IL PECCATO ORIGINALE DI ALITALIA

Nata come monopolista, la nostra compagnia di bandiera ha mostrato di non sapersi attrezzare per stare al gioco della globalizzazione – Sindacati e dipendenti non comprendono l’importanza di sapersi scegliere il miglior imprenditore possibile su scala planetaria; anche perché sviati da ammortizzatori sociali di straordinaria generosità
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Articolo pubblicato sul quotidiano il Foglio in due tempi, il 26 e il 27 aprile 2017 – Gli altri interventi e documenti pubblicati su questo sito sono raccolti nel portale Le vicende di Alitalia nell’ultimo quindicennio       .

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AlitaliaL’ottanta per cento di “no” del personale di volo Alitalia, decisivo per affossare l’accordo sindacale salva-azienda, può sorprendere soltanto chi non abbia seguito da vicino le vicende sindacali della nostra compagnia di bandiera negli ultimi decenni. Ricordo solo un episodio emblematico: l’epidemia di emicrania che il 2 giugno 2003 colpì improvvisamente un migliaio di assistenti di volo paralizzando gli aerei di Alitalia. Quel malore collettivo nasceva dal fatto che la direzione aziendale intendeva ridurre di uno il numero degli assistenti in cabina, adottando un modello organizzativo già da tempo adottato dalle altre compagnie maggiori; ma per gli assistenti di volo della nostra compagnia di bandiera quella misura costituiva un attentato ai diritti fondamentali loro e dei viaggiatori, che giustificava una violazione plateale della regola del preavviso per la proclamazione di uno sciopero nel settore dei trasporti. Quell’episodio non soltanto non ebbe alcun seguito sul piano disciplinare; ma non indusse neppure lo Stato a smettere di coprire le perdite di Alitalia, come stava facendo ormai da più di un decennio. Oggi al posto dell’epidemia di emicrania c’è la valanga dei “no” all’accordo per salvare l’azienda; ma la logica è ancora quella: se i conti aziendali non tornano, ci pensi lo Stato, come ha sempre fatto. E, se necessario, si riprenda la compagnia. Come se si potesse fare a meno di un vero imprenditore del settore: perché lo Stato, ovviamente, non è un vettore aereo.

Alitalia anni 50 La settimana prossima celebreremo – si fa per dire – il settantesimo anniversario del primo volo della compagnia Alitalia Aerolinee Italiane Internazionali, che il 5 maggio 1947 decollò da Torino per Roma e Catania. La neonata compagnia operava al suo nascere, e avrebbe continuato per un quarantennio a operare, nella posizione sostanziale di monopolista sulle tratte nazionali; ciò che le consentiva di lucrare una cospicua rendita a spese dei viaggiatori. Quando, insieme al suo business, negli anni ’50 e ’60 si svilupparono anche le organizzazioni sindacali dei dipendenti, queste, come era ovvio che avvenisse, si dedicarono con successo a rivendicare e poi difendere la spartizione della rendita monopolistica tra impresa e dipendenti: i quali presero a godere di condizioni di lavoro senza uguale nel panorama nazionale. La festa finì con la progressiva liberalizzazione del trasporto aereo in Europa, tra gli anni ’80 e ’90 – in ritardo di un decennio rispetto all’America –, che consentì anche qui l’arrivo delle compagnie low cost. Le compagnie aeree tradizionali che non seppero attuare i mutamenti necessari per reggere l’urto di questa nuova concorrenza furono costrette a chiudere, o a farsi assorbire da compagnie più efficienti. Se questo non è accaduto nel caso di Alitalia, è perché lo Stato ne ha sempre coperto generosamente le perdite, non soltanto fino a quando ne ha posseduto il capitale, ma anche dopo il 2008, quando essa è stata privatizzata. Col risultato che il suo management e i suoi sindacati hanno continuato per un quarto di secolo a comportarsi sul presupposto che in un modo o nell’altro Pantalone avrebbe comunque provveduto a riparare i danni prodotti dal nuovo, sciagurato, regime di libera concorrenza.

L’ultima rivendicazione nei confronti dello Stato è che esso vieti agli aeroporti di piccole dimensioni di offrire sovvenzioni alle compagnie low cost per attirarle. Nessuno si chiede perché non sia neppure ipotizzabile che anche Alitalia si ponga in grado di candidarsi a beneficiare di quelle sovvenzioni.

Il negoziato del 2008

Air France KLMQuando si parla delle responsabilità dei sindacati è doveroso distinguere quelle dei sindacati aderenti alle confederazioni maggiori, Cgil Cisl e Uil, che se non altro l’ipotesi di accordo salva-azienda nei giorni scorsi l’hanno sottoscritta, da quelle degli autonomi, soprattutto Cub Trasporti e AlCobas, che invece l’hanno rifiutata. Ma anche i confederali hanno alcune responsabilità strategiche gravi. Non mi riferisco soltanto a quella di avere sempre rifiutato, più o meno apertamente, una norma che condizionasse la possibilità dello sciopero nel settore dei trasporti pubblici alla rappresentatività maggioritaria dei sindacati che lo proclamano o all’approvazione da parte della maggior parte dei dipendenti dell’azienda; col risultato di aver assicurato alle organizzazioni minoritarie più aggressive la disponibilità di un’arma formidabile, che ne ha aumentato il peso nel settore in misura del tutto sproporzionata. Nel caso di Alitalia, Cgil Cisl e Uil hanno la responsabilità specifica di avere rifiutato, nel marzo 2008, l’accordo che avrebbe portato all’incorporazione di Alitalia nel gruppo Air France-KLM: il loro rifiuto venne ben prima di quello di Silvio Berlusconi, che comunque all’epoca doveva attendere ancora qualche mese per tornare a essere Presidente del Consiglio.

C.A.I.Quando, chiusa la trattativa con Air France-KLM, nell’aprile 2008 si aprì quella con la neonata Compagnia Aerea Italiana, uno dei segretari confederali nazionali venne fuori con una battuta che la diceva lunga sui limiti della cultura sindacale dominante nel nostro Paese: “Finalmente dall’altra parte del tavolo abbiamo qualcuno che parla italiano!”. Dopo un ventennio di sviluppo impetuoso della globalizzazione, neppure Cgil Cisl e Uil avevano ancora capito che l’Italia è solo l’uno per cento del mondo, e che il dare pregiudizialmente la preferenza all’imprenditore indigeno significa precludersi la possibilità di scelta del concorrente migliore fra il restante 99 per cento degli imprenditori. Il risultato fu che Cgil Cisl e Uil respinsero l’offerta avanzata dal più grande vettore aereo del mondo, preferendogli una “cordata” di imprenditori dei quali nessuno aveva mai fatto volare un aereo, solo perché erano tutti italianissimi. Ancora oggi, del resto, se si escludono alcuni comparti della Cisl, le nostre confederazioni sindacali maggiori sono convinte che la globalizzazione abbia per i lavoratori italiani soltanto l’effetto negativo di metterli in concorrenza con i lavoratori di tutto il resto del mondo. Non hanno ancora messo a fuoco l’effetto positivo che la globalizzazione può produrre per i lavoratori, se essi e i loro sindacati sanno sfruttarlo a dovere: la possibilità di ingaggiare quelli, tra gli imprenditori più competenti e affidabili di tutto il resto del mondo, che meglio sanno valorizzare il loro lavoro.

Gli argomenti che non stanno in piedi

Lufthansa e AlitaliaStiamo tenendo in vita con la respirazione bocca a bocca la nostra “compagnia di bandiera” da circa un quarto di secolo. Ripianandone annualmente le perdite secondo il modello IRI fino a quando è stata un’impresa a partecipazione statale; nel 2008 privatizzandone la parte attiva del patrimonio e accollando allo Stato la parte passiva; ancora nel 2008 assicurandole una deroga alla normativa antitrust sulle rotte nazionali, che è tuttora in vigore; nel 2013 ricapitalizzandola a spese delle Poste italiane. Tutto ciò non è mai stato necessario per garantire continuità all’attività aziendale: Alitalia avrebbe potuto continuare a operare senza interruzioni con l’incorporazione in una compagnia di maggiori dimensioni. Le due opportunità maggiori per una operazione di questo genere ci vennero offerte nel 2003 da KLM e nel 2008 da Air France-KLM, ma furono entrambe rifiutate.

La ragione principale addotta per quel rifiuto fu questa: ciò che spendiamo per difendere l’italianità di Alitalia ci ritorna abbondantemente in capacità di attrarre in Italia turisti e investitori. Ma l’argomento non sta in piedi. Che cosa ci fa pensare che i turisti e gli investitori vengano più volentieri in un Paese dove il volo Milano-Roma costa il doppio rispetto al Parigi-Lione o al Londra-Glasgow, perché la tratta è protetta dalla concorrenza per tenere in vita la compagnia aerea di bandiera? E che cosa ci fa pensare che le compagnie aeree più efficienti non possano continuare a fare, probabilmente meglio, ciò che fin qui ha fatto l’italianissima Alitalia, incorporandone la struttura? Forse che un viaggiatore newyorkese si preoccupa per il fatto che la compagnia aerea che gli offre il servizio migliore sia californiana piuttosto che texana, canadese, o europea?

Si obietta: “Air France-KLM mira soltanto ad alimentare con il nostro traffico aereo i suoi hub di Parigi e Amsterdam; chi verrà dall’America per visitare l’Italia dovrà fare scalo a Parigi o ad Amsterdam invece che a Roma o a Malpensa”. Ma i casi sono due: o fare scalo a Parigi, per andare a Firenze, Venezia, o Palermo, sarà più economico, e allora la nostra industria turistica avrà un vantaggio da questa riduzione dei costi di viaggio; oppure sarà più economico fare scalo a Fiumicino o a Malpensa, e allora anche il vettore aereo non italiano, sia esso Air France-KLM, Lufthansa o altro, avrà tutto l’interesse di avvalersi dei nostri hub.

L’anomalia degli ammortizzatori sociali

Tra le anomalie delle politiche pubbliche a sostegno della nostra compagnia di bandiera va annoverata anche quella che riguarda i cosiddetti ammortizzatori sociali: anomalia cui è ragionevole attribuire un peso non secondario nella determinazione dell’esito referendario dei giorni scorsi.

Alitalia personale di voloNel 2008 lo Stato non si limitò ad accollarsi le perdite della vecchia Alitalia e a proteggere la nuova contro la concorrenza sulle rotte nazionali: si spinse anche ad assicurare ai 1500 suoi dipendenti che in quel passaggio venivano estromessi dall’azienda un trattamento che non ha precedenti nella pur ricca storia delle “politiche passive del lavoro” italiane: una legge assicurò loro ben quattro anni di Cassa integrazione straordinaria, più tre ulteriori di trattamento di “mobilità”, destinati poi a essere prorogati di altri due. Il tutto integrato da un’indennità complementare pagata dal Fondo Volo, che è finanziata quasi interamente dai viaggiatori con una tassa di tre euro su ogni biglietto aereo venduto in Italia. Questo trattamento, unico al mondo nel suo genere, porta il sostegno del reddito di piloti e hostess all’80 per cento dell’ultima retribuzione complessiva, comprese le indennità di volo: che significa nei casi di punta oltre 30.000 euro al mese. E tutto questo per nove anni.

Se il Fondo Volo assicura, in caso di perdita del posto, a spese dei viaggiatori di tutte le compagnie aeree, l’80 per cento dell’ultima busta-paga comprese le indennità di volo, c’è una qualche razionalità nella scelta di un pilota, o di una hostess, di rifiutare un accordo che rende certa una analoga riduzione della retribuzione, ma con l’obbligo di lavoro.

Nell’ottobre 2014 vengono licenziati altri 1199 dipendenti della nuova Alitalia. La Regione Lazio presenta al Governo un progetto pilota – il primo di questo genere in Italia – consistente, insieme ad altre misure, nella sperimentazione del metodo del contratto di ricollocazione per il reinserimento dei licenziati nel tessuto produttivo. Ai 1199 viene offerta la possibilità di scegliere una delle agenzie specializzate accreditate per il servizio di assistenza intensiva nella ricerca della nuova occupazione. Aderiscono a questa offerta soltanto in 184: meno di un sesto degli interessati. A ben vedere, considerata l’entità straordinariamente generosa del trattamento garantito dal Fondo Volo, c’è di che sorprendersi che uno su sei abbia preferito la prospettiva di tornare a guadagnarsi lo stipendio.

Piloti AlitaliaNel febbraio 2015 trentasei piloti di Alitalia, in Cassa integrazione dal 2008, vengono scoperti a lavorare da tempo per compagnie aeree straniere, cumulando la relativa retribuzione con il trattamento del Fondo Volo di cui si è detto sopra. I media si chiedono: come è potuto accadere? Ma la vera domanda da porsi è un’altra: davvero solo trentasei? Vi è motivo di ritenere che siano molti di più, e non solo piloti, quelli che non se ne sono stati per nove anni con le mani in mano. Anche perché sono tutti portatori di competenze, per prima l’ottima conoscenza dell’inglese, appetibili nel mercato del lavoro e in particolare nel settore del comparto aereo, che è da anni in continua espansione.

Certo, gli abusi degli ammortizzatori sociali e delle tutele del lavoro non si verificano soltanto nella vicenda Alitalia. Ma in questa vicenda, considerato il costo anomalo che queste protezioni hanno comportato e continueranno a comportare per il Paese, essi assumono un significato particolare.

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