L’ESSENZA DELLA FLEXSECURITY: RICOLLOCARE CHI PERDE IL POSTO, E NON SOLTANTO INDENNIZZARLO

NEL MERCATO DEL LAVORO UNA SOLA OCCASIONE DI LAVORO SU CINQUE E’ VISIBILE, LE ALTRE SONO ACCESSIBILI SOLTANTO ATTRAVERSO RETI AMICALI O PARENTALI. RICOLLOCARE ENTRO SEI MESI IL LAVORATORE CHE PERDE IL POSTO DI LAVORO E’ (QUASI) SEMPRE POSSIBILE, PURCHE’ SI ADOTTINO I METODI DI ASSISTENZA E RICERCA ADATTI
Articolo di Gabriella Lusvarghi in corso di pubblicazione sulla Rivista Italianieuropei, (fascicolo dell’ottobre 2009
 

Cade in questi giorni l’anniversario dello sbarco dell’uomo sulla Luna. Sono in pochi a sapere che il servizio di ricollocazione professionale, o outplacement, non sarebbe esistito o si sarebbe affacciato sul mercato molto più tardi senza quell’impresa.

Dopo il successo del programma spaziale Apollo 11 la Nasa si trovò nella spiacevole situazione di diminuire drasticamente il numero dei dipendenti impiegati. Le soluzioni erano due: una più classica, fornire una buonuscita che per quanto corposa non dava nessuna garanzia di occupazione futura. L’altra più coraggiosa, ovvero ricollocare i dipendenti e fornire loro una nuova occupazione. Nasceva il servizio di outplacement o di ricollocazione professionale. Un servizio che a poco a poco si è diffuso in tutto il mondo e che in Italia ha iniziato a comparire verso la metà degli anni ’80.

Ma cos’è esattamente l’outplacement? Per outplacement si intende l’attività con cui società specializzate agiscono a supporto della ricollocazione di uno o più dipendenti in uscita da un’Azienda in una nuova posizione professionale, svolgendo a vantaggio di queste persone un complesso lavoro di valutazione e riqualificazione. Un servizio non  confinato ad un particolare profilo professionale ma che può interessare indifferentemente operai, impiegati, quadri e dirigenti.

Il servizio si distingue in due macro categorie; da una parte la ricollocazione individuale, che si avvia con l’accordo diretto dell’azienda con il singolo lavoratore, dall’altra la ricollocazione collettiva che prevede invece la ricollocazione di diverse persone o interi comparti, ha una durata predefinita e viene generalmente gestita con la collaborazione del sindacato.

E’ un servizio che contiene come elemento imprescindibile l’assenso del/dei candidati che vogliono affrancarsi dalla logica, premiante nel breve ma miope, della buonuscita e sono invece interessati ad aumentare la loro occupabilità nel mercato del lavoro.

La prima fase del servizio prevede la strutturazione di un vero e proprio bilancio delle competenze: con l’aiuto di uno o più consulenti il candidato viene portato ad analizzare in profondità la propria vita professionale, le competenze maturate, i punti di forza e, specularmente, le aree di miglioramento. E’ una fase estremamente importante in cui si inizia, anche dal punto di vista psicologico, un delicato processo di “ricostruzione” dell’autostima della persona reduce dal licenziamento.

Immediata conseguenza del bilancio di competenze è la strutturazione di un profilo professionale e, di conseguenza, del progetto professionale, un piano operativo che va ad analizzare i possibili punti di incontro tra competenza maturale e aspirazioni professionali del candidato.

I percorsi indivuduati possono essere molteplici: per alcuni candidati vi è una sorta di continuità sia dal punto di vista del rapporto di lavoro (dipendente o autonomo) che della mansione; per altri il percorso varia e può portare a iniziative imprenditoriali o di consulenza.

Nel caso in cui il percorso scelto sia quella da lavoratore dipendente, viene attuata una vera e propria road map alla ricollocazione: i consulenti aituano il candidato a migliorare strumenti quali Curriculum Vitae e lettera di presentazione, intervengono sulle tecniche di comunicazione verbale per sostenere efficamente un colloquio di lavoro, aiutano il candidato a identificare le aziende in target e a prendere contatto con esse.

A questo proposito vale la pena rilevare che secondo uno studio di UnionCamere più dell’80% delle posizioni di lavoro disponibili sono nascoste (ovvero circolano tramite canali non ufficiali come il passaparola o fanno parte dei progetti “in fieri” di un’azienda). Una massa notevole di “possibilità” invisibili al candidato che si affida al “fai da te” ma che divegono raggiungibili quando alle spalle di chi cerca lavoro c’è una società di outplacement che può contare su un ampio network di contatti sviluppato nel tempo. Da questo punto di vista il ruolo delle società di outplacement è ancora più importante: in un mercato del lavoro come quello Italiano ancora molto giovane e quindi destrutturato dove il canale più importante di recruiting è il passaparola, la società di outplacement viene in soccorso di candidati forti dal punto di vista delle competenze ma “deboli” dal punto di vista del network.

 

(Per visualizzare bene l’immagine, basta cliccarci sopra)

 

 

 

Nel caso in cui il percorso scelto sia quello di una professione autonoma, i consulenti aiutano il candidato a individuare il proprio mercato e settore di attività e offrono una consulenza operativa all’avviamento dell’attività in proprio.

Un meccanismo complesso dunque ma che può garantire diversi vantaggi, sia per l’azienda che per il lavoratore.

Per l’azienda consente di ridurre le conflittualità e le vertenze legali, contribuisce a un’immagine di responsabilità sociale grazie a una politica più attenta di gestione delle risorse umane, accresce la credibilità interna verso gli altri dipendenti e quella esterna verso mercato e istituzioni.

Per il candidato riduce sensibilmente il periodo di inattività e il rischio di marginalizzazione, rischio che diventa tanto maggiore quanto più prolungata è l’assenza dal mercato del lavoro e, aspetto da non sottovalutare, favorisce un recupero psicologico e una presa di fiducia importanti dopo un evento così traumatico come il licenziamento.

Funziona l’outplacement? I numeri dicono di si: la sola DBM Italia, società leader per volumi del settore, ha ricollocato nel 2008 il 97% tra quadri, dirigenti ed impiegati, con un tempo di ricollocazione di 4-5 mesi, un arco temporale che può chiaramente subire accelerazioni o rallentamenti a seconda del profilo professionale:

 

 

 Impiegati

 

 

 

2006

2007

2008

Numero candidati

300

406

618

% di successo

96%

97%

97%

Età media

38

39

39

Mesi medi per ricollocazione

5,3

5,4

4,5

Lavoro dipendente

72%

88%

87%

1° ricollocazione t. determinato

29%

37%

38%

 

 

Dirigenti e Quadri

2006

2007

2008

Dirigenti

Quadri

Dirigenti

Quadri

Dirigenti

  Quadri

Numero candidati

276

213

284

279

355

426

% di successo

97%

97%

96%

98%

96%

97%

Età media

47

43

46

43

46

43

Mesi medi per ricollocazione

6,1

5,4

6,0

5,2

5,5

4,9

Lavoro dipendente

55%

56%

69%

63%

62%

73%

1°ricoll. tempo determinato

19%

20%

23%

17%

23%

16%

 

Nell’attuale periodo di crisi, nonostante l’aumentata difficoltà di ricollocazione in un mercato che presenta un numero di opportunità ridotto, i tempi di ricollocamento sono aumentati di soli 30 giorni, mentre occorre segnalare che sono aumentate le occasioni di lavoro flessibile. Questo mantenendosi le percentuali di ricollocazione vicine al 100%. Le categorie di lavoratori che in questo momento più di altre stanno sofffrendo la crisi sono posizionate ai due “estremi”: da un lato i blue collar soffrono per l’oggettiva crisi di tutto il settore produttivo, in particolare dei comparti automotive e tessile.  Nel caso dei dirigenti ci troviamo di fronte ad una situazione in cui l’offerta di figure direttive supera la domanda: stanno diventando sempre più frequenti da questo punto di vista incarichi temporanei di riorganizzazione di reparti, dalla logistica alla produzione, o di apertura di nuovi mercati.

Per impiegati e quadri le possibilità di ricollocazione continuano ad essere buone, ma sono sempre più legate alle effettive competenze sviluppate e alla loro spendibilità nel mercato.

Alla luce della siotuazione contingente di crisi ma anche con un occhio al futuro, l’outplacement può e deve  essere valorizzato sempre più a fianco dei tradizionali ammortizzatori sociali. Un ammortizzatorie sociale “attivo” vantaggioso, come già illustrato, non solo per aziende e lavoratori, ma anche per tutto il sistema economico, dal momento che ricollocando professionalità da aziende in crisi ad aziende in crescita, contribuisce ad aumentare la produttività aggregata di tutto il sistema paese. Un’ ammortizzatore attivo fonte di importanti risparmi per  la collettività: si pensi solo al risparmio di un ricollocamento per cui sono necessari 4/5 mesi rispetto ai 24 mesi medi di cassa integrazione.

Da questo punto di vista molti passi in avanti sono stati fatti ma molti se ne debbono ancora fare.

Il sindacato deve proseguire su una strada di aperture verso lo strumento che ha iniziato da diverso tempo, anche se in certi settori permangono resistenze essenzialmente ideologiche.

Le istituzioni, in un’ottica di welfare to work hanno il dovere di prendere in considerazione l’outplacement come ammortizzatorie sociale da affiancare ai tradizionali strumenti fin qui utilizzati, come accade nei Paesi del nord-Europa, ma anche altrove: per esempio in alcuni paesi come Francia e Belgio dove il ricorso alla ricollocazione è obbligatorio per le aziende sopra i 1000 dipendenti che devono gestire ristrutturazioni.

Le aziende devono aumentare la propria responsabilità sociale nei confronti dei dipendenti in esubero e proporre loro uno strumento meno spendibile nell’immediato di una semplice buonuscita, ma indubbiamente più lungimirante.

E i lavoratori, che devono passare da una logica di “diritto al lavoro” intesa come posto fisso a prescindere da crisi e momenti storici, ad una di “diritto alla piena occupabilità”, che si raggiunge solo atttraverso un aumento costante delle proprie competenze.

E, in ultima analisi, anche le società di outplacement devono fare la loro parte. Ricordandosi sempre che ricollocare una persona significa ridare fiducia a chi credeva di averla irrimediabilemente persa. Perché il licenziamento non significa la parola “fine” ma può rappresentare l’inizio di una nuova storia e di una nuova carriera, perché no, molte volte più belle e stimolanti di prima.

 Gabriella Lusvarghi

Amministratore delegato di DBM Italia

 

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