PENSIONI E COSTITUZIONE: LO SPIRITO DELLA CARTA IMPONE L’EQUITÀ FRA LE GENERAZIONI

Chiedere che anche gli anziani più beneficiati dal sistema pensionistico partecipino alla distribuzione dei sacrifici richiesti dall’aggiustamento della bilancia intergenerazionale dovrebbe essere considerato una scelta conforme allo spirito della Costituzione

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Articolo di Elsa Fornero, ministro del Lavoro nel Governo Monti, pubblicato sul quotidiano
il Foglio il 25 ottobre 2017 – In argomento v. anche Paradossi di fine legislatura – 2     .
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Elsa Fornero

Elsa Fornero

In materia economico-sociale, la linea di demarcazione tra diritti (degli uni) e oneri (degli altri) è sempre sfumata. Lo è particolarmente quando diritti ed oneri non sono coevi, ma riguardano generazioni diverse, per esempio quando i diritti sono attribuiti alle generazioni oggi in vita ma gli oneri che ne derivano sono addossati alle generazioni giovani o non ancora nate. Non partecipando al sottostante “contratto sociale”, queste generazioni dovrebbero essere tutelate dalla lungimiranza della politica, se non direttamente dalla Carta Costituzionale.

La nostra Costituzione non ha articoli riferiti espressamente alla salvaguardia del benessere delle generazioni future (ma non sono in molte a farlo). Quanto alla lungimiranza dei nostri politici, è forse meglio stendere un velo pietoso, essendo l’Italia uno dei Paesi più indebitati al mondo. La Norvegia, per esempio, ha istituito nel 1998 un fondo sovrano (gestito dalla Banca centrale) per garantire al paese un futuro economico e un welfare sostenibili, ed evitare che i proventi delle ingenti risorse petrolifere, destinate a ridursi nel tempo, siano tutti spesi a favore delle generazioni correnti.

Il contratto sociale forse di maggiore impatto sulla distribuzione delle risorse tra le generazioni è rappresentato dal sistema pensionistico a ripartizione, nel quale i contributi versati dai lavoratori in attività vengono immediatamente e totalmente – ossia senza l’accantonamento di alcuna “riserva” –  utilizzati per il pagamento delle pensioni attuali. Ogni generazione è tenuta a partecipare al contratto con l’aspettativa che quando sarà anziana potrà contare sui contributi pagati dai giovani del futuro. In una società che invecchia, però, gli anziani hanno un peso politico maggiore dei giovani e questo porta inevitabilmente la politica a considerarli con occhio di riguardo. Le promesse pensionistiche si allargano, i contributi dovrebbero parallelamente crescere per farvi fronte, ma oltre un certo livello (in Italia ampiamente superato) è difficile andare senza ripercussioni sulla competitività del sistema economico. Il debito pensionistico diventa così molto più difficilmente sostenibile.

L’indicizzazione delle pensioni al costo della vita è buona cosa per i pensionati, che possono così mantenere invariato il loro potere d’acquisto. Quando per il calcolo delle pensioni si usa la formula contributiva, l’indicizzazione può considerarsi coperta dai contributi versati durante la vita lavorativa; quando invece si usa la formula retributiva, con la quale sono state calcolate tutte (o quasi) le pensioni in essere, manca la corrispondenza tra contributi e prestazioni e anche l’indicizzazione finisce per essere messa a carico delle generazioni più giovani (se finanziata a debito) o della collettività (se finanziata con tassazione).

Nel 2011, in piena emergenza finanziaria, il governo Monti, all’interno del quale chi scrive ricopriva la carica di Ministro del Lavoro e del Welfare, abolì per due anni l’indicizzazione sulle pensioni a partire da quelle superiori a tre volte il minimo (1500 euro lordi). Non starò a ricordare che fu proprio il Ministro del Lavoro a salvare da questo temporaneo blocco almeno le pensioni più basse.

Com’è noto, la Corte Costituzionale ha decretato illegittimo quel provvedimento, con una sentenza rispetto alla quale è lecito porsi due domande: in primo luogo, se la Corte abbia pienamente compreso la rischiosità della situazione finanziaria di quel periodo e le sue potenziali ricadute negative sulla popolazione (e particolarmente sulla sua parte più debole); in secondo luogo in che modo e da chi vengano tutelati gli interessi dei giovani se i diritti pensionistici vengono considerati “incomprimibili” al punto da prevalere su considerazioni di bilancio. Il non tener conto delle considerazioni di bilancio infatti viene a danneggiare gli interessi legittimi, se non i veri e propri diritti, di coloro sui quali ricadrà il debito.

Il governo Renzi, in carica peraltro in un periodo di minore turbolenza finanziaria, ha modificato retroattivamente il meccanismo di perequazione per gli anni 2012-13 (in modo da limitare la spesa a soli 2.8 miliardi di euro) e ha introdotto per gli anni successivi una nuova rimodulazione, riducendo l’adeguamento al costo della vita delle pensioni più alte. Ciò ha determinato nuovi ricorsi che hanno portato il giudice ordinario a riformulare alla Corte il giudizio sulla costituzionalità dei provvedimenti.

Senza entrare nel merito delle decisioni della Corte, il primo interrogativo che qui mi preme qui sottolineare è se i promotori dei ricorsi (in particolare quelli che godono di trattamenti elevati, ben superiori a quanto spetterebbe loro sulla base dei contributi versati) abbiano consapevolezza del fatto che l’affermazione del loro diritto è equivalente alla sottrazione del diritto dei loro figli e nipoti. Si tratta dei medesimi figli e nipoti che gli anziani dicono di dover aiutare, con le loro pensioni, perché senza lavoro o con redditi di lavoro inadeguati e precari, in un circolo vizioso (o contratto sbilanciato) che sarebbe bene riequilibrare una volta per tutte. Il secondo interrogativo riguarda i diritti dei lavoratori. Proprio ieri l’ISTAT ha indicato in cinque mesi l’incremento dell’aspettativa di vita a 65 anni, età alla quale è oggi agganciata l’età pensionabile, il che (se questa tendenza demografica continuerà) porterà, in base alle leggi vigenti, a 67 anni l’età di uscita per “vecchiaia” nel 2019. Dai sindacati e da diverse parti politiche viene la richiesta almeno di rinviarne l’applicazione. Anche in questo caso i costi del rinvio generalizzato sono ingenti, e rinviati al futuro. Mentre sarebbe auspicabile un intervento mirato a favore delle categorie di lavoratori meno fortunati, è non solo lecito ma anche doveroso domandarsi come possa essere ritenuto intoccabile il diritto all’adeguamento al costo della vita anche per le pensioni elevate e non anche il diritto di un lavoratore, per esempio precoce, a mantenere invariata l’età di pensionamento.

Il sistema pensionistico, in definitiva, sconta molte ingiustizie del passato, che non è possibile eliminare con un colpo di spugna. Chiedere che anche i pensionati in condizioni di relativa agiatezza e che hanno ricevuto di più partecipino alla distribuzione dei sacrifici richiesti dall’aggiustamento della bilancia intergenerazionale dei redditi non dovrebbe essere operazione estranea allo spirito della nostra Costituzione.

 

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