NUOVE REGOLE PER GLI IMMIGRATI

OCCORRE RIVEDERE CON SANO PRAGMATISMO L’INTERO IMPIANTO DELLE NOSTRE POLITICHE DELL’IMMIGRAZIONE, SECONDO IL PRINCIPIO DI SOLIDARIETA’ E LE ESIGENZE DEL NOSTRO TESSUTO PRODUTTIVO

Articolo di Tito Boeri pubblicato su la Repubblica del 7 gennaio 2014

Ha fatto bene Matteo Renzi a porre la riforma delle politiche dell’immigrazione al centro dell’agenda politica in vista delle elezioni europee. Servirà anche a prepararci meglio al semestre italiano di presidenza dell’Ue, dato che per salvare l’euro ci vuole una maggiore mobilità del lavoro fra i paesi dell’Unione.
I predecessori di Renzi alla guida del maggior partito di centrosinistra hanno sempre evitato di parlare di immigrazione in prossimità di campagne elettorali. A parole, perché temevano di dare spazio alla Lega o ad altri movimenti xenofobi. In verità perché per un partito di centrosinistra è sempre difficile trattare di immigrazione, un tema su cui l’ideologia di chi vorrebbe sempre e comunque aprire le frontiere ai più poveri si scontra con gli interessi economici della base elettorale. Per evitare divisioni laceranti, si è preferito perciò lasciare l’iniziativa agli altri, limitandosi al massimo ad agire di rimessa, contrastando i palesi errori fatti dagli altri anziché avanzare proprie proposte. E non è un caso che sin qui lo stesso Renzi abbia parlato di riformare la legge Bossi-Fini quando in realtà gran parte delle nostre normative sull’immigrazione si regge ancora sull’impianto della legge Turco-Napolitano.
È perciò opportuno che le proposte di riforma che verranno formulate siano capaci, da una parte, di parlare all’ideologia della solidarietà senza frontiere e, dall’altra, di rivedere con sano pragmatismo l’intero impianto delle nostre politiche dell’immigrazione, distinguendo fra le competenze (e responsabilità) che spettano al nostro paese e quelle che richiedono livelli di governo sovranazionali.
Chi vorrebbe aprire le frontiere a tutti i poveri non tiene conto del fatto che la solidarietà è un bene che si regge sulla coesione sociale. Non si può allargare a dismisura la platea dei beneficiari senza rischiare di corrompere alla base lo spirito solidaristico. Si tratta di qualcosa che si accetta di fare in prima persona (o si delega a uno Stato) mettendo in secondo piano i propri interessi individuali, solo a condizione di circoscrivere il novero di coloro che ne potranno beneficiare. Devono essere parte di un gruppo magari anche molto grande, ma di cui ci si sente di far parte, anche perché la solidarietà ha spesso un contenuto assicurativo: si aiuta pensando che un giorno potrebbe toccare a noi essere dalla parte di chi riceve anziché dare. Per questo l’immigrazione senza controlli uccide la solidarietà. Le politiche dell’immigrazione servono proprio a permettere che i flussi migratori avvengano con i tempi necessariamente lunghi dell’integrazione sociale dei nuovi arrivati. L’immigrazione senza restrizioni conosce brusche accelerazioni e può andare contro gli interessi degli stessi immigrati che, in assenza di solidarietà, rischiano di trovarsi peggio che nel loro paese d’origine, come prova il trattamento riservato in alcuni dei nostri “centri di accoglienza”.
La riforma dell’immigrazione dovrebbe perciò imporre gradualità negli ingressi di immigrati proprio mentre si investe nella loro integrazione. Noi sin qui abbiamo fatto esattamente l’opposto. Non abbiamo cercato di contenere gli arrivi, ma abbiamo in tutti i modi dissuaso la permanenza, sottoponendo chi rimaneva da noi per un periodo superiore a quello di un contratto stagionale a una burocrazia infinita e a vessazioni continue. I decreti flussi dei governi di centrodestra sono stati in genere molto generosi in quanto a numero e tipologia di ingressi, venendo spesso più incontro alle esigenze delle imprese che a quelli delle famiglie italiane, ma hanno sistematicamente ricercato una disparità di trattamento fra immigrati e popolazione autoctona. Al punto che gli indicatori di integrazione degli immigrati recentemente compilati dall’Ocse mostrano come l’Italia sia molto in ritardo e fatichi soprattutto a dare istruzione di qualità e opportunità di impiego agli immigrati di seconda generazione, quelli che generalmente si integrano più facilmente.
La nuova politica dell’immigrazione dovrebbe cercare di prosciugare il bacino dei cosiddetti overstayers, immigrati che rimangono da noi alla scadenza del permesso di soggiorno, autorizzando il lavoro legale in base alle segnalazioni dei datori di lavoro entro un numero programmato senza aspettare il prossimo decreto flussi e senza imporre agli immigrati già da noi di tornare nel loro paese d’origine per poi rientrare legalmente da noi. Anacronistico anche imporre che i permessi vengano accordati solo a chi ha già un lavoro prima di venire, come se i nostri fatiscenti servizi di collocamento fossero in grado di operare nei paesi da cui provengono gli immigrati: deve essere possibile avere un permesso temporaneo mentre si cerca un impiego. Al tempo stesso si potrebbero aprire una serie di canali per la stabilizzazione del soggiorno (prima ancora che per la concessione della cittadinanza), ad esempio per minori stranieri nati in Italia o che abbiano completato con profitto in Italia un intero ciclo scolastico. Importante favorire in questo processo gli immigrati di seconda generazione, impedendo che paghino per errori compiuti dai loro genitori (magari perché segnalati alla pubblica sicurezza in quanto arrivati illegalmente da noi) e garantendo loro comunque il diritto allo studio.
Con una riforma dell’immigrazione di questo tipo potremmo avere le carte in regola per contribuire ad una migliore gestione del fenomeno a livello europeo, con costi dei controlli alle frontiere meglio ripartiti e con una gestione comune del problema dell’accesso ai sistemi di protezione sociale. Durante la presidenza italiana ci si potrebbe infatti accordare per pagare con il bilancio comunitario l’assistenza sociale ai cittadini Ue che si sono appena trasferiti in un altro paese dell’Unione senza trovare lavoro, prendendo come riferimento il livello di assistenza nel paese d’origine. È un modo per scoraggiare il cosiddetto “welfare shopping”, impedire la gara al ribasso fra paesi Ue nel fornire assistenza ai poveri e favorire al tempo stesso l’integrazione e la mobilità del lavoro, fondamentale nell’ambito di una unione monetaria in presenza di andamenti divergenti delle diverse economie. In questa battaglia la Germania potrebbe essere, per una volta, al nostro fianco. Oggi la paura che gli immigrati abusino dei sistemi di welfare è ciò che mette in difficoltà Angela Merkel di fronte alla rimozione delle residue barriere alla mobilità di bulgari e rumeni, i cui arrivi, in provenienza soprattutto da Spagna e Italia, si sono quintuplicati dall’inizio della crisi.

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