ANCORA SULLE NUOVE FORME DI PROTESTA

QUELLO CHE PREOCCUPA DEL “MODELLO INNSE” DI PROTESTA OPERAIA NON SONO LE FORME DI LOTTA, MA LA POVERTA’ DEGLI OBIETTIVI. E L’IMMAGINE DI UN SISTEMA DI RELAZIONI INDUSTRIALI ANCORA MOLTO ARRETRATO

Intervista a cura di Massimiliano Lenzi, pubblicata con numerosi tagli su il Secolo XIX il 1° settembre 2009

Proteste eclatanti: dalla Innse alle guardie giurate di Roma, per arrivare agli operai di Lasme sul tetto e quelli che volevano lanciarsi dal maschio Angioino. Perché la lotta dei lavoratori, adesso, passa solo attraverso forme di protesta estrema?

Non parlerei di protesta estrema: sono pur sempre forme di lotta non violenta, che comportano tutt’al più qualche irregolarità amministrativa, ma non illeciti penali. Quello che preoccupa non sono tanto queste forme di lotta, quanto la povertà dei loro obiettivi.

Povertà in che senso?

Le guardie giurate di Roma erano salite sul Colosseo non per difendere il posto di lavoro, ma per opporsi alla privatizzazione dell’impresa e alle relative conseguenze in termini di flessibilità ed efficienza.

Alla Innse di Lambrate, invece, difendevano il posto di lavoro.

Sì, erano in lotta per questo da più di due anni. Ma dobbiamo chiederci perché, in un’area come quella milanese, dove la domanda di tecnici e di operai qualificati e specializzati supera nettamente l’offerta, cinquanta lavoratori devono stare per due anni aggrappati con le unghie e coi denti al vecchio posto di lavoro per “salvarlo”. Sarebbe costato molto meno a loro e alla collettività un processo di riqualificazione e ricollocazione in altre aziende: in tre o sei mesi si sarebbero ricollocati tutti in condizioni molto migliori rispetto a quelle che ora offre loro il nuovo imprenditore. E avrebbero potuto essere indennizzati lautamente per il disagio dello spostamento.

I lavoratori della Innse, però, denunciavano la natura speculativa della chiusura dell’azienda.

Sindacato e lavoratori non dovrebbero pretendere di stabilire quale azienda deve chiudere e quale no, ma rivendicare dagli imprenditori che licenziano per ristrutturare o chiudere aziende un robusto sostegno del reddito e un altrettanto robusto investimento in servizi di riqualificazione e outplacement. È questo il filtro migliore contro le manovre speculative.

Queste proteste, includendo anche quelle clamorose in Francia e alla Sangyong, in Corea, rappresentano la fine di un ciclo di politica sindacale concertativa?

Direi piuttosto che rappresentano dei sistemi di relazioni industriali arretrati, nei quali il licenziamento collettivo significa per i lavoratori una catastrofe economica e un momento di dispersione della loro professionalità. Quella di cui abbiamo bisogno è l’evoluzione verso un sistema del tipo di quelli nord-europei, nei quali i lavoratori non sono terrorizzati dalla crisi aziendale, perché sanno che in caso di perdita del posto è garantita loro una sostanziale e durevole continuità del reddito e, soprattutto, un investimento sulla loro riqualificazione professionale. È questo che ho proposto, con altri 35 senatori del Pd, nel disegno di legge n. 1481 presentato nel marzo scorso, “per la transizione a un regime di flexsecurity”.

Secondo lei, queste proteste clamorose sono frutto solo della disperazione o può esserci in qualche modo il “cappello” delle ali più radicali dei sindacati stessi?

In questi episodi si osserva sovente una mobilitazione particolare di componenti radicali del movimento sindacale. Tra il 2000 e il 2007 l’intera vicenda dell’Alfa Romeo di Arese, che è un po’ il prototipo di questo modo di affrontare le crisi aziendali, è stata guidata da Fiom, Cub e Cobas. Lo spazio che si apre al sindacalismo vecchio tipo è dovuto anche al grave ritardo di elaborazione strategica delle componenti più raziocinanti del movimento sindacale. E alla miopia della maggior parte degli imprenditori e delle loro associazioni, che rifiutano di affrontare il discorso offrendo di accollarsi il costo sociale dell’aggiustamento industriale.

Queste proteste possono essere il preannuncio di vere rivolte sociali?

Potrebbero diventarlo in una situazione di vero collasso del mercato del lavoro. Finora, per fortuna, nonostante la crisi globale, non si è arrivati a questo in nessun Paese dell’Ocse.

L’autunno caldo: si andrà verso la ripresa, ma si annunciano ancora tante chiusure. Come vede lei il prossimo futuro?

In Italia finora si è osservata una flessione nel numero dei nuovi rapporti di lavoro costituiti negli ultimi dodici mesi, ma niente di paragonabile a un tracollo. Certo, se in autunno le cose dovessero peggiorare ulteriormente in modo brusco, anche le tensioni sociali aumenterebbero. Per questo è urgente istituire un sistema di ammortizzatori sociali universale, che dia sicurezza a tutti i lavoratori, anche quando si trovano nell’occhio del ciclone.

La prospettiva delle “gabbie salariali”, o comunque di differenziazioni regionali tra salari, avanzata dalla Lega potrebbe finire con l’aumentare le cause di esasperazione?

Quello che occorre è proprio il contrario delle “gabbie”, cioè della determinazione centralizzata rigida dei livelli salariali: occorre “sgabbiare” la contrattazione collettiva per consentirle di registrare meglio, in periferia, le differenze di contesto e gli aumenti di produttività al livello aziendale. Non sarebbe difficile realizzare questo obiettivo tutelando adeguatamente anche i lavoratori di aziende nelle quali la contrattazione collettiva non si attiva.

Come?

Basterebbe strutturare bene l’“elemento retributivo di garanzia”, in forma di premio di produzione collegato automaticamente al margine operativo lordo aziendale, destinato a scattare in assenza di contratto aziendale. Così non ci sarebbe alcuna ragione di esasperazione; e tutti avrebbero da guadagnarci.

Biagi aveva colto, e lei stesso con lui, le forme necessarie di modernizzazione del lavoro. Perché in Italia non si è riusciti ad accompagnare un rafforzamento degli ammortizzatori sociali all’introduzione delle forme di lavoro flessibili?

Perché siamo rimasti legati a un modo fazioso di elaborazione delle politiche del lavoro: negli anni passati il centrodestra si è proposto soltanto di flessibilizzare, mentre il centrosinistra si è proposto soltanto di smontare le riforme del centrodestra, soprattutto la legge Biagi, come se fosse questa la causa del diffondersi dei lavori precari.

Non lo era?

No: l’aumento dei cosiddetti “lavori atipici” è incominciato trent’anni fa, molto prima del 2003. In questo scontro fra destra e sinistra, quella che ha fatto gravemente difetto è stata l’autonomia del sistema di relazioni industriali dalla politica. E la sua capacità di dare una forte spinta in direzione della flexsecurity di tipo nord-europeo: cioè della coniugazione della massima possibile flessibilità delle strutture produttive con la massima possibile sicurezza dei lavoratori nel mercato del lavoro.

 

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