COME VALORIZZARE I CENTRI PER L’IMPIEGO PER MEZZO DEL “CONTRATTO DI RICOLLOCAZIONE”

GLI UFFICI PUBBLICI DI COLLOCAMENTO POSSONO SVOLGERE UN RUOLO IMPORTANTE DI CONTROLLO, GARANZIA DI TRASPARENZA E COLLEGAMENTO TRA GLI UTENTI E I SERVIZI DI  ASSISTENZA INTENSIVA NEL MERCATO DEL LAVORO, SVOLTI DALLE AGENZIE CHE POSSEGGONO IL RELATIVO KNOW-HOW

Contributo di Pietro Ichino in corso di pubblicazione su Link, magazine di Manpower, dicembre 2013

Di una riqualificazione dei servizi pubblici per l’impiego si parla ormai da trentacinque anni: fu del febbraio 1979 la prima presentazione, da parte del ministro del Lavoro pro tempore Vincenzo Scotti, di un disegno di legge per la promozione di esperimenti-pilota per il miglioramento dell’efficienza degli uffici di collocamento. Da allora, nonostante i numerosi interventi legislativi susseguitisi, se si escludono pochi casi isolati, non si sono fatti dei passi avanti significativi su questo terreno.
Le esperienze di altri Paesi europei inducono a ritenere che l’errore consista nella pretesa di attribuire al servizio pubblico nel mercato del lavoro una funzione che esso per sua natura non può svolgere nel modo più efficiente, o può svolgere solo in piccola parte: la funzione di assistenza intensiva ai lavoratori che incontrano difficoltà nell’inserimento o reinserimento nel tessuto produttivo, di loro riqualificazione in relazione agli skill shortages che emergono nel mercato, di controllo sulla loro disponibilità effettiva, giorno per giorno, per tutto quanto è necessario nel percorso verso l’inserimento effettivo.
Una soluzione del problema può essere cercata attraverso la sperimentazione da parte delle Regioni del “contratto di ricollocazione”: uno strumento modellato sulle migliori esperienze nord-europee, volto a coniugare efficacemente le c.d. politiche passive del lavoro (erogazione del sostegno del reddito) con le politiche attive (inserimento effettivo nel tessuto produttivo), attraverso un meccanismo che garantisca la condizionalità del sussidio erogato: quella condizionalità che in Italia non ha mai funzionato; e il cui difetto è la causa principale della nostra incapacità di coniugare efficacemente politiche passive e politiche attive del lavoro. Il progetto, prevede l’attivazione delle agenzie di outplacement private accreditate, in concorrenza tra loro, mediante voucher erogati dalla Regione e pagabili soltanto a seguito dell’inserimento effettivo della persona interessata in un posto di lavoro.
A proposito di questo esperimento è stata espressa da qualcuno, anche all’interno dell’attuale compagine governativa, la preoccupazione che esso possa tradursi in una mortificazione del ruolo dei Centri pubblici per l’Impiego gestiti dalla stessa Regione o Provincia. A chi manifesta questa preoccupazione è facile obiettare che, per un verso, nessun Centro per l’Impiego è attrezzato per questo servizio di assistenza intensiva (tutt’altra cosa rispetto al puro e semplice servizio di collocamento tradizionale); per altro verso, l’esperimento consente di fare del servizio pubblico uno snodo molto importante del nuovo sistema, attribuendogli il ruolo di one stop shop, di informazione e orientamento per gli utenti (essenziale per la buona scelta da parte loro dell’agenzia di cui avvalersi tra quelle accreditate), di classificazione degli stessi per grado di collocabilità (dal quale dipende l’entità del voucher), di garanzia di trasparenza e di monitoraggio circa il successo dell’operazione (dal quale dipende il pagamento all’agenzia del voucher, che – come si è detto – si configura come un success fee). D’altra parte, in Italia le politiche passive del lavoro sono di competenza legislativa e amministrativa dello Stato, mentre quelle attive sono di competenza regionale; è indispensabile uno strumento che consenta, nonostante questa scissione istituziohnale, di coordinarle efficacemente; e il contratto di ricollocazione è proprio questo.
È davvero sconcertante che l’emendamento presentato da venti senatori alla legge di stabilità, mirato a promuovere questo esperimento regionale, sia stato respinto con la motivazione secondo cui “se c’è disponibilità di denaro pubblico per i servizi nel mercato del lavoro, questo non deve essere investito sui servizi privati, ma solo sul servizio pubblico”. Chi sostiene questa tesi non considera che il servizio non perde la propria natura pubblica per il fatto di essere svolto da agenzie private, quando queste operino alla luce del sole nell’alveo di un programma pubblico e sotto il controllo pubblico. Fatto sta che nella legge di stabilità figurano stanziamenti per circa 800 milioni per le politiche del lavoro passive, ivi compreso il rifinanziamento della Cassa integrazione utilizzata impropriamente in sostituzione dell’indennità di disoccupazione, e non è stanziato neppure un euro per le politiche attive, che peraltro – nonostante tutti gli impegni assunti dall’Italia nei confronti della UE – non vengono neppure nominate.
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