IL NOBEL A PAUL KRUGMAN. LA COSCIENZA DI UN LIBERAL

E’ COMPITO DELLA BUONA POLITICA FAR NASCERE E RAFFORZARE LA “CLASSE MEDIA”

Una mia recensione in corso di pubblicazione sul n. 4/2008 della Rivista italiana di diritto del lavoro

          L’ultimo libro del grande economista statunitense insignito nei giorni scorsi del premio Nobel, The Conscience of a Liberal  (New York-Londra, Norton, 2007, pp. 296, $ 25,95, ora disponibile anche in traduzione italiana: Bari, Laterza, 2008) muove dalla constatazione di un fenomeno ben noto alle scienze sociali, i cui riflessi sull’effettività del diritto del lavoro abbiamo recentemente discusso in questo sito: l’enorme aumento delle disuguaglianze nei redditi di lavoro e nella ricchezza verificatosi negli ultimi tre decenni rispetto alla situazione degli anni ’50, ’60 e ’70, la polarizzazione del mercato del lavoro fra lavoratori molto forti e lavoratori molto deboli, con il progressivo assottigliamento delle file della classe media (primo capitolo: “come eravamo”).
          L’Autore, economista della Princeton University e attivissimo editorialista del New York Times, si interroga circa le cause del fenomeno prendendo in considerazione la tesi oggi dominante a questo proposito, secondo cui l’aumento delle disuguaglianze e la polarizzazione sarebbero imputabili all’accelerazione dello sviluppo tecnologico (che premia soltanto chi è capace di approfittarne ed elimina le mansioni d’ordine o ripetitive) e alla globalizzazione (che espone i lavoratori con bassa professionalità dei Paesi avanzati alla concorrenza dei lavoratori del Paesi in via di sviluppo). Ma egli sostiene che questa tesi può spiegare soltanto una parte del fenomeno. Osserva inoltre che alla polarizzazione del mercato del lavoro ha corrisposto una polarizzazione della politica statunitense, con la radicalizzazione verso destra del Partito Repubblicano e la fine della stagione postbellica nella quale era parsa prevalere, nella determinazione delle policies nazionali, la coltivazione bi-partisan degli assetti equalizzatori prodotti dal New Deal e dalle politiche del periodo bellico (secondo capitolo: “la lunga età dell’oro”; terzo: “la grande compressione”; quarto: “le politiche del welfare State”), rispetto alla contrapposizione frontale tra difensori dei ricchi e difensori dei poveri (quinto capitolo: “il movimento conservatore”; sesto: “la grande divergenza”); e si chiede se questa polarizzazione politica, verificatasi a partire dagli anni ’70, debba considerarsi come una conseguenza di quella economica, o viceversa.
           La tesi di P.K. è nettamente la seconda: così come sono state le politiche del New Deal, quelle del periodo bellico e quelle immediatamente successive – con la nascita del diritto del lavoro e del diritto sindacale ‑ a “creare” la classe media, allo stesso modo l’aumento delle disuguaglianze e l’impoverimento della parte più povera della forza-lavoro sono in larga parte il prodotto, oltre che delle politiche antisindacali, dello smantellamento del welfare State ad opera delle amministrazioni repubblicane da Reagan in poi; e questo smantellamento è stato reso possibile dal prevalere del movimento conservatore in seno al Partito Repubblicano e dalla superiore capacità dimostrata da questo partito nella raccolta (assistita da mezzi non sempre leciti) del consenso elettorale, nel “distrarre” l’opinione pubblica dai temi cruciali ponendo al centro del dibattito politico questioni ideologico-religiose rispetto alla questione economico-sociale cruciale (settimo capitolo: “le politiche della disuguaglianza”; ottavo: “armi di distrazione di massa”). L’A. tuttavia ravvisa alcuni sintomi, tra i quali l’esito delle elezioni politiche mid-term del 2006, di un cambiamento di tendenza: nel prossimo futuro la strategia della “distrazione di massa” perseguita dal movimento conservatore potrebbe continuare a perdere colpi e l’insoddisfazione della maggioranza dei cittadini statunitensi per il peggioramento delle proprie condizioni e la rivolta morale contro l’allargarsi continuo e impressionante del gap di ricchezza e di reddito tra i più e i meno fortunati potrebbero presto tradursi nella fine dell’egemonia politica del movimento conservatore e in un sostegno vincente alle politiche di rilancio del sistema nazionale di assistenza sanitaria generalizzata (che P.K. considera il terreno di impegno più importante per il movimento liberal).
          Le ultime pagine del libro sono dedicate alle prospettive di riconquista del potere da parte del movimento progressista, riconquista per la quale l’A. indica come indispensabile un atteggiamento marcatamente partisan da parte dei liberals: in questa fase – egli sostiene ‑ non c’è spazio per politiche bi-partisan (affermazione che sembra contrapporsi nettamente a quanto si legge nel libro coevo di Barak Obama, The Audacity of Hope, dove invece il probabile futuro presidente degli U.S.A. sottolinea la necessità di “entrare nei panni degli avversari” per capire meglio, dal di dentro, che cosa ha mosso per tanti anni nel recente passato la maggioranza dei cittadini a conferire loro la maggioranza).
          Se un difetto può ravvisarsi, almeno a una prima lettura, nell’argomentazione di P.K., esso sta nella mancanza di una analisi raffinata delle cause del declino del movimento sindacale statunitense e del tasso di sindacalizzazione: attribuire per intero il fenomeno a politiche e prassi repressive da parte di Governo e imprese non sembra una soluzione soddisfacente. D’altra parte, senza un chiarimento attendibile su questo punto perde credibilità la strategia di rilancio di un movimento politico pro-labor che intenda fare perno – come P.K. propugna – proprio su di un rilancio del movimento sindacale. Il libro – al di là di queste e altre critiche che possono essergli mosse ‑ è comunque di straordinario interesse per qualsiasi liberal anche nel Vecchio Continente; e anche per i nostri neo-cons, ai quali pure può servire una analisi così precisa e informata della vicenda dei loro omologhi americani.

 

 

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