I CORRETTIVI NECESSARI AL REGIME DEL 41-BIS

IL REGIME DI ISOLAMENTO NON PUÒ GIUSTIFICARSI COME AGGRAVIO DI PUNIZIONE, BENSÌ SOLO COME MISURA DI SICUREZZA CONTRO IL RIPETERSI DI AGGRESSIONI MORTALI; PROPRIO PER QUESTO NON DEVE APPLICARSI A PERSONE CHE ABBIANO NETTAMENTE RECISO OGNI LEGAME CON LE ASSOCIAZIONI CRIMINALI DI CUI HANNO FATTO PARTE

Interrogazione presentata alla Presidenza del Senato il 27 gennaio 2016 – In argomento v. anche la mia Lettera aperta sul 41-bis, pubblicata sul mensile Ristretti Orizzonti il 16 novembre 2015; e lo scambio di lettere con i detenuti che ne è seguito:  Le prime risposte dal carcere sul 41-bis; Perché gettare la chiave può essere un delitto peggiore; nonché il resoconto di Ornella Favero, direttore di Ristretti Orizzonti, sul mio incontro con i detenuti in regime di alta sicurezza 1 del carcere di Parma   
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INTERROGAZIONE A RISPOSTA IN COMMISSIONE
al ministro della Giustizia

dei senatori ICHINO, MANCONI, BERGER, D’ADDA, DALLA ZUANNA,
FUCKSIA, GUERRA, MANASSERO, SUSTA

per conoscere l’orientamento del ministro sul piano amministrativo e su quello dell’eventuale iniziativa legislativa in merito alle questioni sotto illustrate, relative all’applicazione del regime speciale di detenzione ex art. 41-bis introdotto nella legge 26 luglio 1975 n. 354 (ordinamento penitenziario) dalla legge 10 ottobre 1986 n. 663, nonché all’applicazione dell’articolo 4-bis introdotto nella stessa legge n. 354/1975 dalla legge 12 luglio 1991 n. 203.

Premesso che

  • l’articolo 41-bis sopra citato costituisce una misura di sicurezza disposta dal ministro di Grazia e Giustizia in relazione a situazioni gravi di emergenza negli istituti penitenziari (comma 1), oppure in relazione a esigenze di ordine pubblico che richiedano di impedire drasticamente ogni possibile contatto del detenuto con l’organizzazione criminale alla quale egli abbia appartenuto e possa ancora appartenere (comma 2);
  • la stessa norma prevede (comma 2-quinquies) che contro il provvedimento emanato dal ministro a norma del comma 2 il condannato, internato o imputato interessato possa proporre ricorso al Giudice di Sorveglianza;
  • dopo il primo quadriennio, è previsto che la misura di cui al comma 2 venga prorogata quando risulti che la capacità del detenuto di mantenere il contatto con l’organizzazione criminale non sia venuta meno;
  • la norma si è rivelata effettivamente molto efficace in tutti i casi in cui essa è stata applicata per recidere drasticamente il collegamento tra persone detenute e organizzazioni criminali, fossero esse di natura politico-terroristica o mafiosa; la stessa insistenza con cui la sua applicazione è stata contestata e combattuta da parte di cosche mafiose ancora attive è conferma di questa efficacia;
  • in riferimento alla norma in questione la Corte costituzionale ha emanato numerose pronunce interpretative di rigetto (in particolare le sentenze n. 349 e n. 410/1993, n. 351/1996, n.  376/1997), o pronunce che, anche se non qualificabili come tali, ribadiscono il dovere di una interpretazione e applicazione costituzionalmente orientata della norma (ordinanze n. 332/1994, n. 192/1998, n. 390/2002, n. 417/2004, n. 190/2010);
  • attualmente sono oltre 700 le persone detenute nel regime previsto da questa norma;
  • una parte molto rilevante di queste 700 persone si vede applicato il regime di cui alla norma in questione da molti anni, senza che la situazione specifica che vi ha dato origine sia stata riesaminata al fine di verificare la perdurante attualità delle esigenze di sicurezza in funzione delle quali la misura era stata originariamente disposta;
  • da una rilevazione svolta dagli interroganti risulta che in numerosi di questi casi la misura di sicurezza effettivamente è stata e continua a essere mantenuta molto a lungo anche per periodi nei quali non era e non è ragionevolmente ravvisabile il perdurare delle esigenze di sicurezza originarie;
  • là dove viene applicato il regime previsto da questa norma, vengono invariabilmente disposte anche misure che appaiono – salvo casi particolari – incongrue rispetto alle esigenze di sicurezza che il regime deve soddisfare; in particolare:

. la limitazione dell’orario dei colloqui con i familiari della persona detenuta a una sola ora al mese;

. la regola della rigida invariabilità del giorno e dell’orario fissati dall’amministrazione penitenziaria per il colloquio i familiari, per cui il colloquio salta anche quando questi ultimi abbiano subìto un impedimento oggettivo a presenziare al colloquio (per esempio a causa di uno sciopero dei mezzi di trasporto);

. la regola per cui le conversazioni telefoniche consentite tra la persona detenuta e i familiari possono avvenire soltanto a condizione che questi ultimi si facciano trovare per la chiamata presso un carcere;

. il divieto di cucinare i propri alimenti in cella;

  • la previsione legislativa rigida dei contenti della misura (non più “può prevedere” ma “prevede”: comma 2-quater), che non sono dunque più modulabili dal ministro a seconda delle circostanze concrete, ha introdotto una rigidità del sistema, che appare eccessiva e che determina per l’autorità giurisdizionale competente sui reclami un indebito sovraccarico;
  • resta non previsto e non disciplinato il dovere di consentire anche ai detenuti in regime di 41-bis, nonostante le limitazioni necessarie,  di usufruire di istituti e strumenti per intraprendere e proseguire il percorso rieducativo (cultura, istruzione, assistenza religiosa ove richiesta dalla persona interessata, osservazione e colloqui con gli educatori, contatti con persone esterne adeguatamente selezionate: i colloqui con persone diverse dai familiari sono autorizzati solo in via eccezionale, caso per caso, dalla Direzione – comma 2-quater, lettera b dell’articolo in esame); donde un profilo assai rilevante di possibile violazione dell’art. 27, comma 3, Cost.;
  • la possibilità di revoca anticipata d’ufficio della misura, introdotta nel 2002, è stata soppressa nel 2009 (comma 2-ter), col risultato di favorire il determinarsi di situazioni concrete in cui la misura resta attiva per un tempo non breve anche dopo che ne sono cessati i presupposti;
  • occorrerebbe evidentemente che sulla permanenza dei presupposti per l’adozione e il mantenimento della misura di sicurezza si esercitasse comunque un controllo giurisdizionale effettivo, non basato solo su rapporti di autorità di polizia ma anche su ogni altro tipo di accertamento utile, in particolare circa la situazione concreta del detenuto;
  • occorrerebbe altresì che il controllo giurisdizionale realizzasse un sindacato effettivo non solo sull’esistenza dei pericoli di collegamenti o contatti tra il detenuto e l’organizzazione criminale, ma anche sul contenuto delle misure adottate;
  • la competenza esclusiva del Tribunale di Sorveglianza di Roma a sindacare i provvedimenti ministeriali, anche se presumibilmente giustificata dall’intento di evitare difformità di giudizio e di assicurare la partecipazione al procedimento della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo, rende indubbiamente più difficile un controllo sulle condizioni locali effettive dei detenuti ristretti in carceri dislocate lontano dalla capitale;
  • tutte le considerazioni che precedono sono qui proposte nello stesso spirito con il quale un giovane valente magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi conclude la recensione del libro dedicato a questi temi da un altro magistrato, Elvio Fassone, affermando che “Nemmeno un’ora del tempo della detenzione può essere sprecato senza lavorare per la responsabilizzazione e la risocializzazione delle persone condannate”;

tutto ciò premesso

si chiede innanzitutto quale sia la valutazione del ministro circa le criticità evidenziate nell’applicazione della norma;

si chiede inoltre se, anche a legislazione invariata, il ministro non ritenga di adottare le misure opportune affinché

  • il regime previsto dall’articolo 41-bis non comporti le restrizioni sopra evidenziate non coerenti con la finalità di sicurezza e prevenzione, o quanto meno l’applicazione di quelle restrizioni sia soggetta a motivazione specifica in relazione a ciascun caso specifico;
  • l’organo giurisdizionale competente sui reclami presentati dagli interessati a norma del terzo comma sia posto in condizione di esaminare in loco caso per caso le circostanze cui i reclami stessi si riferiscono, motivando puntualmente in relazione ad esse;
  • ai fini della decisione circa la proroga o no della misura di sicurezza vengano sempre scrupolosamente acquisite dall’organo competente in via preventiva tutte le informazioni necessarie per la valutazione di ciascun caso specifico, e in particolare le eventuali segnalazioni dei Garanti dei diritti dei detenuti, là dove operanti nei distretti, delle circostanze dalle quali possa trarsi indicazione contraria alla proroga medesima;

si chiede infine se il ministro non ritenga di promuovere una iniziativa legislativa mirata a

  • introdurre in sede amministrativa un controllo d’ufficio almeno annuale circa la sussistenza in concreto, caso per caso, delle esigenze di sicurezza che hanno originato l’applicazione del regime speciale di detenzione, con conseguente possibilità di revoca d’ufficio anticipata;
  • correggere i commi 2 e 2-bis dell’articolo 41-bis, in modo che, nei procedimenti relativi alla prima applicazione e alla proroga della misura di sicurezza nei confronti di detenuto in corso di espiazione di pena, sia prevista l’audizione non soltanto del Pubblico Ministero, ma anche del Giudice di Sorveglianza competente; e nel provvedimento sia prevista la necessità di motivazione in riferimento al contenuto dell’eventuale istanza del detenuto interessato, contraria alla proroga;
  • prevedere una modifica dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, per far sì che, al fine del godimento totale o parziale dei benefici di cui allo stesso articolo non soltanto da parte di un condannato per atti di terrorismo o eversione, ma anche di un condannato per associazione di tipo mafioso e crimini a essa connessi, assuma rilievo non soltanto il comportamento di cui all’articolo 58-ter (pentimento e collaborazione con la Giustizia), ma anche l’eventuale comportamento diverso dalla fornitura di informazioni utili per la persecuzione di altri membri dell’associazione criminale, ma nondimeno chiaramente e univocamente significativo di un netto ripudio e condanna delle condotte, dei metodi e degli obiettivi perseguiti dall’associazione stessa, nonché di una rinuncia ad avere più alcun contatto con essa, accompagnato da dichiarazione esplicita nello stesso senso resa al magistrato competente.

 

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