere il coraggio di dirlo e di coinvolgerlo pienamente, ovviamente sotto un rigido controllo pubblico. Altre vie non ce ne sono.
Insomma, c’è da sperare che il dibattito sul lavoro prenda la piega giusta. Che non vuol dire stare fermi, ma agire tenendo presenti gli elementi di forza e di debolezza del sistema. Per evitare di dover sempre tornare sui propri passi, come per la legge Fornero, che ora sono tutti pronti a ritoccare verso una maggiore flessibilità in entrata, quando un anno fa, si era chiesto a gran voce un argine contro la precarietà. Fare cose piccole e concrete. E coerenti. Mai come di questi tempi l’azione di governo deve essere minima ed esatta. Non ingigantita né sensazionale. Ai fronzoli purtroppo nessuno crede più.

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