PERCHÉ È IMPORTANTE SPIEGARE IL LAVORO AI RAGAZZI

MANCA UN SERVIZIO DI ORIENTAMENTO SCOLASTICO E PROFESSIONALE CHE RAGGIUNGA CAPILLARMENTE OGNI ADOLESCENTE ALL’USCITA DA OGNI CICLO DI STUDI, NE INDIVIDUI LE COMPETENZE E LE ASPIRAZIONI E LO INFORMI SULLE OPPORTUNITÀ DI LAVORO O FORMAZIONE MIRATA CHE GLI SI OFFRONO NELLA ZONA E FUORI DI ESSSA

Intervista a cura di Massimo Giardina pubblicata per l’Ordine, quotidiano di Como il 1° dicembre 2013 – Sono disponibili on line anche la copertina, una selezione delle illustrazioni e l’indice del mio libro

Il filosofo e politico francese Tocqueville asseriva che il lavoro non può essere considerato un diritto o la conseguenza sarebbe che ogni cittadino disoccupato potrebbe far causa allo Stato per la sua condizione. Qual è il ruolo del pubblico nei confronti del mercato del lavoro?
Sul significato politico e il contenuto giuridico preciso dell’articolo 4 della nostra Costituzione, che sancisce il “diritto e dovere” del lavoro, si sono versati fiumi di inchiostro. Credo, comunque, che l’affermazione di Tocqueville sia valida anche oggi, e in particolare in riferimento a questa norma costituzionale.

Dunque, in che cosa consiste secondo lei il diritto al lavoro di cui parla la Costituzione?
Quell’articolo impone allo Stato non l’obbligo di assumere alle proprie dipendenze ogni disoccupato che avanzi questa pretesa, ma quello di attivare tutte le misure necessarie, per un verso, allo scopo di far funzionare bene il mercato del lavoro, facendo in modo che nessuno ne resti tagliato fuori, nessuno resti permanentemente in fondo alla coda; per altro verso allo scopo di perseguire l’obiettivo della piena occupazione: e qui il discorso si sposta sulle scelte di politica economica generale.

Lei ha recentemente scritto un libro per i ragazzi (Ichino, Il lavoro spiegato ai ragazzi, Mondadori) dove pone in rilievo il fatto che in Italia c’è lavoro, ma non si vede. Dove sta la disfunzione: dal lato di coloro che offrono opportunità e non sono in grado di pubblicizzarle o dal lato dei soggetti che ricercano un posto, poco disposti a sacrificare la loro idea di lavoro e poco disponibili alla mobilità?
Per quanto questo possa apparire incredibile, in Italia in questi ultimi anni, nonostante la congiuntura economica gravissima, si sono stipulati mediamente tra gli ottocentomila e i novecentomila contratti di lavoro ogni mese, dei quali circa uno su sei a tempo indeterminato. Dunque, nonostante tutto, un flusso enorme di incontri fra domanda e offerta di lavoro. Il problema è che l’accesso a questo flusso è riservato quasi esclusivamente a chi dispone delle reti parentali, professionali o amicali che contano a questo fine. Il disoccupato, o il giovane che entra per la prima volta nel mercato del lavoro, se non dispone di quelle reti, resta tagliato fuori.

I Centri per l’impiego non aiutano?
Chi frequenta quel grande flusso di incontri fra domanda e offerta non passa quasi mai dai Centri per l’Impiego. E chi frequenta i Centri per l’Impiego non frequenta quei flussi. Sono due mondi profondamente separati. Questo è il problema che occorre urgentemente risolvere. Ma è comunque importante che i giovani sappiano che quei flussi ci sono. Potremmo avere più lavoro; ma non è vero che il lavoro non c’è più. Poi c’è il problema del difetto grave dei servizi di orientamento scolastico e professionale: i nostri adolescenti compiono le scelte decisive per il loro futuro professionale senza disporre delle informazioni decisive.

Nel libro si riferisce alla pubblicazione di un testo di Rifkin, La fine del lavoro, criticandolo perché – lei dice – non è vero che il bisogno di lavoro umano sia destinato a cessare. Ci sono dunque ancora speranze per le nuove generazioni?
Certo che sì. Influirà molto sul loro futuro, però, il modo in cui lo Stato adempirà i propri due obblighi di cui abbiamo parlato prima, riguardo al funzionamento del mercato del lavoro: miglioramento dei meccanismi che presiedono all’incontro fra domanda e offerta di lavoro e politica tendente alla piena occupazione, che implica creare le condizioni per tirare in casa nostra il meglio dell’imprenditoria mondiale.

In quali fattori il mercato del lavoro italiano si differenzia negativamente dagli altri Paesi europei? Esistono, invece delle caratteristiche nostrane positive?
Ancora una volta il discorso si divide in due parti: quella relativa ai servizi nel mercato del lavoro e quella relativa alla politica economica e in particolare alla nostra capacità di alimentare la crescita economica con gli investimenti necessari. Su tutti e due i terreni il nostro Paese soffre di handicap gravi rispetto agli altri Paesi europei maggiori con cui dobbiamo confrontarci. Sul terreno dei servizi nel mercato del lavoro dobbiamo impegnarci a recuperare in breve tempo un ritardo che si misura in decenni rispetto ai Paesi del centro e nord-Europa, soprattutto per quel che riguarda la coniugazione stretta fra politiche “passive” e “attive” del lavoro, cioè fra interventi di sostegno del reddito ai disoccupati e interventi volti a favorire il loro rapido inserimento nel tessuto produttivo, al tempo stesso controllando la loro disponibilità effettiva.

E sul terreno degli investimenti?
L’Italia è oggi ermeticamente chiusa agli investimenti diretti esteri. Se riuscissimo ad allinearci a un Paese europeo mediano, per questo aspetto, potremmo avere un maggior flusso annuo di investimenti in entrata pari al 3,5 o al 4 per cento del P.I.L., che vuol dire dai 50 ai 60 miliardi all’anno, che oltretutto porterebbero con sé piani industriali innovativi, che aumenterebbero non soltanto la domanda di manodopera in Italia, ma anche la produttività del nostro lavoro. Per questo dobbiamo agire in diverse direzioni: miglioramento dell’efficienza delle amministrazioni e in particolare di quella giudiziaria, riduzione dei costi dell’energia, miglioramento delle infrastrutture ivi compresa l’alta velocità, ma anche semplificazione della nostra legislazione del lavoro e allineamento degli standard protettivi rispetto alle migliori esperienze europee.

Capitolo pensioni. Meglio andare in pensione a 55 o a 65 anni?
Meglio a 65. Meglio per tutti: per la persona interessata, che guadagna di più continuando a coltivare le proprie relazioni socio-professionali, e per la collettività, che può destinare le risorse disponibili a investimenti produttivi invece che a una rendita vitalizia.

Coloro che difendono la pensione precoce dicono che in questo modo si aumenta la rotazione dei posti di lavoro
Chi sostiene questa tesi commette l’errore di ritenere che per dare lavoro ai giovani sia necessario, o anche solo utile espellere dal tessuto produttivo gli anziani. Come mi propongo di mostrare nel libro Il lavoro spiegato ai ragazzi le cose sul piano generale non funzionano così: i Paesi che hanno i tassi più alti di occupazione nella fascia dei cinquantenni e sessantenni sono anche quelli che hanno i tassi più alti di occupazione nella fascia di età fra i 18 e i 30 anni. Il sessantenne che continua a lavorare guadagna e spende di più, senza prelevare denaro pubblico, che può essere destinato a ridurre le imposte, oppure all’istituzione di servizi, che contribuiscono al benessere generale creando nuova domanda di occupazione.
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