IL MERCATO DEL TEMPO DI LAVORO

PERCHÉ LA RICETTA “LAVORARE MENO LAVORARE TUTTI” NON FUNZIONA: IL LAVORO NON È UNA QUANTITÀ DATA, TALE PER CUI CHI LAVORA DI PIÙ TOGLIE LAVORO AD ALTRI

Capitolo IV estratto dal libro Il lavoro e il mercato (1996) – Le note si trovano in coda al testo

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Sommario:
28. I vincenti e i perdenti
29. Sei alternative di politica del lavoro di fronte alla rivoluzione tecnologica
30. Perché l’imposizione di una riduzione degli orari non è lo strumento adatto per la redistribuzione del lavoro
31. Possibilità di redistribuire il lavoro assecondando la tendenza fisiologica alla riduzione dei tempi di lavoro: come rendere appetibile per le imprese il part-time e lo short full time
32. Il grande investimento in capitale umano necessario per rendere fungibili tra loro insiders e outsiders. Il nuovo livello minimo di alfabetizzazione necessario nel mercato del lavoro
33. Il ruolo della legge e della contrattazione collettiva per il potenziamento del mercato del tempo di lavoro
34. L’utilità dei contratti di solidarietà e i suoi limiti
35. Una legge che non imponga un modello di organizzazione del tempo di lavoro, ma detti la disciplina-quadro per la sua negoziazione al livello collettivo e individuale
36. Il lavoro domenicale, il lavoro notturno e la tutela del “tempo libero qualificato”: un valore da difendere, ma non un valore assoluto

 

 

  1. ‑ I vincenti e i perdenti

La favolosa “buona novella” preannunciata da Aristotele, da Marx e da Keynes sta diventando realtà: le macchine sono capaci di sostituire integralmente gran parte del lavoro umano; non solo tutto il lavoro manuale, ma anche la parte meno gratificante del lavoro intellettuale ([1]). Se dal 1870 ad oggi, a fronte di un enorme aumento della produttività, l’orario medio annuo di lavoro in Europa si è dimezzato ([2]), tutto induce a pensare che qualche cosa di simile stia accadendo ora in tempi assai più brevi. Il problema è capire a chi è annunciata questa buona novella; capire, cioè, se dell’automatizzazione del processo produttivo tutti beneficieremo in misura equa, o se invece essa accentuerà la divisione della società e del mercato del lavoro in due parti: da un lato una minoranza di persone capaci di usare le macchine per aumentare enormemente la produttività del proprio lavoro e per trarre rendite sempre più ingenti dalle ricchezze via via accumulate, dall’altro una maggioranza espropriata del lavoro e destinata a beneficiare tutt’al più di qualche indennizzo per tale espropriazione.

Per abbozzare un ragionamento su quello che sta accadendo, consideriamo le vicende del mercato del lavoro di una città immaginaria, nella quale gli unici datori di lavoro siano dieci scrittrici, che redigono e aggiornano libri scolastici, ciascuna delle quali quindici anni fa aveva alle proprie dipendenze un segretario-dattilografo per la copiatura dei dattiloscritti e la collazione; inoltre un editore-tipografo, che pubblica i libri delle dieci scrittrici e che quindici anni fa aveva alle proprie dipendenze due linotipisti, due impiegati-redattori per la preparazione redazionale dei testi, due correttori di bozze e due fattorini che facevano la spola tra la sede dell’editore e quelle delle scrittrici con i plichi dei dattiloscritti e delle bozze di stampa. Nel corso di questi quindici anni cinque delle scrittrici si sono progressivamente attrezzate con un computer, un programma di video-scrittura e un modem; i loro libri vengono ora scritti, corretti e impaginati nella loro veste definitiva direttamente all’origine, inviati dal computer per via telematica direttamente alla tipografia, dove non è più necessaria né la composizione né la correzione delle bozze: una macchina stampa i libri, li rilega, li impacchetta e li spedisce al distributore. Così stando le cose, queste cinque autrici vedono fortemente aumentata la propria produttività e il proprio reddito, anche perché esse licenziano i rispettivi dattilografi; l’editore-tipografo, perdendo gran parte del vecchio lavoro di redazione, composizione, impaginazione, e correzione di bozze, sostituisce la vecchia linotype con una moderna macchina elettronica, riconverte un linotipista in funzione della conduzione di questa macchina, licenzia l’altro linotipista, un impiegato redattore e anche uno dei due fattorini, essendosi molto ridotta la necessità di fare la spola tra la sede dell’azienda e quelle delle scrittrici; ora la sua attività di stampa e commercializzazione dei libri gli rende di più, essendosi dimezzato il costo della manodopera. Degli otto lavoratori licenziati, uno frequenta un corso per diventare tecnico informatico e si pone a disposizione delle autrici come consulente per la soluzione dei problemi di hardware e di software: ora guadagna il doppio di prima; gli altri invece restano per il momento disoccupati. Dei lavoratori non licenziati, i cinque segretari dattilografi hanno accettato una riduzione di stipendio, nella speranza che questo induca le loro datrici di lavoro a ritardare il passaggio al computer; anche l’impiegato-redattore e il fattorino vivono nella speranza che questo passaggio avvenga il più tardi possibile, ma sanno che prima o poi anche il loro posto verrà soppresso.

Nella realtà semplificata di questa città immaginaria, dunque, quelli che ci rimettono, i losers, sono quasi tutti i lavoratori subordinati, mentre i winners, quelli che ci guadagnano, sono soprattutto quelli che erano all’origine o hanno saputo diventare autonomi: le scrittrici, l’editore e il tecnico informatico.

Questi ultimi, per di più, vedendo crescere la redditività del proprio lavoro, sono naturalmente portati, almeno in questi primi anni di sperimentazione delle nuove tecniche produttive, ad alzare la propria soglia di indifferenza tra maggior lavoro (con relativo reddito) e maggiore tempo libero: vista la rapidità con cui il sistema cambia e l’assenza di qualsiasi garanzia di continuità del reddito, meglio sfruttare a fondo le opportunità offerte da questa congiuntura, che per loro costituisce senz’altro un periodo di “vacche grasse”, rinviando a un futuro incerto il godimento della ricchezza che sarà stata messa da parte ([3]).

Quanto ai lavoratori che hanno perso il posto, essi hanno di fronte a sé diverse possibilità. Una sarebbe quella di trasferirsi in città diverse, dove ci sia ancora una domanda di dattilografi, linotipisti, correttori di bozze o fattorini, o dove occorrano lavoratori per la produzione dei computer; ma anche nelle altre città e negli altri settori produttivi il loro lavoro poco qualificato è poco richiesto o non è richiesto affatto ([4]) e chi abita già lì occupa più facilmente i posti che si rendono liberi; affrontare i costi e i disagi di un viaggio per tentare la ricerca è un azzardo. Un’altra possibilità è quella di rassegnarsi a sopravvivere con il trattamento di disoccupazione, magari integrandolo con qualche lavoro occasionale “al nero”. Un’altra possibilità ancora consiste nel cercare un’occupazione in un settore di servizi alla persona dove le macchine non sono ancora arrivate: i nostri disoccupati possono, ad esempio, dedicarsi ad attività di barbiere, infermiere, accompagnatore di invalidi, cuoco, cameriere, giardiniere, custode di parcheggi, baby-sitter, dog-sitter, lustrascarpe, e via scendendo nella scala socio-professionale delle possibili occupazioni, con prospettive di reddito molto modeste. C’è infine per loro la possibilità di rientrare, ritagliandosi un ruolo attraverso un adeguato processo di riqualificazione professionale, nel business da cui sono stati espulsi o in un altro: essi possono farlo, ad esempio, offrendosi all’editore come venditori, oppure come esperti di marketing nel settore librario o in suoi sotto-settori particolari, oppure, come ha fatto un loro ex-collega, offrendosi all’editore, alle scrittrici e agli altri utenti di computer quali esperti di informatica o come collaboratori per il miglioramento e la specializzazione del prodotto, oppure ancora andando altrove a offrire servizi analoghi in altri settori produttivi; insomma, trasformandosi da routine workers in knowledge workers e specializzandosi in un settore di attività di concetto o comunque professionalmente qualificata. Ma il processo di riqualificazione professionale costa caro, sia in denaro, sia in tempo; e ‑ ciò che più conta ‑ questo rilevante investimento, quand’anche il lavoratore disponga dei mezzi per compierlo, non è per lui economicamente conveniente se egli non conosce le tendenze effettive della domanda nel mercato del lavoro e ignora ciò che precisamente potrà esssergli richiesto da un potenziale datore di lavoro o committente.

 

  1. ‑ Sei alternative di politica del lavoro di fronte alla rivoluzione tecnologica

Di fronte agli sconvolgimenti prodotti dal processo di innovazione tecnologica lo Stato e il sindacato confederale, dal canto loro, hanno di fronte a sé diverse possibili scelte.

La prima consiste nel non far nulla, confidando che la domanda di lavoro nel settore della produzione delle nuove macchine o nel settore dei servizi alla persona finisca coll’assor­bire i lavoratori sostituiti dalle macchine. Per restare nella nostra vicenda-tipo semplificata all’estremo, l’esito di una siffatta scelta di politica del lavoro da parte dell’autorità competente e del sindacato sarebbe probabilmente che, dei lavoratori che hanno perso il posto, uno su quattro riesca da solo a inserirsi nella classe privilegiata dei knowledge workers e dei mediatori professionali e così a rientrare in un business redditizio, trasformandosi in venditore, progettista, consulente informatico o altro, così riuscendo addirittura a migliorare la propria posizione ([5]); e che invece gli altri tre su quattro si pongano al servizio personale delle autrici o dell’editore, ricreandosi, tra i secondi e i primi, differenziali di reddito simili a quelli che nel secolo scorso consentivano alle famiglie agiate di circondarsi di una pletora di famigli ([6]).

Una seconda scelta di politica del lavoro consiste nell’utilizzare il prelievo fiscale sui maggiori redditi dei winners per aumentare adeguatamente il trattamento di disoccupazione dei losers, in modo da evitare loro di doversi abbassare ai lavori più umili e consentir loro al tempo stesso di continuare a mandare a scuola i propri figli (i quali devono pur continuare ad acquistare i libri che fanno la ricchezza della città). In questo caso, il ruolo di domestici, infermieri, custodi di parcheggi, ecc., sarà tendenzialmente riservato a lavoratori immigrati da paesi poveri.

Una terza scelta è quella di utilizzare il prelievo fiscale sui maggiori redditi dei winners per attivare forme di lavoro retribuite dallo Stato, dagli enti locali o da altri enti no profit adeguatamente selezionati e controllati, volte a valorizzare la disponibilità e le capacità dei losers e a soddisfare interessi che il mercato da solo non è in grado di far emergere e soddisfare. In questo modo, i losers non resterebbero disoccupati, e neppure sarebbero destinati a portare a spasso i figli o il cane dei winners, ma verrebbero utilizzati in servizi, formalmente più nobili, di accudimento ai vecchi, ai malati e agli handicappati (ricchi o poveri), di custodia e restauro di beni culturali, di assistenza sociale, di ausilio alle forze dell’ordine nella lotta alla diffusione della droga e del vandalismo urbano, e così via. Una scelta di questo genere è quella che già si sta tentando di sperimentare in Italia ([7]), sulla scorta di numerose esperienze analoghe, europee e nordamericane; ma finora essa è stata sempre intesa ‑ da noi e negli altri Paesi ‑ come misura temporanea, volta ad “ammortizzare” l’impatto di una crisi occupazionale contingente. Qualora invece l’impiego di un gran numero di lavoratori nelle “opere e servizi socialmente utili” assumesse il carattere di una alternativa stabile all’occupazione “in mercato”, secondo un indirizzo programmatico che va affermandosi esplicitamente nel movimento sindacale ([8]), si correrebbe il rischio grave della creazione di una grande zona “aggiuntiva” di amministrazione pubblica o para-pubblica, con alti costi per l’erario, con livelli di efficienza bassi e proliferazione di piccole posizioni di rendita parassitaria.

Una quarta scelta è quella di confidare su di una disciplina fortemente limitativa dei licenziamenti, quale quella di fatto operante oggi in Italia nelle imprese con più di quindici diependenti, come mezzo per arginare l’espulsione dei lavoratori poco qualificati. Ma nella nostra città immaginaria una legge come questa non avrebbe “salvato” nessun posto di lavoro, poiché né l’editore né le scrittrici avevano più di quindici dipendenti quando hanno operato i licenziamenti, e ancor meno ne hanno adesso. Si sarebbe potuto abbassare la soglia di applicazione della disciplina più rigida in modo da estenderla all’editore; ma questo avrebbe salvato il posto ai suoi dipendenti solo fino a quando le scrittrici non si fossero indotte a inviare, senza apprezzabili costi aggiuntivi, i loro libri a una casa editrice sita altrove, tecnologicamente più aggiornata e capace di produrre libri con minor costo e maggiori utili, costringendo il vecchio editore a chiudere bottega ([9]).

Vi è poi una quinta scelta pensabile: quella di un intervento di politica del lavoro volto a imporre ([10]) o incentivare fortemente dal lato della domanda o dell’offerta ([11]), una riduzione dell’orario nei posti di lavoro rimasti, secondo la parola d’ordine universalmente nota del “lavorare meno per lavorare tutti”. Nella nostra città immaginaria sono rimasti otto lavoratori dipendenti occupati: cinque segretari-dattilografi alle dipendenze di altrettante scrittrici, nonché un redattore, un fattorino e un addetto alla nuova macchina tipografica alle dipendenze dell’editore; riducendo di quattro ore alla settimana il loro orario si potrebbe ricavarne un posto di lavoro aggiuntivo di (8 x 4 =) 32 ore; ma questo implicherebbe che una persona fosse in grado di svolgere tutte e quattro le mansioni, e di sostituire per mezza giornata di volta in volta ciascuno degli altri otto: una soluzione che ‑ anche se fosse accettata da tutti gli otto lavoratori a cui occorrerebbe ridurre l’orario e la retribuzione, già compressa dalla congiuntura per loro sfavorevole ‑ difficilmente potrebbe soddisfare le esigenze operative dei datori di lavoro. D’altra parte, limitare autoritativamente il tempo di lavoro dell’editore, delle scrittrici e/o del consulente informatico è tecnicamente difficilissimo, dal momento che la loro attività non è oggetto di un contratto di lavoro subordinato, non è misurata in base alla sua estensione temporale, né sembra assoggettabile ad alcun controllo in corso di svolgimento; e comunque qualsiasi riduzione del loro lavoro, anche se eventualmente ottenuta con incentivazioni fiscali o di altro genere invece che con misure vincolistiche, non aumenterebbe le possibilità di occupazione dei lavoratori che hanno perso il posto, i quali non sarebbero in grado di sostituire né l’editore, né le scrittrici, né il consulente informatico, per la parte di lavoro da loro non svolta. Anzi, si può ragionevolmente pensare che una riduzione dell’attività di questi lavoratori avrà effetti depressivi sul sistema economico e sull’occupazione nel suo complesso: al rallentamento del lavoro dell’editore e delle scrittrici e alla minore disponibilità del consulente informatico corrisponderà un minor numero di libri prodotti, una riduzione della domanda di carta, una riduzione del lavoro per la rete di distribuzione e così via.

La realtà è, ovviamente, assai più complessa e articolata rispetto al modellino volutamente semplificato ed estremizzato della città immaginaria; occorre dunque cercare di esaminare la questione osservando la realtà più da vicino. Ma, come vedremo, vi è motivo di ritenere che quel modellino colga almeno un aspetto rilevante della realtà; l’obiezione che ne nasce alla proposta della riduzione autoritativa generalizzata degli orari non può dunque essere sottovalutata. L’esame critico svolto nelle pagine che seguono ci porterà invece a individuare una sesta scelta di politica del lavoro possibile: quella di perseguire la redistribuzione del lavoro non tanto direttamente attraverso vincoli alla (o incentivi alla riduzione della) quantità massima di lavoro deducibile in un contratto di lavoro, quanto indirettamente attraverso una forte redistribuzione delle opportunità effettive di istruzione e di formazione professionale, che consenta a tutti di accedere alla condizione di knowledge worker e di poter quindi competere per la copertura di ruoli effettivamente richiesti nel mercato del lavoro qualificato ([12]). L’idea è, per tornare un’ultima volta al modellino della città immaginaria, quella di porre, con un costoso investimento pubblico, tutti coloro che hanno perso il posto in grado di compiere quel processo di riqualificazione che, senza l’intervento pubblico, oggi soltanto uno su quattro di loro è in grado di compiere con le sue sole forze. Nella nostra città immaginaria serviranno sempre meno dattilografi, correttori di bozze, linotipisti e fattorini; ma sono e saranno sempre più richiesti gli esperti di informatica, le persone capaci di individuare nuovi acquirenti dei libri scolastici pubblicati dall’editore, o di individuare nuove esigenze didattiche cui rispondere con libri diversi intervistando opportunamente gli insegnanti, oppure ancora di prendere conoscenza della produzione straniera in questo settore per trarne idee nuove per il miglioramento o l’arricchimento del contenuto dei libri, di collaborare con le scrittrici per l’arricchimento dei contenuti, per la creazione di edizioni speciali su supporto magnetico, e così via.

Quando a tutti i lavoratori sia dato di disporre del grado minimo di alfabetizzazione sufficiente per accedere al mercato del lavoro qualificato, sarà la concorrenza tra loro da un lato, dall’altro l’elevato grado di produttività e quindi di redditività del loro lavoro, a determinare una situazione in cui tutti lavoreranno un po’ meno e si godranno un po’ di più la vita: a quel punto ‑ ma solo a quel punto ‑ la legge o la contrattazione collettiva potranno utilmente intervenire per favorire, con la riduzione dei limiti massimi di orario, il radicarsi del nuovo equilibrio tra tempo di lavoro e tempo libero nella cultura di imprenditori e lavoratori, senza produrre effetti indesiderati.

La via non è facile; anzi, è estremamente impegnativa. Ma, se le considerazioni proposte nelle pagine che seguono sono fondate, altre vie non ci sono.

 

  1. Perché l’imposizione di una riduzione degli orari non è lo strumento adatto per la redistribuzione del lavoro

Il compito più importante di una politica del lavoro degna di questo nome è di impedire che il peso della disoccupazione gravi per intero su di una parte soltanto della popolazione attiva: quella dei c.d. disoccupati di lungo periodo, di coloro che sono sempre “gli ultimi della fila” nella coda per il posto di lavoro. É in questo ordine di idee che la riduzione dell’orario viene proposta, appunto, come misura tendente a togliere un po’ di lavoro ai già occupati, per darlo agli “ultimi della fila”. Senonché questa proposta si scontra contro la constatazione che il grave handicap di coloro che restano cronicamente in fondo alla coda ‑ non solo nel modellino proposto nel paragrafo che precede, ma anche nella realtà, come abbiamo già osservato discutendo del funzionamento del mercato del lavoro extra-aziendale ([13]) ‑ è costituito per lo più dal difetto di attitudini professionali corrispondenti alla domanda delle aziende, dal difetto di informazione sulla domanda stessa e/o dal difetto di mobilità territoriale in relazione ad essa. Basta uno di questi tre difetti capitali per impedire loro di approfittare delle occasioni di lavoro aggiuntive in ipotesi derivanti dalla riduzione di orario a carico dei già occupati. In altre parole: nella grande maggioranza dei casi il disoccupato soffre di una posizione di svantaggio nel mercato del lavoro, rispetto al già occupato, che la riduzione dell’orario massimo di lavoro non basta certo a eliminare. Per usare ‑ adattandola alla nostra materia ‑ la metafora marxiana ([14]), se l’insieme delle occasioni di lavoro potesse essere considerato come la minestra contenuta in una grande zuppiera, non basterebbe ridurre le dimensioni dei cucchiai di chi già a quella zuppiera attinge normalmente, per consentire ad altri di attingervi, se questi altri sono privi del tutto di cucchiai o se i loro cucchiai sono bucati.

Al problema ora menzionato, che si pone sul versante dell’offerta di manodopera, se ne aggiungono poi altri non meno gravi sul versante della domanda. É facile prevedere le gravi difficoltà che le aziende incontrerebbero per la riorganizzazione temporale del tempo redistribuito, per il reperimento in tempi brevi del nuovo personale dotato delle attitudini richieste e disponibile a fornire la sola frazione temporale di prestazione lavorativa necessaria per la reintegrazione dell’organico in conseguenza della riduzione d’orario ([15]). Va considerato in proposito che in Italia più di sei lavoratori subordinati regolari su dieci lavorano in imprese con meno di 100 dipendenti ([16]), cioè in imprese nelle quali una riduzione di orario ben difficilmente porterebbe alla creazione di nuovi posti di lavoro a tempo pieno. Ipotizzando una riduzione dell’orario settimanale da 39 a 38 ore, occorrerebbe che in azienda ci fossero 38 lavoratori aventi esattamente la stessa qualifica e le stesse mansioni, affinché l’ora di lavoro da loro “ceduta” potesse trasformarsi in un nuovo posto di lavoro a tempo pieno; se invece i lavoratori appartenenti a un determinato profilo professionale sono soltanto 5, oppure 10, la riduzione dell’orario settimanale di un’ora potrebbe ‑ in linea teorica ‑ dar luogo rispettivamente soltanto all’assunzione di un lavoratore di pari qualifica con orario settimanale di 5 ore o di 10 ore: cosa evidentemente non facile sul piano pratico.

Alla proposta di una riduzione autoritativa degli orari viene poi mossa un’altra obiezione: i lavoratori più forti e sicuri delle proprie capacità, quando si vedessero ridurre autoritativamente l’orario, non si rassegnerebbero alla corrispondente riduzione di reddito e si attiverebbero per riempire il tempo lasciato libero dal rapporto di lavoro principale con seconde occupazioni, quando non riuscissero a farlo con il lavoro straordinario ([17]). Questo fenomeno non potrebbe essere limitato efficacemente né dalla legge né dal contratto collettivo, incapaci l’una e l’altro di porre vincoli effettivi al mercato endo-aziendale del lavoro straordinario, soprattutto ma non soltanto nelle aziende di piccole e medie dimensioni, e al “secondo mercato”, quello delle piccole occupazioni part-time, irregolari, o in forma di collaborazione autonoma. Gli effetti di redistribuzione dell’occupazione perseguiti con l’abbassamento generalizzato del limite legislativo o collettivo dell’orario normale rischierebbero dunque di essere ridotti o annullati da un aumento dell’elasticità dell’orario effettivo nel “primo mercato” e da una saturazione, ad opera dei già occupati, della domanda di lavoro nel “secondo mercato”, oggi più facilmente accessibile per i disoccupati: un effetto esattamente contrario a quello della redistribuzione delle occazioni di lavoro che si vuole perseguire.

Va poi ricordata la tendenza ‑ comune alla maggior parte dei Paesi dell’Ocde ma particolarmente marcata in Italia ([18]) ‑ all’espansione dell’area del lavoro autonomo a spese di quella del lavoro subordinato: è dunque presumibile che ogni misura tendente a forzare la riduzione degli orari di lavoro nelle aziende costituirebbe un’ulteriore spinta per la parte più forte dei lavoratori subordinati a spostarsi nell’area del lavoro autonomo e corrispondentemente per le aziende un’ulteriore spinta ad ampliare il proprio ricorso al lavoro autonomo, a scapito del lavoro subordinato.

Insomma, occorre prendere atto della impossibilità pratica di impedire ai lavoratori più forti professionalmente, più abili a muoversi nel mercato, meglio inseriti nei flussi di informazioni che lo animano, di mettere a frutto tale loro maggiore capacità.

Contro una riduzione autoritativa degli orari milita infine un’ultima considerazione. Numerose imprese oggi perseguono l’obiettivo dell’incremento della produttività attraverso una compressione lenta e non traumatica degli organici, a parità di produzione; che è quanto dire “maggior lavoro distribuito tra meno persone”: proprio il contrario del “lavorare meno per lavorare tutti”. Quando venisse imposta o resa economicamente vantaggiosa per queste imprese una riduzione generalizzata degli orari al di sotto di quello che è oggi il livello del “tempo pieno”, esse tenderebbero presumibilmente a realizzare in tempi brevi il disegno in precedenza perseguito in forma diversa e in tempi più lunghi: “maggior lavoro distribuito su un minor numero di ore” ([19]). Non posti di lavoro aggiuntivi creati attraverso una riduzione dei carichi di lavoro pro capite, dunque, ma accelerazione di un processo di intensificazione del lavoro, ovvero del carico di lavoro per ora lavorata: ancora una volta un risultato opposto a quello che si intende perseguire.

Non stupisce, dunque, il risultato molto deludente sul piano occupazionale della riduzione generale dell’orario disposta autoritativamente dal Governo francese nel 1982 ([20]); né stupisce che a tutt’oggi ‑ dopo un quarto di secolo di ricerche svolte da economisti appartenenti a diverse scuole e orientamenti politici, nonché di sperimentazioni a tutti i livelli ‑ né gli studi teorici né l’osservazione empirica confermino l’utilità della riduzione generale degli orari di lavoro mediante legge o contratto collettivo per la lotta alla disoccupazione ([21]), mentre da diverse parti si ritiene addirittura dimostrato l’opposto ([22]).

 

  1. ‑ Possibilità di redistribuire il lavoro assecondando la tendenza fisiologica alla riduzione dei tempi di lavoro: come rendere appetibile per le imprese il part-time e lo short full time

Se è vero che una parte dei lavoratori è controinteressata a una riduzione autoritativa degli orari, è anche vero, però, che un’altra parte di essi preferirebbe lavorare di meno a parità di retribuzione oraria: da una recente ricerca della Commissione dell’Unione europea risulta che soltanto 35 lavoratori dipendenti su 100 sono soddisfatti del loro orario di lavoro attuale; e che degli altri, 16 preferirebbero lavorare di più per guadagnare di più, mentre 47, cioè quasi la metà del totale, preferirebbero lavorare di meno, anche a costo di guadagnare corrispondentemente di meno ([23]). In generale sono, come prevedibile, le donne a manifestare la preferenza più marcata per una riduzione della settimana lavorativa: per il 65% di esse l’orario ideale sarebbe inferiore a quello effettivamente praticato, a fronte di una ‑ pur sempre considerevole ‑ percentuale degli uomini, 35%, che manifestano la stessa aspirazione ([24]).

Secondo la medesima fonte comunitaria, coloro che aspirano a lavorare di meno indicano come orario meglio corrispondente alle proprie esigenze un orario inferiore, mediamente, di 2 ore rispetto a quello attualmente praticato ([25]). Poiché essi sono quasi la metà del totale dei lavoratori dipendenti, se essi potessero essere accontentati si otterrebbe una riduzione dell’orario settimanale medio generale pari approssimativamente a un’ora. Tale riduzione equivarrebbe al 6% del totale delle ore di lavoro subordinato oggi effettivamente svolte nell’Unione europea ([26]).

Di questa aspirazione diffusa alla riduzione del proprio orario di lavoro abbiamo una immediata evidenza in diverse situazioni specifiche vicine a noi. Ad esempio, in ossequio all’accordo di settore sul lavoro a tempo parziale degli istituti di credito, questi raccolgono e tengono in evidenza numerose richieste di riduzione individuale d’orario presentate dai propri dipendenti, soprattutto donne, che solo in parte vengono accolte ([27]); allo stesso modo, nelle imprese del settore della grande distribuzione, i cui addetti alla vendita e all’incasso sono prevalentemente donne, si registra solitamente un’alta percentuale di lavoratrici che sarebbero fortemente interessate a un orario di lavoro ridotto, anche con corrispondente riduzione della retribuzione, e la cui aspirazione in tal senso rimane per lo più insoddisfatta per ragioni organizzative. Analogamente, è presumibile ‑ anche se mancano rilevazioni precise in proposito ‑ che vi sia una percentuale non irrilevante di lavoratori interessati, offrendosene loro l’occasione, a una sospensione temporanea della propria prestazione lavorativa per uno o più periodi “sabbatici”, anche con corrispondente sospensione totale della retribuzione, per potersi dedicare ad attività di studio, di riqualificazione professionale, di assistenza a un parente malato, o altro ([28]).

Tutto induce a pensare, d’altra parte, che per effetto dell’aumento della produttività del lavoro e della sua redditività per chi lo presta, combinato con l’accumulo e la diffusione della ricchezza, così come nel corso degli ultimi centoventi anni gli orari di lavoro si sono dimezzati ([29]), allo stesso modo nel prossimo futuro un numero crescente di lavoratori sia spinto a preferire una riduzione del proprio orario per disporre di maggiore tempo libero. Questa tendenza, che ha carattere epocale, di lungo periodo, è però impedita o rallentata da due potenti remore: per un verso dalla difficoltà per le imprese di sostituire la minor quantità di lavoro degli attuali occupati con l’assunzione di altri lavoratori ([30]); per altro verso da una disciplina legislativa e collettiva che esplicitamente o implicitamente privilegia il modello standard del rapporto di lavoro a tempo pieno. Una politica legislativa e sindacale volta ad assecondare la tendenza alla riduzione dei tempi di lavoro deve dunque innanzitutto mirare a porre i lavoratori che cercano lavoro in condizione di sostituire, senza rilevanti perdite di produttività, i lavoratori che intendono ridurre il proprio: è questo non soltanto il compito più urgente, ma anche il più difficile da assolvere; questa politica deve inoltre tendere a facilitare la modulazione e diversificazione dei tempi di lavoro nelle aziende: favorire, cioè, lo svilupparsi di un mercato del tempo, endo- ed extra-aziendale, nel quale ogni offerta di lavoro ad orario inferiore rispetto al normale abbia possibilità effettive di incontrarsi convenientemente con una corrispondente domanda.

 

  1. ‑ Il grande investimento in capitale umano necessario per rendere fungibili tra loro insiders e outsiders. Il nuovo livello minimo di alfabetizzazione necessario nel mercato del lavoro

L’effetto dell’innovazione tecnologica, fin dagli inizi della rivoluzione industriale, può essere visto in negativo, come “distruzione” di posti di lavoro, oppure in positivo, come “liberazione” di lavoro umano. Ma, perché questa seconda visione del fenomeno sia realistica, i lavoratori che la macchina ha “liberato” dal vecchio lavoro devono essere posti in grado di dedicarsi effettivamente a un lavoro nuovo, meno faticoso e più produttivo.

Ogni tappa dell’innovazione tecnologica impone un innalzamento del livello minimo di alfabetizzazione della forza-lavoro e un mutamento del suo contenuto. Come nella prima rivoluzione industriale le macchine hanno imposto all’operaio di imparare a leggere, scrivere e far di conto per non rimanere ai margini o addirittura essere espulso dal mercato del lavoro, oggi l’automatizzazione del processo produttivo e lo sviluppo di informatica e telematica impongono progressivamente ai lavoratori di imparare a governare il computer e usarlo nelle funzioni più diverse, a “navigare” nelle grandi “reti” che annullano le distanze, a leggere e parlare le lingue straniere, a comporre agevolmente testi nella propria lingua-madre, a studiare i mercati, a entrare in rapporto e comunicare efficacemente con un grande numero di persone, e così via. Si può parlare di “fine del lavoro” ([31]) soltanto se si considera il lavoro umano nella sua configurazione tradizionale e fino a ieri prevalente, cioè come manipolazione diretta della materia o lavoro impiegatizio “d’ordine”; ma il lavoro non è affatto “finito” se lo intendiamo nella sua nuova accezione di ricerca, elaborazione e comunicazione di informazioni, per lo più con mezzi informatici e telematici ([32]). Questo occorre dunque imparare a fare. Per il lavoratore europeo che saprà compiere questa nuova tappa dell’alfabetizzazione di massa il lavoro non mancherà, perché la domanda di lavoro qualificato tenderà presumibilmente a crearsi in corrispondenza con la sua offerta (e su questo terreno, per ora, le macchine e i lavoratori del terzo mondo non possono competere). Dal momento che non c’è limite al bisogno di informazione sulle persone e sulle cose, non c’è limite neppure all’utilità di lavoratori capaci di raccogliere, elaborare e/o comunicare le informazioni stesse, a tutti i livelli: capaci, cioè, di individuare interessi nuovi e nuovi bisogni espressi dalla società in ogni suo comparto e in ogni sua piega, di mettere in contatto tra loro domande e offerte vecchie e nuove di beni e servizi, di cooperare con altri in ricerche di vasta portata, di analizzare e risolvere problemi, di insegnare queste cose a terzi, e così via.

Si pensi ‑ per fare soltanto qualche esempio ‑ ai campi sterminati che possono aprirsi al lavoro umano nei settori del marketing specializzato, dell’informatizzazione della vita quotidiana con relativa assistenza ai privati, dell’individuazione dei bisogni di assistenza sociale qualificata, della programmazione e attivazione dei servizi idonei a soddisfare quei bisogni, della prevenzione della criminalità, della protezione dell’ambiente, della rilevazione e governo razionale dei flussi di persone e veicoli nelle aree urbane, della ricerca econometrica sui comportamenti delle persone, della ricerca medico-epidemiologica per l’individuazione delle cause delle grandi malattie di cui ancora si sa troppo poco: tutti settori nei quali chiunque abbia una buona istruzione di base e sia adeguatamente addestrato può essere utilmente inserito, in posizione subordinata o autonoma, in équipes di lavoro e ricerca. Chi sarà in grado di offrire il proprio lavoro qualificato in questi settori, come in molti altri analoghi, sarà per lo più fonte di maggiore ricchezza per tutti senza portare via lavoro ad altri; e anche dove le occasioni di lavoro resteranno limitate, egli sarà comunque in grado di competere con gli altri lavoratori, di “spartirsi la torta” con loro, o di sostituirli dove essi siano propensi a ridurre il proprio impegno lavorativo. Chi invece non raggiungerà il nuovo livello minimo di alfabetizzazione è destinato a vedersi prima o poi sostituito nel proprio posto di lavoro da una macchina o da un routine worker dei Paesi in via di sviluppo; e nella maggior parte dei casi sarà prima o poi condannato a scegliere tra la disoccupazione e l’occupazione nel settore dei bad jobs, dei servizi alla persona dequalificati e mal retribuiti.

Il problema della disoccupazione oggi sta soprattutto qui. Ed è, a ben vedere, la manifestazione particolare di un problema più generale: ogni aumento dell’efficienza potenziale dell’attività umana porta sempre con sé un aumento delle potenziali disparità di ricchezza o potere tra gli uomini, poiché alcuni di essi sono più pronti degli altri ad avvalersene. Questo può forse spiegare perché una forte tensione morale verso l’uguaglianza spinga sovente la parte più impegnata della sinistra e del movimento sindacale a diffidare ‑ più o meno consapevolmente ‑ dei processi di innovazione nell’organizzazione produttiva, quindi ad assumere atteggiamenti sostanzialmente conservatori di fronte a tali processi. Ma la grande battaglia per l’uguaglianza tra le persone, per l’equa distribuzione delle ricchezze e dei poteri, non si combatte efficacemente frenando quei processi, bensì aiutando coloro che sono meno pronti ad acquisire le capacità necessarie per parteciparvi: occorre prenderli per mano uno per uno, studiarne gli specifici problemi personali e aiutarli a superarli offrendone loro concretamente i mezzi.

Non è un problema da poco: si tratta di compiere un grande investimento di risorse per valorizzare il capitale umano di quei milioni di persone che oggi rischiano di rimanere tagliate fuori dal godimento dei colossali vantaggi dell’innovazione tecnologica e della globalizzazione del sistema economico ([33]). La società è obbligata a compiere questo investimento dal dovere costituzionale di solidarietà verso queste persone, che impone di assicurare loro condizioni di uguaglianza effettiva rispetto a chi riesce a farcela da solo; ma ha anche interesse a compierlo, perché è un investimento redditizio per tutti, moltiplicatore della ricchezza di tutti.

In che cosa concretamente questo investimento debba consistere, si è visto nei primi due capitoli: i più deboli nel mercato del lavoro difettano essenzialmente dell’informazione precisa sugli sbocchi occupazionali possibili e i relativi requisiti professionali, della mobilità e soprattutto della formazione professionale necessarie per concorrervi. Quello di cui c’è bisogno è dunque essenzialmente la costruzione di quel grande sistema di servizi di informazione (informazione che dovrà essere resa disponibile attraverso canali tanto più capillari e raffinati, quanto più si darà spazio alla “personalizzazione” dell’offerta e della domanda di lavoro e in particolare dei tempi di lavoro) ([34]), mobilità e soprattutto formazione e riqualificazione professionale mirate, di cui già abbiamo parlato all’inizio; ma anche un forte impegno per il miglioramento del sistema scolastico (con inversione della tendenza degli ultimi due decenni a un suo progressivo degrado), l’elevazione del limite dell’obbligo (la licenza media inferiore oggi non basta per evitare l’emarginazione nel mercato del lavoro), l’attuazione piena della garanzia costituzionale dell’accessibilità dell’istruzione superiore per tutti. Senza questo grande investimento, nessuna politica di redistribuzione dell’occupazione può avere speranza di successo.

 

  1. ‑ Il ruolo della legge e della contrattazione collettiva per il potenziamento del mercato del tempo di lavoro

Assicurata la massima possibile fungibilità tra outsiders e insiders, non è tuttavia ancora con l’imposizione di un modello di organizzazione del lavoro basato su di un orario normale ridotto rispetto a quello attuale, come abbiamo visto ([35]), che si può perseguire efficacemente l’obbiettivo della redistribuzione delle occasioni di lavoro; può invece produrre risultati rilevanti l’eliminazione delle irrazionalità della disciplina legislativa e collettiva che sono di ostacolo al part-time e allo short full time, impedendoli o rendendoli più costosi rispetto al full time ([36]).

Una politica tendente a favorire la riduzione spontanea degli orari di lavoro implica inoltre che, in materia di lavoro a orario ridotto, l’autonomia collettiva sappia autolimitarsi in favore dell’autonomia individuale: se ciascun singolo lavoratore deve essere lasciato libero di perseguire l’estensione temporale ottimale (per lui) del suo impegno lavorativo, al di sotto dell’orario massimo, perdono ogni apprezzabile ruolo le clausole collettive ‑ pur esplicitamente previste dalla legge ([37]) e ancor oggi alquanto diffuse nella contrattazione di settore e aziendale ‑ di “contingentamento” e regolamentazione rigida del part-time. Tali clausole risalgono, per lo più, a un’epoca nella quale, superato il tabù del riconoscimento legislativo del part-time, permaneva tuttavia ancora nel movimento sindacale un atteggiamento di diffidenza nei confronti della negoziazione individuale del tempo di lavoro al di sotto dell’orario normale: quello per cui anche il lavoro a orario ridotto doveva essere ricondotto a un suo modello standard, negoziato dal sindacato ([38]). É ben vero che i contratti nazionali oggi per lo più prevedono espressamente la derogabilità del modello mediante apposito accordo aziendale; ma non si vede per quale motivo, che non sia quello di una (non completamente superata) diffidenza di fondo del sindacato nei confronti della negoziazione individuale della durata della prestazione al di sotto del limite di orario normale, l’autonomia dei singoli lavoratori in questo campo debba essere sottoposta al “protettorato” dell’autonomia collettiva, e la riduzione d’orario spontanea debba essere assoggettata all’“autorizzazione”del sindacato in azienda ([39]).

Tutto ciò non significa che la contrattazione collettiva non abbia un proprio ruolo specifico in materia di lavoro a orario ridotto: su questo terreno si aprono, anzi, larghi spazi di intervento per un sindacato che si proponga di negoziare con gli imprenditori misure idonee a promuovere l’adattamento dell’orario di lavoro alle esigenze dei singoli lavoratori. Ad esempio, in tutte le aziende in cui si rilevi un numero consistente di lavoratori che desiderano una riduzione del proprio orario di lavoro, il sindacato potrebbe prendere l’iniziativa di rivendicare tale riduzione per ottenere sul piano della contrattazione collettiva ciò che il singolo lavoratore non riesce a ottenere sul piano della contrattazione individuale, negoziando allo stesso tempo le modifiche organizzative e le iniziative di formazione on the job necessarie affinché l’azienda possa sopperire alla riduzione di orario di una parte dei vecchi dipendenti con l’assunzione, a orario pieno o ridotto, di nuovi lavoratori. E non sarebbe, a mio avviso, irrazionale, che un processo di questo genere venisse in qualche misura incentivato dall’ordinamento statale ([40]), al fine di compensare i maggiori costi organizzativi che ne conseguono per le imprese e stimolare il superamento delle remore di natura culturale in seno al management, ma soprattutto di “lanciare un messaggio” a tutte le parti interessate: non un vincolo, ma una raccomandazione accompagnata da alcune misure concrete di incentivazione.

 

  1. ‑ L’utilità dei contratti di solidarietà e i suoi limiti

Una situazione particolare, nella quale la scelta della riduzione d’orario negoziata in sede collettiva aziendale è stata sperimentata con qualche successo, è quella della crisi occupazionale cui può farsi fronte, almeno temporaneamente, con una riduzione d’orario per tutti i lavoratori di una unità produttiva o reparto, invece che con l’espulsione di una parte di essi (c.d. contratto di solidarietà, introdotto nell’ordinamento italiano, sulla scorta delle precedenti esperienze francese e britannica, dagli artt. 1 e 2 della legge n. 863/1984). Fra i pregi di questa soluzione, oltre a quello principale di consentire una soluzione non traumatica delle crisi aziendali, vi è anche quello secondario ma non disprezzabile di diffondere la pratica del part-time, favorendo l’affermarsi di una cultura della modulazione del tempo di lavoro.

La grande proliferazione dei contratti di solidarietà determinatasi negli anni 1993 e 1994 in conseguenza degli incentivi economici disposti dalla legge n. 236/1993 non deve però far pensare che sia possibile generalizzare questa esperienza: il contratto di solidarietà è sostanzialmente ‑ ed è inevitabile che resti ‑ un caso particolare di intervento della Cassa integrazione guadagni, cioè una misura di carattere temporaneo, un “ammortizzatore”. Non è pensabile che lo Stato o il sistema previdenziale si facciano carico a tempo indeterminato del pagamento delle retribuzioni corrispondenti a lavoro non effettivamente svolto; e ancor meno questo sarebbe pensabile se il campo di applicazione dello schema venisse esteso a situazioni diverse da quelle di crisi occupazionale congiunturale.

D’altra parte, se il contratto di solidarientà non fosse assistito da un congruo intervento esterno di integrazione retributiva, tornerebbero ad assumere rilievo preclusivo le considerazioni svolte sopra a proposito della incoercibilità dell’aspirazione dei lavoratori più produttivi, e più forti nel mercato, a lavorare di più per guadagnare di più: in qualsiasi azienda in cui venisse imposta stabilmente una riduzione di orario con corrispondente riduzione delle retribuzioni si assisterebbe ‑ e del resto si assiste sovente, pur in presenza dell’intervento della Cassa integrazione guadagni ‑ alla progressiva fuga dei lavoratori migliori, o comunque più interessati a massimizzare il proprio reddito, verso aziende e/o forme di rapporto capaci di valorizzarne meglio le capacità. Prova ne siano la scarsissima fortuna dei contratti di solidarietà prima dell’intervento legislativo del 1993 volto a incentivarli e il brusco calo di popolarità degli stessi dopo il 1995, quando gli incentivi hanno cessato di operare o sono stati drasticamente ridotti.

 

  1. ‑ Una legge che non imponga un modello di organizzazione del tempo di lavoro, ma detti la disciplina-quadro per la sua negoziazione al livello collettivo e individuale

Tramontata definitivamente l’epoca in cui il tempo di lavoro poteva essere considerato soltanto come misura della quantità del lavoro prestato, oggi esso assume rilievo giuridico anche e sempre di più come dato ‑ per così dire ‑ qualitativo della prestazione lavorativa, cioè come dato inerente alla sua collocazione nell’arco della giornata, settimana o anno, alla sua eventuale elasticità (variabilità dell’estensione) o flessibilità (variabilità della collocazione temporale). E in questa sua diversa connotazione il tempo di lavoro assume rilievo non soltanto in funzione delle esigenze dell’impresa, bensì anche in funzione delle esigenze personali e familiari del lavoratore: distribuzione, flessibilità ed elasticità della prestazione costituiscono oggi altrettante qualità del lavoro, il cui valore muta non soltanto per ciascun datore, ma anche per ciascun prestatore di lavoro.

La materia dell’orario di lavoro, dunque, è oggi assai più vasta e articolata di quanto non fosse in passato. Il problema che si pone al legislatore non è più soltanto, e neppure principalmente, quello del limite di estensione della prestazione lavorativa ‑ per il quale la soluzione più logica ed elegante mi sembra quella della pura e semplice recezione della regola posta dalla direttiva comunitaria n. 104/1993 ([41]) ‑, bensì quello di stabilire regole minime di tutela (ancora una volta: una “rete di sicurezza”) nell’ambito delle quali deve svilupparsi la contrattazione collettiva e individuale degli aspetti diversi del tempo della prestazione, quali la sua distribuzione nella giornata, nella settimana e nell’anno, la sua flessibilità o elasticità nell’interes­se del datore di lavoro, la sua flessibilità o elasticità nell’interesse del lavoratore. E se fino a ieri la legge si è limitata a rispecchiare un modello dominante relativamente rigido di organizzazione del tempo di lavoro, oggi invece la tecnica dell’imposizione del modello standard deve cedere il passo a tecniche di tutela legislativa differenti, capaci di far salvi i necessari spazi di diversificazione della disciplina dell’orario ad opera della negoziazione, collettiva e individua­le ([42]).

La variabilità dell’estensione (elasticità) o della collocazione (flessibilità) temporale della prestazione nell’interesse del datore di lavoro costituisce una “qualità” aggiuntiva della prestazione stessa, a cui corrisponde un sacrificio per il lavoratore in termini di minore programmabilità dell’utilizzazione del suo tempo libero. É giusto, dunque, e in qualche misura anche costituzionalmente necessario (art. 36 Cost.), che ad essa corrisponda una congrua maggiorazione retributiva. La generalizzazione di un siffatto principio può forse contribuire al superamento delle resistenze di parte sindacale allo sviluppo nell’area del lavoro subordinato di quel “mercato della flessibilità ed elasticità”, che vede oggi un numero crescente di lavoratori disponibili a offrire la variabilità della prestazione in relazione alle mutevoli esigenze dell’im­presa, sovente indotti dalla rigidità dei modelli collettivi a trasferire la loro offerta nell’area del lavoro autonomo o in quella del lavoro irregolare. Entro il limite massimo di orario fissato dalla legge o dal contratto collettivo, la pattuizione della variabilità in funzione di determinate esigenze aziendali dovrebbe essere ammessa a condizione che essa sia specificamente e adeguatamente remunerata in aggiunta alla retribuzione normale: quanto maggiori sono i margini di variabilità, tanto maggiore deve essere la relativa retribuzione differenziale ([43]).

Uno spazio non inferiore rispetto a quello che viene lasciato aperto alla negoziazione collettiva o individuale della variabilità del tempo di lavoro nell’interesse dell’imprenditore deve essere lasciato aperto e consolidato dalla legge per le svariate forme di variabilità nell’inte­resse del lavoratore. Mi riferisco soprattutto alle nuove forme di organizzazione dell’orario di lavoro che vanno sotto il nome di flexi-time, caratterizzate dalla facoltà del lavoratore di variare liberamente, entro limiti predeterminati, la distribuzione del proprio orario nell’arco della giornata, della settimana o del mese: una forma di organizzazione del tempo di lavoro che sta avendo una notevolissima diffusione nel lavoro impiegatizio ([44]); e al job sharing o “lavoro gemellato”, che consiste nella contitolarità solidale dell’obbligazione di lavoro in capo a due persone, libere di distribuirsi tra di loro il relativo carico. Quest’ultima è la forma di organizzazione del tempo di lavoro che meglio coniuga una amplissima libertà di autodeterminazione del tempo di lavoro dei due partners lavoratori con la massima garanzia per l’imprenditore di continuità della copertura del posto (poiché solo in caso di contemporaneo impedimento dei due partners la prestazione resta sospesa) e persino con un elemento rilevantissimo di possibile elasticità della prestazione stessa nell’interesse dell’imprenditore: con il consenso dei due partners, nei periodi di punta essi possono trasformarsi entrambi in lavoratori a tempo pieno ([45]).

La legge potrebbe infine ‑ per la valorizzazione del c.d. “tempo di cura” e in generale per la promozione del “valore d’uso” del tempo degli individui in alternativa al suo “valore di scambio” ([46]) ‑ istituire degli incentivi economici per favorire la concessione da parte delle imprese ai propri dipendenti di periodi di aspettativa non retribuita, per necessità di cura di parenti invalidi o gravemente malati o per altre esigenze personali (istruzione, riqualificazione professionale, viaggi, o diverse esigenze straordinarie) con assunzione sostitutiva di altro lavoratore a termine ([47]). Il costo per l’Erario di questi incentivi potrebbe essere compensato dal risparmio che ne consegue nella spesa per i trattamenti di disoccupazione o comunque dagli effetti benefici dell’aumento di una domanda di lavoro a tempo determinato per la riduzione dei tempi di ricerca della prima occupazione da parte dei più giovani.

 

  1. ‑ Il lavoro domenicale, il lavoro notturno e la tutela del “tempo libero qualificato”: un valore da difendere, ma non un valore assoluto

Il tempo libero è quasi sempre un bene per il lavoratore; ma il suo valore può variare, e molto, a seconda della sua collocazione nell’arco della giornata, della settimana o dell’anno. Essere liberi dal lavoro la sera e la notte significa sempre poter vegliare con il sole e dormire col buio, come natura vuole, e può nella maggior parte dei casi significare avere ogni giorno un po’ di tempo da dedicare al proprio coniuge o ai propri figli; essere liberi dal lavoro di domenica significa godere del riposo settimanale nel giorno in cui anche la grande maggioranza degli altri individui ne godono, quindi poter fare una gita con i propri familiari o amici, poter andare alla partita, o comunque potersi incontrare più facilmente con coloro con cui si intrattengono rapporti diversi da quelli di lavoro. Inoltre il tempo libero ha maggior valore per il lavoratore se risponde a un ritmo giornaliero e settimanale regolare, che consente all’organismo di riposarsi meglio e consente una migliore e più facile programmazione delle attività non lavorative.

Anche la collettività nel suo insieme trae beneficio dal fatto che ci sia un giorno della settimana prevalentemente dedicato al riposo: un giorno in cui tace il frastuono dell’attività produttiva e si celebra il rito collettivo del riposo, dell’ascolto del proprio prossimo, della parola di Dio (shemà Israel!), di se stessi. Una società in cui tutti i giorni della settimana fossero uguali, essendo del tutto casuale la scelta del giorno del riposo da parte dei lavoratori, sarebbe forse più capace di produrre beni di consumo, ma sarebbe certamente un po’ più infelice, triste e noiosa.

É dunque giusto e razionale che l’ordinamento si curi di tutelare il c.d. “tempo libero qualificato”: di favorire, cioè, la regolare periodicità e la collocazione del riposo dei lavoratori nelle ore notturne e nella giornata che secondo le nostre tradizioni culturali e religiose al riposo è dedicata: la domenica, appunto. Ma non è esattamente questo che la legge italiana attuale dispone. Mentre per il lavoro notturno e a turni essa non pone alcuna regola di carattere generale, in riferimento al lavoro domenicale la regola generale è invece il divieto, addirittura penalmente sanzionato, salva una serie di casi specificamente previsti dalla legge del 1934 che disciplina la materia.

Sono, a mio avviso, due eccessi di segno opposto: se per quel che riguarda il lavoro notturno e a turni avvicendati l’ordinamento non può disinteressarsi totalmente del sacrificio differenziale che ne consegue per il lavoratore, il regime del divieto penale del lavoro domenicale, temperato da specifiche eccezioni, appare per molti aspetti irrazionale, risultando la casistica legislativa (oltretutto vecchia di oltre sessant’anni) di volta in volta troppo restrittiva rispetto alle esigenze aziendali obiettive, oppure illogicamente permissiva ([48]).

Il difetto sta, a mio avviso, nella tecnica normativa adottata: quella del divieto con eccezioni, ovvero del “tutto o niente”, che fa, contraddittoriamente, del riposo domenicale un valore assoluto nella generalità dei casi e un non valore là dove il divieto non si applica, dove quindi il “tempo libero qualificato” del lavoratore non è in alcun modo tutelato. In un ordinamento statale, e pertanto laico, il riposo domenicale deve essere considerato, tutt’al contrario, come un valore relativo ([49]): un valore che può cedere, dunque, di fronte a obbiettive e rilevanti esigenze aziendali o pubbliche; ma un valore cui corrisponde un interesse meritevole di tutela di tutti i lavoratori e non soltanto della maggior parte di essi. La tecnica normativa più adeguata non è dunque quella del “tutto o niente”, bensì quella dell’imposizione di una consistente maggiorazione retributiva ‑ pari, ad esempio, al 50% della retribuzione globale normale ‑ che, per un verso, costituisca una sorta di “filtro automatico” delle esigenze pubbliche o aziendali (solo se esse superano una certa soglia di importanza esse indurranno l’imprenditore o ente pubblico ad addossarsi il costo corrispondentemente maggiore per una prestazione lavorativa in sé identica a quella svolta dallo stesso lavoratore negli altri giorni della settimana), per altro verso assicuri al lavoratore in ogni caso un compenso adeguato per il maggior sacrificio insito nel lavoro domenicale ([50]).

In questa materia ‑ così come in altre, anche di maggiore rilievo ([51]) ‑ la tecnica dell’imposizione di una congrua compensazione monetaria (la cui funzione di “filtro automatico” può essere accentuata dalla sua coniugazione con l’imposizione di un contributo previdenziale addizionale) appare più efficiente delle tecniche del divieto con eccezioni rigidamente predeterminate o del regime di autorizzazione amministrativa, poiché consente una auto-selezione precisa degli interessi non soltanto dal lato della domanda di lavoro domenicale, escludendo automaticamente le esigenze di minore rilievo, ma anche dal lato dell’offerta: il diritto alla compensazione monetaria potrebbe infatti indurre a candidarsi per il lavoro domenicale, anche in settori dove questo è oggi drasticamente vietato, i singoli lavoratori per i quali esso comporta in concreto un sacrificio relativamente minore rispetto alla media (si pensi al caso dei giovani studenti per i quali i cosiddetti “contratti week-end” possono costituire una buona occasione di intreccio tra tempo di studio e tempo di lavoro).

Un discorso in tutto e per tutto analogo vale per il lavoro notturno e per il lavoro a turni avvicendati, che comportano per quasi tutti i lavoratori, uomini e donne ([52]), un sacrificio ben maggiore rispetto al lavoro prestato quotidianamente nello stesso orario e di giorno, ma che non per questo sarebbe opportuno assoggettare per legge ‑ tranne che per categorie di lavoratori meritevoli di particolare e rigida tutela, come i minori ‑ a un regime di divieto, sia pur temperato da eccezioni rigidamente predeterminate, o a un regime di autorizzazioni discrezionalmente rilasciate da autorità amministrative.

Note

 

([1]) Parla in proposito di una “favolosa buona novella” anche G. Aznar, Travailler moins pour travailler tous. 20 propositions, Paris, Syros, 1993 (tr. it.: Lavorare meno per lavorare tutti. Venti proposte), Torino, Bollati Boringhieri, 1994), in continuità ideale con il discorso di A. Gorz, Métamorphoses du travail. Que^te du sens. Critique de la raison économique, Paris, Galilé, 1988 (tr. it.: Metamorfosi del lavoro. Critica della ragione economica, Torino, Bollati Boringhieri, 1992) sulla necessità di un passaggio epocale dall’intrinseca irrazionalità della “modernizzazione”, ovvero di una rivoluzione tecnologica non governata dalla politica, alla razionalità della “società del tampo libero” per tutti.

([2]) Traggo il dato da P. Ormerod, Unemployment: A Distributional Phenomenon, comunicazione al convegno promosso dallo European University Institute di Firenze su Unemployment and Policies Towards It, aprile 1996, p. 13 del dattiloscritto.

([3]) Cfr. D. De Masi, Sviluppo senza lavoro, Roma, Ed. lavoro, 1994: “nell’Atene di Pericle ogni greco libero disponeva mediamente di otto schiavi che gli permettevano di non lavorare dedicando il proprio tempo alla politica, alla poesia, all’amore e all’introspezione; nell’America di Clinton ogni cittadino dispone di elettrodomestici pari, per capacità produttiva, a quella di 33 schiavi, eppure soffre di stress o perché sovroccupato nel lavoro o perché disoccupato”.

([4]) Cfr. per tutti R. Reich, The Work of Nations, New York, Vintage, 1992: “La barca che trasporta i lavoratori dequalificati (routine producers) sta affondando rapidamente” (p. 209; tr. mia).

([5]) Secondo i dati proposti da J. Rifkin (La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato, Milano, Baldini & Castoldi, 1995, pp. 269 – 294, partic. pp. 283 – 287: dati riferiti alla situazione degli Stati Uniti, dove assai più che in Europa si fa affidamento sulla capacità del mercato del lavoro di risolvere da solo automaticamente i propri problemi), solo il 20% della forza-lavoro nordamericana, costituito dai knowledge workers, è riuscito a trarre vantaggio dal nuovo mercato del lavoro e ha visto nell’ultimo decennio il proprio reddito crescere in termini reali, mentre il restante 80% è stato impoverito dall’innovazione tecnologica.

([6]) Cfr. R. Reich, The Work of Nations, cit., il quale sottolinea peraltro come gli “in-person servers” siano, sì, protetti dagli effetti dell’innovazione tecnologica e da quelli della competizione planetaria, per la particolare natura del servizio che essi offrono, ma soffrano e siano destinati a soffrire sempre di più la concorrenza dei lavoratori dequalificati espulsi dal sistema delle imprese (p. 215).

([7]) Per una esposizione critica della disciplina legislativa della materia e delle esperienze effettivamente svolte v. A. Tursi, I lavori socialmente utili come misura di workfare, in Riv. it. dir. lav., 1995, I, pp. 361 – 391; ivi gli ulteriori riferimenti. Una forte opzione per una politica di attivazione stabile di “lavori concreti”, produttivi di valori d’uso invece che di “valore di scambio” è auspicata da G. Lunghini, Valore di scambio e valori d’uso. Disoccupazione e nuovi valori, in Aa.Vv., Il giusto lavoro per un mondo giusto. Dalle 35 ore alla qualità del tempo di vita, Milano, Ed. Punto Rosso, 1995, pp. 97 – 107.

([8]) V. ultimamente il Documento congressuale elaborato in preparazione del XIII congresso nazionale della Cgil (in Rass. sind., 1996, n. 2, suppl.), § 3.3, intitolato: “Creare lavoro, per i lavori fuori mercato, per la natura e la persona”.

([9]) Sugli effetti della disciplina limitativa dei licenziamenti oggi vigente in Italia e su di una possibile sua riforma v. il capitolo successivo.

([10]) V. in proposito, tra i contributi più interessanti sul piano politico-sindacale, quelli raccolti nel convegno svoltosi a Milano nel luglio 1995 per iniziativa dei parlamentari europei di Rifondazione comunista, ora in Aa.Vv., Il giusto lavoro per un mondo giusto. Dalle 35 ore alla qualità del tempo di vita, cit. La “linea” della riduzione progressiva dell’orario normale massimo di lavoro a 35 ore e 32 nelle lavorazioni a ciclo continuo è stata formalmente fatta propria nel gennaio 1996 dal Comitato direttivo nazionale della Cgil nel Documento congressuale elaborato in preparazione del XIII congresso nazionale (cit.), § 3.2, intitolato “La riduzione dell’orario a parità di salario”. In proposito v. anche l’intervista a S. Cofferati, Più decisi sull’orario. Una “vertenzialità generale” per arrivare alle 35 ore, in Orari di fine millennio, suppl. di Rass. sind., 1996, n. 14, p. 4, dove viene precisato l’obbiettivo del limite generalizzato di 35 ore entro il prossimo decennio, peraltro condizionato a una “omogeneità di prassi rivendicativa” su scala europea. Ma questa linea stenta a raccogliere pieno consenso nei luoghi di lavoro e tra gli stessi dirigenti sindacali.

([11]) V. la proposta di G. Aznar (Lavorare meno per lavorare tutti. Venti proposte, cit., partic. pp. 183 – 200), che prevede sostanzialmente l’utilizzazione del prelievo fiscale sui redditi di lavoro a tempo pieno per l’istituzione di un “secondo assegno”, da corrispondersi a chi lavora a tempo parziale, al fine di consentirgli di dedicarsi a una attività produttiva di servizi utili ma “fuori mercato”, cioè produttiva di valore d’uso ma non di valore di scambio. Per questo aspetto la proposta di A. si ricollega sostanzialmente ‑ ancorché non esplicitamente ‑ per un verso al progetto svedese Time to care dei primi anni ‘80, finalizzato peraltro alla valorizzazione del volontariato piuttosto che all’incentivazione della riduzione dei tempi di lavoro “in mercato” (sul quale v. la raccolta di scritti curata da L. Balbo, Time to Care. Politiche del tempo e diritti quotidiani, Milano, Angeli, 1987), per altro verso all’idea di J.E. Meade del “reddito di base” o “assegno di cittadinanza” fisso, sostitutivo di ogni altra forma di assistenza, da erogarsi a ogni cittadino per la migliore coniugazione della sicurezza sociale con l’economia di mercato e la massima flessibilizzazione delle retribuzioni (v. in proposito di questo A. Libertà, eguaglianza ed efficienza, Milano, Feltrinelli, 1995).

([12]) É la tesi essenziale del libro sopra più volte citato del ministro del lavoro del Governo Clinton, R. Reich, The Work of Nations.

([13]) Nel cap. II.

([14]) K. Marx, Salario, prezzo e profitto.

([15]) Su questo aspetto del problema v. ultimamente P. Salin, The illusion of reducing working time, comunicazione al convegno su Unemployment and Policies Towards It, cit.

([16]) Dati Inps 1993: sul totale di poco più di 9 milioni di lavoratori regolarmente iscritti all’assicurazione obbligatoria, 5.577.505, pari al 61,7%, lavorano in aziende con meno di 100 dipendenti.

([17]) Il rischio che gli effetti di redistribuzione dell’occupazione potenzialmente derivanti dalla riduzione autoritativa degli orari siano compressi o annullati dalla facilità di accordo tra imprese e lavoratori per lo svolgimento di lavoro straordinario è particolarmente sottolineato da J.D. Whitley e R.A. Wilson, The impact on employment of a reduction in the length of the working week, in Cambridge Journal of Economics, 1986, n. 10, pp. 43 – 59; nello stesso senso ultimamente M.J. Andrews e R. Simmons, Friday may never be the same again. Some results on work sharing from union-firm bargaining models, comunicazione al convegno promosso dallo European University Institute di Firenze su Unemployment and Policies Towards It, aprile 1996; ivi i riferimenti alla letteratura economica precedente in argomento. Il rischio che la riduzione d’orario porti con sé soprattutto aumento del lavoro straordinario e del “lavoro nero” non è sottolineato soltanto “da destra”: v. recentemente anche S. Bologna, Le parole al vento di tanta sinistra, intervento al convegno internazionale di Milano del luglio 1995 su “Il giusto lavoro per un mondo giusto”, cit., negli atti, citt., pp. 57 – 74 (ripreso in Rass. sind., 1995, n. 30, pp. 27 – 30), il quale conclude: “Nel settore privato la quota maggiore del lavoro è ormai sfuggita a meccanismi di controllo e regolamentazione. Né mi sembra di vedere all’orizzonte una forma Stato in grado di regolamentare gli orari di lavoro per legge e di farla rispettare. Dunque, togliamoci dalla testa di risolvere la disoccupazione con riduzioni di orario” (p. 69); e G. Pennisi, Lavorare meno lavorare tutti?, ne Le ragioni del socialismo, aprile 1996, n. 3, pp. 29 – 31

([18]) V. in proposito § 6.

([19]) La tendenziale coincidenza tra riduzione d’orario e aumento della produttività oraria del lavoro è uno dei pochi punti fermi, su cui sembrano concordare gli economisti di tutti gli orientamenti: v. tra gli altri Y. Barou e J. Rigaudiat, Les 35 heures et l’emploi, Paris, La Documentation française, 1983, particolarmente p. 176; J.D. Whitley e R.A. Wilson, The impact on employment of a reduction in the length of the working week, cit.; v. anche, ultimamente, P. Potestio, Illusioni sull’orario, ne “Il Sole – 24 Ore”, 17 aprile 1996. Il fenomeno è stato osservato e misurato con precisione in occasione della riduzione generale di un’ora dell’orario settimanale disposta dal Governo francese nel 1982: Commissariat Général du Plan, Les enseignements des modèles macro-economiques sur la réduction de la durée du travail, in Aménagement et réduction du temps de travail, Paris, Doc. française, 1984, particolarmente p. 277 – 281 (v. in proposito la nota seguente).

([20]) Commissariat Général du Plan, op e loc. cit. nella nota prec.: a fronte di una riduzione pari al 2,5% della durata settimanale del lavoro, con compensazione retributiva corrispondente mediamente al 30% della minor durata del lavoro, nel corso del 1982 si è registrato un aumento della produttività del lavoro nell’unità di tempo pari al 4,4%, contro l’1,0% dell’anno precedente; il numero complessivo dei posti di lavoro creati o mantenuti (licenziamenti evitati) per effetto della riduzione d’orario veniva invece stimato dal Governo in 68.000 unità, pari circa allo 0,3% della popolazione attiva.

([21]) La letteratura economica in proposito è sterminata. Tra gli studi del Bureau International du Travail, v. R. Cuvillier, Vers la réduction du temps de travail?, Genéve, O.I.T., 1981, con orientamento marcatamente dubitativo; W. van Ginneken, La réduction de la semaine de travail et l’emploi. Comparaison entre sept modèles macro-économiques européens, in Rev. Int. Trav., 1984, n. 1, pp. 37 – 56, il quale rileva la notevole divergenza dei risultati a cui pervengono i diversi studi, e ne individua la causa nel diverso peso che nei singoli modelli viene attribuito a variabili quali la possibilità di ricorso al lavoro straordinario e di recupero di produttività, conseguenti alla riduzione dell’orario di lavoro. Inoltre, fra i documenti ufficiali della Commissione delle Comunità Europee, il Memorandum su riduzione e ristrutturazione del tempo di lavoro presentato al Consiglio il 7 gennaio 1983 (Bruxelles, 1983, datt.), dove si fa riferimento a diversi modelli macroeconomici elaborati in precedenza. Tra gli studi e gli interventi dell’ultimo decennio, oltre a quelli citati nelle note precedenti e senza alcuna pretesa di completezza, v., in senso cautamente positivo (ma sotto precise e strette condizioni), S. Salzano e G. Vaggi, Riduzione di orario, occupazione e inflazione: un’analisi, in Fiom Cgil Lombardia, I tempi dei metalmeccanici: desideri e realtà. Ricerche sull’orario svolte in Lombardia tra il 1989 e il 1991, Milano, Meta, 1992, pp. 21 – 83; in modo più netto A. Fumagalli, Salario sociale e riduzione dell’orario di lavoro: alcune riflessioni, in Aa.Vv., Il giusto lavoro per un mondo giusto. Dalle 35 ore alla qualità del tempo di vita, cit., pp. 86 – 96, secondo il quale “la riduzione dell’orario deve essere repentina e drastica: già oggi 35 ore sono una richiesta insufficiente” (p. 94); in esclusivo riferimento a un sistema in cui il sindacato detenga il monopolio effettivo dell’offerta di lavoro, L. Calmfors, Work sharing, Employment and wages, in European Ec. Rev., 1985, pp. 293 – 309. In senso opposto, A. Booth e F. Schiantarelli, The Employment effects of a Shorter Working Week, in Economica, 1987, pp. 237 – 248, che concludono nel senso della prevedibilità di effetti negativi di una riduzione autoritativa degli orari settimanali di lavoro: “Rimane per noi incomprensibile perché i sindacati facciano pressione per la riduzione dell’orario, dal momento che i relativi effetti sui livelli occupazionali, oltre che sugli interessi diretti dei sindacati stessi, sono presumibilmente negativi” (trad. mia); M. Hoel e B. Vale, Effects on unemployment of reduced working time in an economy where firms set wages, in European Ec. rev., 1986, pp. 1097 – 1104, i quali, in riferimento a un sistema in cui il sindacato sia assente o inefficiente e le imprese abbiano il potere di fatto di fissare i livelli retributivi, concludono nel senso che la riduzione degli orari ha qui prevedibilmente l’effetto di un aumento delle retribuzioni per gli occupati e di un aumento del livello di disoccupazione.

([22]) V. in questo senso, in riferimento ai risultati della comparazione su scala internazionale G. Pennisi, Lavorare meno lavorare tutti?, cit., pp. 31. In riferimento al solo mercato del lavoro italiano, i dati proposti dalla Confindustria alla Commissione Lavoro del Senato nel corso dell’apposita audizione svoltazi il 13 maggio 1995 (il documento è stato riproposto nel seminario promosso dalla Confindustria a Marentino nel gennaio 1996 sul tema Direttiva sull’orario di lavoro e prospettive nazionali. Una opportunità per valorizzare le esigenze delle imprese; v. ivi particolarmente p. 3 e il corrispondente grafico in appendice, costruito mediante elaborazione su dati Istat).

([23]) Ue Commission Directorate General for Economic and Financial Affairs, Performance of the European Union Labour Market. Results of an ad hoc labour market survey ecc., in European Economy, 1995, n. 3, p. 17. Dati analoghi erano riportati in Comm. eur., Eurobaromètre, dicembre 1993, n. 40, p. 75; dalla tabella analitica n. 54 riportata ivi in appendice si trae un sostanziale allineamento del dato italiano rispetto alla media comunitaria.

([24]) Performance of the European Union Labour Market, loc. cit.

([25]) Sulla prospettiva e gli aspetti positivi ‑ soprattutto dal punto di vista della promozione delle pari oppotunità di occupazione per le donne ‑ della diffusione dello short full time v. B. Beccalli e M. Salvati, equal Opportunities for Women and Men. Gender, Employment and Working Time: a Long-Run View, rapporto alla Commissione Europea, datt., dicembre 1994. Traggo spunto in proposito anche da una bella lezione tenuta da P. Marcenaro, segretario della Cgil piemontese, all’Università di Milano il 29 maggio 1996, che meriterebbe di essere trascritta e pubblicata.

([26]) V. ancora Performance of the European Union Labour Market, cit., p. 18.

([27]) Rinvio su questa particolare esperienza di settore al mio studio Autonomia individuale e autonomia collettiva in materia di lavoro a tampo parziale. Una verifica “sul campo” nel settore del credito, in Aa.Vv. (a cura di G. Pera), Disoccupazione e nuove forme di accesso al lavoro nel mondo bancario, Milano, Angeli, 1986, pp. 37 – 57 (e in Riv. giur. lav., 1985, I, pp. 417 – 432).

([28]) Cfr. P. Ormerod, Unemployment: A Distributional Phenomenon, cit., p. 12 del dattiloscritto.

([29]) V. § 28 ed ivi nota 2.

([30]) Cfr. P. Salin, The illusion of reducing working time, cit., dove, pur sottolineandosi gli aspetti positivi di una prospettiva di fluidificazione dell’incontro fra domanda e offerta non standard del tempo di lavoro, si sottolinea anche la necessità che la riduzione dell’estensione temporale della prestazione sia non soltanto desiderata dal lavoratore, ma pienamente compatibile con le esigenze produttive dell’impresa.

([31]) J. Rifkin, La fine del lavoro, cit.

([32]) Sul lavoro inteso come “processo informazionale” v. R. Nobili, Quantità di lavoro/tempo di lavoro, in Aa.Vv., L’orario di lavoro tra fabbrica e società (a cura dell’Istituto Gramsci, Sezione veneta), Milano, Angeli, 1981, pp. 97 – 124, il quale, per individuare il nuovo oggetto del lavoro umano, propone le nozioni di “informazione viva” come “messaggio” e di “informazione morta” come “memoria”.

([33]) Cfr. European Commission Directorate General for Economic and Financial Affairs, Performance of the European Union Labour Market, cit., partic. §§ 2.7 e 2.8, p. 12. Sul versante della letteratura giuridica v. ultimamente, su questo punto, M. Biagi, Il futuro del contratto individuale di lavoro in Italia, in Lav. dir., 1996, p. 341.

([34]) V. in proposito § 12.

([35]) Nel § 30.

([36]) Qualche cosa in questa direzione è stato fatto nell’ultimo anno con il decreto-legge n. 180/1996, che prevede il proporzionamento del premio di assicurazione Inail alla riduzione dell’orario nel lavoro a tempo parziale (art. 2, c. 10° e 11°) e la possibilità di riduzione mediante decreto ministeriale delle aliquote contributive per rapporti di lavoro a tempo parziale che consentano l’incremento degli organici (art. 6, c. 6°). Ma perché una disposizione del genere di quest’ultima citata fosse efficace occorrerebbe che essa venisse accompagnata da una adeguata campagna di informazione e che l’iter burocratico necessario per fruire del beneficio non fosse sproporzionato rispetto al beneficio stesso.

([37]) L. 19 dicembre 1984 n. 863, art. 5, c. 3.

([38]) Così, ad esempio, nel settore del credito l’accordo nazionale sul lavoro a tempo parziale del 1985, come modificato dai c.c.n.l. successivi e ultimamente da quello del 1994, art. XIV, prevede ancora un limite massimo del numero di rapporti di lavoro che possono essere ridotti da tempo pieno a tempo parziale nella misura del 10% degli organici aziendali, nonché un limite massimo del 5% dell’organico complessivo per le nuove assunzioni; stabilisce altresì il limite minimo di 15 e massimo di 32 ore e mezza di durata. Limiti analoghi circa il numero e le modalità temporali dei rapporti a tempo parziale sono previsti nel c.c.n.l. 1995 per gli enti locali, art. 15, e dal c.c.n.l. 1995 per gli enti parastatali, art. 15. Prevedono solo limiti massimi e minimi di orario settimanale nel lavoro a tempo parziale il c.c.n.l. del 1990 per il settore terziario, art. 40; il c.c.n.l. per il settore del turismo del 1994, art. 52; il c.c.n.l. per le cooperative di distribuzione del 1990, art. 32; il c.c.n.l. del 1990 per gli istituti privati di vigilanza, art. 31. Prevedono solo limiti percentuali massimi di rapporti a tempo parziale rispetto all’organico aziendale totale il c.c.n.l. per il settore metalmeccanico del 1994, disc. gentile., sez. III, art. 1bis; il c.c.n.l. del 1991 per il settore dell’autotrasporto e spedizione merci, art. 4; il c.c.n.l. per il settore dell’oreficeria artigianale del 1993, art. 18, lett. e.

([39]) V. ancora, in proposito, op. cit. nella nota 27. Si obietta, a questo proposito, che con la riduzione dell’orario il lavoratore accetta una riduzione della propria retribuzione; ma se il lavoratore stesso è libero di rinunciare all’intero rapporto di lavoro, con l’atto delle dimissioni, senza doverne rendere conto a nessuno, a maggior ragione deve essergli riconosciuta la capacità di negoziare una riduzione del tempo della propria prestazione con corrispondente riduzione della retribuzione.

([40]) In senso contrario v. invece P. Salin, The illusion of reducing working time, cit., secondo il quale l’incentivazione economica delle riduzioni d’orario, oltre a determinare una irrazionale allocazione delle energie lavorative, rischierebbe di produrre un effetto depressivo sui livelli occupazionali sottraendo risorse agli investimenti (partic. pp. 16 – 17).

([41]) L’art. 6 della direttiva fissa un limite massimo di 48 ore settimanali di lavoro ordinario e straordinario, limite che gli ordinamenti interni possono riferire alla durata settimanale media del lavoro nell’arco di quattro mesi (art. 16, n. 2).

([42]) É l’idea già compiutamente esposta alla fine degli anni settanta dal gruppo francese Echange et Projets (La révolution du temps choisi, Paris, Albin, 1980; tr. it.: La rivoluzione del tempo scelto, a cura di P. Vaselli, Milano, Angeli, 1986).

([43]) La Corte costituzionale, con la sentenza 11 maggio 1992 n. 210 (in Riv. it. dir. lav., 1992, II, p. 732) ha stabilito che le c.d. “clausole elastiche” nel lavoro a tempo parziale sono legittime soltanto se il potere di variazione attribuito al datore di lavoro è correlato a “coordinate temporali contrattualmente determinate od oggettivamente predeterminabili”. Vale in proposito il discorso che verrà svolto nel paragrafo 36 e nel capitolo seguente circa la preferibilità del “filtro” delle esigenze obbiettive dell’impresa costituito dalla predeterminazione di un “prezzo minimo” dell’elasticità, rispetto a quello costituito dalla predeterminazione legislativa di una casistica specifica o dalla valutazione del giudice caso per caso.

([44]) Una definizione e una disciplina compiuta del flexi-time sono contenute nel titolo II, intitolato alla “flessibilità dell’orario nell’interesse del lavoratore”, del progetto di legge elaborato dalla Commissione Caviglioli su incarico del ministro del lavoro Giugni nell’autunno 1993 (che può leggersi, con la relazione accompagnatoria, in Riv. it. dir. lav., 1994, III, pp. 93 – 111).

([45]) Una definizione e una disciplina compiuta del job sharing sono contenute, in termini molto simili tra loro, nel titolo III, intitolato al “lavoro in obbligazione solidale per una sola prestazione”, del progetto di legge della Commissione Caviglioli cit. nella nota prec., nell’art. 20 del disegno di legge n. 2764/C presentato dal ministro del lavoro Treu il 26 giugno 1995 e negli artt. 20 – 22 del progetto di legge n. 2483/C presentato dai parlamentari del gruppo progressista il 4 maggio 1995 (prima firmataria L. Turco). Sulle esperienze straniere e le questioni giuridiche che possono porsi nel nostro ordinamento in materia di job sharing rinvio alla mia monografia Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, vol. II, Milano, Giuffré, 1985, pp. 401 – 412; v. in proposito anche, ultimamente, C. Alessi, Part-time e job sharing, in Quad. dir. lav. rel. ind., 1995, n. 17, pp. 128 – 130.

([46]) V. in proposito la raccolta di contributi curata da L. Balbo, Time To Care, Milano, Angeli, 1987; e ultimamente C. Cester, Lavoro e tempo libero nell’esperienza giuridica, in Quad. dir. lav. rel. ind., 1995, n. 17, partic. pp. 21 – 25.

([47]) Rinvio sul punto a quanto più compiutamente proposto nella mia monografia cit. nella nota 45, pp. 483 – 487.

([48]) L’Italia risulta essere comunque il Paese dell’Unione europea con la più bassa percentuale di lavoro domenicale: secondo i dati Eurostat, nel 1993 solo l’8,1% dei lavoratori italiani era abitualmente impegnato nel lavoro di domenica, a fronte di percentuali via via crescenti in tutti gli altri Paesi membri, fino al 19,8% di Danimarca e Germania; inversamente, la percentuale di lavoratori italiani impegnati abitualmente nel lavoro di sabato è la più alta: 41,6%, a fronte di percentuali via via decrescenti in tutti gli altri Paesi membri, fino al 27% della Danimarca, al 21,9% della Germania e al 18,3% del Belgio (European Labour Force Survey, 1995; in proposito v. anche A. Accornero, P. Di Nicola, La flessibilità e gli orari di lavoro, ne La mobilità della società italiana. Le persone, le imprese, le istituzioni, a cura di G. Galli, Roma, Sipi, 1996, pp. 324 – 325).

([49]) All’Assemblea costituente venne discusso e scartato un emendamento di parte democristiana che tendeva a sostituire al principio del “riposo settimanale” quello del “riposo festivo”, cioè a costituzionalizzare la scelta della domenica e delle altre feste religiose come giorni di riposo generalizzato (v. i relativi atti ne La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, Roma, 1970, pp. 1565 – 1566).

([50]) La necessità di una maggiorazione per il lavoro festivo, non prevista esplicitamente dalla legge oggi vigente, è oggi affermata come corollario dell’art. 36 Cost. dalla giurisprudenza di legittimità e di merito.

([51]) V. il capitolo seguente.

([52]) Dopo la sentenza 25 luglio 1991 nella causa Stoeckel n. 345/89 (in Giur. it., 1992, I, 1, c. 1192), con la quale la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha affermato la contrarietà alla direttiva comunitaria n. 207/1976 del divieto di lavoro notturno sancito dalla legge francese per le sole donne, la giurisprudenza italiana si è prevalentemente orientata nel senso di considerare non più applicabile il divieto ‑ pur derogabile in sede collettiva ‑ di lavoro notturno posto dall’art. 5 della legge n. 933/1977 per le donne nel settore manifatturiero.

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