UN GIUDIZIO RIGOROSO MA NON FAZIOSO SULLA MANOVRA ECONOMICA DEL GOVERNO

RELAZIONE DI MINORANZA DI ENRICO MORANDO SULLA CONVERSIONE IN LEGGE DEL D.-L. N. 112/2008 – DAL RESOCONTO STENOGRAFICO DELLA SEDUTA ANTIMERIDIANA DEL SENATO DEL 31 LUGLIO 2008

PRESIDENTE. Il relatore di minoranza, senatore Morando, ha chiesto l’autorizzazione a svolgere la relazione orale. Non facendosi osservazioni, la richiesta si intende accolta. Pertanto, ha facoltà di parlare.

MORANDO, relatore di minoranza. Signor Presidente, fin dall’inizio abbiamo finalizzato il nostro lavoro sul decreto-legge n. 112 al conseguimento di due precisi obiettivi.

Il primo: correggere le più gravi violazioni, contenute nel testo trasmessoci dalla Camera dei deputati, delle regole e delle procedure della decisione e della gestione del bilancio e mettere rimedio a macroscopiche discriminazioni sociali operate dalle norme in esame a danno delle componenti più deboli della nostra società, dalle persone anziane prive di qualsiasi mezzo di sostentamento fino ai lavoratori precari.

Il secondo: delineare i termini essenziali di una credibile alternativa di politica economica e di governo della finanza pubblica, capace di tenere assieme in un disegno coerente ed unitario interventi immediati a sostegno delle famiglie e dei redditi falcidiati dall’aumento dei prezzi e riforme strutturali capaci di favorire il ritorno del Paese su un sentiero di crescita significativa e duratura.

Sul primo obiettivo abbiamo ottenuto, nel dibattito e nel confronto di Commissione, qualche significativo risultato. L’articolo 60, signor Presidente, in tema di flessibilità nella gestione del bilancio, è stato profondamente modificato, meglio tutelando la riserva di legge – cioè il ruolo del Parlamento – nelle scelte allocative. Tuttavia, il carattere transitorio e sperimentale delle soluzioni previste nasconde a malapena il contrasto e la distanza tra queste stesse soluzioni e l’articolo 81, terzo comma, della Costituzione. Ed è davvero difficile non vedere che permane una grave contraddizione, che segnalo alla Presidenza del Senato, foriera di disordine nella prossima sessione di bilancio, tra la disposizione contenuta nell’articolo 1 del provvedimento in esame in tema di contenuto proprio della legge finanziaria e quanto previsto sullo stesso tema dalla legge di contabilità. Così che è resa problematica, al limite della totale discrezionalità, la decisione dei Presidenti di Camera e Senato nientepopodimeno che sulla ammissibilità degli emendamenti alla legge finanziaria stessa.

La questione, signor Presidente, è infatti la seguente: prevarrà quanto previsto dall’articolo 1 del provvedimento in titolo, secondo cui nella finanziaria del prossimo anno non potranno essere inserite norme di promozione dello sviluppo, o prevarrà quanto disposto dalla legge 5 agosto 1978, n. 468, legge tuttora in vigore, la quale prevede invece che possano perfettamente far parte della finanziaria e del suo contenuto proprio le misure di sviluppo?

In Commissione sono state corrette le scelte discriminatorie compiute dal Governo e dalla maggioranza alla Camera a danno degli italiani più deboli: gli anziani bisognosi di un assegno sociale. Ma Governo e maggioranza qui, al Senato, pervicacemente si sono ostinati a ripetere la stessa discriminazione a danno di quei cittadini italiani che tanti anni fa emigrarono, ad esempio, in Argentina e ora sono tornati nel nostro Paese dove godono di un sostegno al reddito che questa norma mette gravemente in dubbio.

Anche l’articolo 21, in tema di rapporti di lavoro a tempo determinato, è cambiato, riducendo in parte la spinta che forniva il testo proveniente dalla Camera deputati, in aperto contrasto con le finalità e la lettera delle leggi Treu e Biagi all’approfondimento del dualismo del mercato del lavoro italiano. Ma Governo e maggioranza non hanno avuto la forza – e forse sarebbe bastato il buonsenso – di cassare definitivamente la norma relativa alle cause di lavoro in corso, che resta nel testo e che appare destinata a certa censura della Corte costituzionale, non prima però di essere stata fonte di nuove ingiustizie e storture.

In conclusione, signor Presidente, su questo primo punto, il testo uscito dalla Commissione bilancio è migliore di quello giunto dalla Camera, ma noi riproponiamo all’Aula le nostre proposte d’intervento che hanno trovato per il momento nella maggioranza – lo debbo dire – orecchie attente, ma resistenze per adesso prevalenti.

Quanto alla nostra proposta di politica economica alternativa a quella del Governo, signor Presidente, partiamo dall’ansia e dalle preoccupazioni delle famiglie italiane: i prezzi aumentano e i redditi, i salari, le pensioni non riescono a tenere loro dietro. Il Paese sta importando inflazione trainata dall’aumento dei prezzi dei prodotti energetici, alimentari e delle materie prime.

È come, colleghi, se l’Italia dovesse pagare a qualcuno che sta fuori dal Paese una tassa: la tassa da inflazione importata. Non esiste una politica economica e fiscale che consenta al sistema Paese di sottrarsi a tale imposizione: la dobbiamo pagare. La politica economica e fiscale può invece decidere chi in Italia sopporta il peso maggiore di tale tassa. Il Governo, infatti, con il suo DPEF – che, come ha detto il relatore, con questo provvedimento comincia a tradursi in opera – non ha affatto ignorato il tema. Il Governo, signor Presidente, programma in quella sede – programma, non prevede, come vedo scrivere e sento dire sistematicamente – di far pagare questa tassa ai redditi da lavoro: ciò significa pressione fiscale crescente nei prossimi cinque anni rispetto al tendenziale a legislazione vigente. È un modo complicato per dire che, se il Governo non facesse nulla, nei prossimi cinque anni la pressione fiscale si ridurrebbe, ma al contrario interviene, così ottenendo il risultato di farla aumentare. I salari crescono meno della produttività, come risulta chiaramente nei quadri del Documento di programmazione economico-finanziaria.

Noi, colleghi della maggioranza e del Governo, proponiamo di seguire un’altra strada, subito: una forte riduzione della pressione fiscale sui redditi da lavoro. Occorrono 5-6 miliardi di euro per realizzare un aumento generalizzato della detrazione IRPEF e due misure selettive: la riduzione del prelievo sulla quota di salario da contrattazione di secondo livello e una significativa detrazione per spese di cura a favore delle donne lavoratrici, quale che sia la loro attività.

In questa proposta – questo è il suo aspetto qualitativo, a mio giudizio – intervento di emergenza sulla situazione drammatica che si sta determinando a proposito dei redditi nel Paese e strategia di innovazione strutturale si incontrano. Un po’ di sollievo per i redditi, sì, ma all’interno di una strategia che ha nell’aumento della partecipazione delle donne alle forze di lavoro e nella riforma del modello contrattuale due suoi capisaldi essenziali. (Brusìo).

 

Noi proponiamo di trarre le risorse per il finanziamento di questo intervento da una riduzione, forte e crescente nel tempo, della spesa corrente primaria ottenuta con riforme invece che con tagli orizzontali, i quali o sono brutali e ingiusti, quando sono efficaci, oppure sono poco efficaci, quando non sono brutali e ingiusti (e in quel caso non lo sono perché non si determinano), come dimostra l’esperienza che abbiamo compiuto come sistema Paese tra il 2001 e il 2006.

Le nostre su questo punto non sono parole prive di sostanza. La rivoluzione della pubblica amministrazione che proponiamo è tecnicamente definita – lo vorrei dire anche per gli organi d’informazione – nel disegno di legge del Gruppo del Partito Democratico, primi firmatari il professore Ichino e la capogruppo del Partito Democratico Finocchiaro, che abbiamo da tempo presentato in questo ramo del Parlamento e che è stato inserito organicamente nell’emendamento 1.1 al disegno di legge al nostro esame.

Questo è il contesto in cui noi proponiamo emendamenti che cercano di porre ostacoli e di ridurre l’impatto dei tagli operati dal decreto in esame. Fuori da questo robusto contesto propositivo, essi potrebbero apparire frutto di una mera attività di resistenza, di difesa dello status quo. Dentro questo contesto propositivo, essi appaiono invece per quello che sono: strumenti dell’opposizione volti a dare alimento, nella società e nel confronto parlamentare, ad una strategia di radicale cambiamento del Paese, in tutti i campi.

Di questa strategia sono parte essenziale vere riforme nella struttura dei mercati, volte a portare concorrenza dove non ce n’è o non ce n’è abbastanza, ad abbattere barriere, a superare quelle chiusure monopolistiche e oligopolistiche che danno luogo a quegli extraprofitti che i Governi mediocri, al massimo, tassano (come fa questo Governo in questo provvedimento) e che i Governi riformisti eliminano, cambiando a favore dei cittadini e delle imprese le regole che rendono possibile la realizzazione degli extraprofitti.

Su questi temi cruciali il Governo ha inserito nel decreto una grande quantità di quelle che noi abbiamo chiamato mezze misure: le fondazioni per le università, i servizi pubblici locali. In proposito, il Governo e la maggioranza nel dibattito in Commissione ci hanno ripetuto (lo ha fatto anche il relatore) che è vero che tutto questo è ancora poco, ma che tuttavia si tratta dei primi passi. Il fatto è, collega relatore, che in tema di libertà delle attività economiche e di apertura dei mercati le mezze misure non servono. Anzi, il rischio (lo abbiamo imparato noi del centrosinistra a nostre spese, purtroppo) è che le mezze misure in questo campo determinino tutte le reazioni negative alle liberalizzazioni che si possono determinare, senza che se ne vedano effettivamente i risultati e i vantaggi positivi.

Di qui la nostra sfida a fare sul serio, anche in questo campo, tradotta in precisi emendamenti, che avete puntualmente respinto anche quando eravate costretti ad ammettere l’efficacia degli emendamenti stessi. Di qui la nostra reazione a misure che non sono passi in avanti, per quanto piccoli ed incerti, ma vere e proprie controriforme.

Per tutte voglio citare le norme in tema di mercato del lavoro. Tutti, noi e voi, colleghi di maggioranza, diciamo che il principale problema del mondo del lavoro italiano è il suo crescente dualismo, la profonda spaccatura tra la quota crescente di lavoratori per i quali flessibilità è sinonimo di precarietà e la quota, in costante diminuzione, che può contare su un sistema di tutele più adeguato. Si avverte dunque, avvertiamo assieme la drammatica urgenza di politiche di ricomposizione unitaria del mondo del lavoro italiano, da tenere collegato anche attraverso un coerente sistema di tutele universali e crescenti nel tempo, man mano che il rapporto di lavoro va avanti e si consolida. In questo decreto, invece, Governo e maggioranza con l’articolo 21 infilano in tutta fretta misure e norme che approfondiscono il dualismo, che lo rendono stabile, più grande, più determinato e duraturo, che addirittura esasperano il dualismo stesso. È un errore grave, a cui noi vi invitiamo ancora a mettere rimedio.

Ecco, signor Presidente, quali sono le linee essenziali della nostra alternativa. Nell’avanzarle oggi non ci illudiamo di trovare immediato ascolto nel Governo e nella maggioranza, come non lo abbiamo trovato nei lavori di Commissione. Crediamo, però, di contribuire per questa strada non solo a preparare il Governo che verrà, quando sarà il momento, ma anche a migliorare, facendo così l’interesse del Paese, già oggi il sistema delle aspettative, così rilevante per l’andamento dell’economia dei Paesi moderni e della nostra Italia. (Applausi dai Gruppi PD e IdV).

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