NON NEL RECINTO DEL TEMPIO

I nostri incontri con Silvano Fausti, parlando della vita e della morte

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Contributo di Costanza e Pietro Ichino al libro Con tutta franchezza, senza impedimento – Ricordando padre Silvano Fausti (Ed. Ancora, Milano, 2018, € 12) – Lo scritto era datato 10 aprile 2017, ma il libro è uscito soltanto in questi giorni – In tema di malattia e non autosufficienza v. anche, su questo sito, l’editoriale telegrafico del 9 settembre 2018, L’illusione dell’autosufficienza .
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Silvano Fausti

Fino alla fine della sua vita non avevamo avuto occasioni di parlare a tu per tu con Silvano. Forse non le avevamo cercate, perché ci bastavano gli incontri con lui in qualche messa domenicale e l’avere a disposizione i suoi scritti. In particolare i suoi commenti ai Vangeli e quello alla prima lettera di S. Paolo ai Tessalonicesi, che erano i “luoghi” in cui lo avevamo incontrato: “Il senso della vita – la morte e il dopo morte – deve tornare al centro della nostra considerazione, se vogliamo condurre un’esistenza umana” (La fine del tempo, 1994, pag. 10). È lo stesso Silvano che ritroviamo, ora, in quello che ci racconta Danila Nicolai della sua malattia e della sua morte. Da lui mai rifiutata e anzi attesa, perché non si può vivere la vita in tutto il suo significato se non si accetta la morte, che ne costituisce una parte essenziale.

Nel commento all’amato Giovanni (2002) – perduto nell’incendio di Villapizzone senza alcuna recriminazione da parte sua, quasi che quel fuoco fosse mandato dalla Provvidenza a ricordarci l’inessenzialità di ciascun oggetto che ci circonda, per quanto oggetto di affezione – ci ha colpito il commento al Vangelo delle Nozze di Cana, dove Silvano, come al solito traduttore libero, parla del “vino bello” come “simbolo più alto dell’alleanza tra Dio e il suo popolo”, con “sentimenti di interesse e cura, di complicità e appartenenza … di tenerezza e unione, che rendono bella la vita” (pag. 45).

Leggiamo in quel suo stesso scritto: “Cerco di fare quel bene che mi è possibile, evitando il male per quanto possibile” (La fine del tempo, pag. 14). Vedemmo una manifestazione piccola ma significativa della sua fedeltà a questo principio al funerale di Tito, il padre di Costanza. Il parroco non aveva gradito la nostra richiesta che Silvano concelebrasse la messa e – senza esporsi, secondo il peggiore stile ecclesiastico – aveva trattato Silvano in modo sgarbato, persino un po’ offensivo. Lui reagì come se il trattamento riservatogli dal parroco fosse stato giustificato: rispose con toni concilianti, riuscendo così nell’intento di rendere onore al defunto, ciò che solo importava, senza avvelenare un momento che doveva essere solo di raccoglimento e ascolto della parola di Dio.

Nel commento ai Vangeli, letto nei suoi libri o ascoltato dalla sua voce nelle molte altre messe da lui celebrate cui abbiamo partecipato, Silvano ci è sempre apparso solido nella sua fede come una roccia: “nella gioia e nell’amore, non nel recinto del tempio” si trova il Signore. E ancora, precorrendo papa Francesco: “In tempi di cambiamenti è urgente riflettere con semplicità e spregiudicatezza sulle cose essenziali” (ivi, pag. 15).

Lo ricordiamo anche al matrimonio del nostro nipote Carlo con Priscilla, in un pomeriggio di mezza estate nel cuore della campagna toscana, dove con tatto evitò di porre agli sposi domande troppo… teologiche, alle quali non avevano pensato e a cui non avrebbero saputo rispondere. Confermando così la validità e la piena realtà di un sacramento essenzialmente umano (l’espressione è di Dietrich Bonhoeffer), basato sull’amore reciproco degli sposi.

Prima di quella celebrazione, avevamo pranzato insieme al Forte; dopo pranzo la mamma Francesca gli aveva offerto una stanza nella quale riposare, ma Silvano le aveva chiesto di poter restare nella pineta che circonda la casa, dicendo: “qui mi sembra di essere in una cattedrale”. Verso il mondo intero e la bellezza della natura in particolare nutriva un senso di meraviglia, persino di stupore, che lo induceva a vedere in essa la presenza stessa di Dio: cosa che esplicitò nell’unico incontro lungo, a tu per tu, che abbiamo avuto la fortuna di avere con lui.

Qui passiamo dalla prima persona plurale a quella singolare, perché fu uno solo di noi due – Pietro – a partecipare a quell’incontro, due mesi prima della sua morte.

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Una carissima amica, malata di SLA e ormai quasi del tutto paralizzata nei movimenti degli arti, che si professava non credente, in vista del momento in cui il suo diaframma avrebbe smesso di far funzionare i polmoni e l’unico modo per sopravvivere sarebbe consistito nell’attivazione di una apposita macchina, mi aveva chiesto di accompagnarla in Svizzera, dove è consentito aiutare i malati terminali a porre termine ai propri giorni senza sofferenza. Chiesi a Silvano consiglio sul come comportarmi di fronte a questa richiesta di aiuto. Anche lui era – e sapeva bene di essere – malato terminale, anche se di una malattia diversa. In quello che mi disse per rispondere alla mia richiesta di consiglio mi colpì l’assenza di qualsiasi regola di condotta precisa; e invece il richiamo di alcuni punti di riferimento essenziali per una ricerca secondo coscienza della condotta da seguire.

Incominciò parlando della presenza di Dio soprattutto dentro di noi, al cuore della nostra vita, ma anche in tutto quello che ci circonda: al punto che nel suo discorso persi di vista il confine tra la gratitudine verso il Creatore di ogni cosa e una identificazione del Creatore con l’universo stesso delle sue creature. Passò quindi a parlare di sé, dicendo di sentirsi tenuto in vita dall’amore per tutto il creato e da quello degli amici per lui; al punto che capiva chi, privato di questo, sentisse la propria vita del tutto priva di senso: tocca a noi dare un senso alla vita del nostro prossimo standogli accanto e aiutandolo a vincere la paura, “che è poi la paura del vuoto, del nulla”. Alla fine aggiunse una frase che credo di poter riportare abbastanza fedelmente: “Nessuno può essere obbligato a tenersi in vita a tutti i costi con una macchina; e nessuno ha il dovere di morire soffrendo: per fortuna la medicina oggi possiede i mezzi per evitare la sofferenza a tutti, e in particolare per evitare a un malato terminale di morire soffrendo”.

Questo colloquio si svolgeva, come ho detto, due mesi prima della morte di Silvano. L’amica di cui gli avevo parlato gli è sopravvissuta di un anno. Nel corso del quale lei ha vissuto quel che la sorte le ha lasciato da vivere con un coraggio che lei stessa non sapeva di avere. Aveva dedicato gli ultimi anni al suo giardino; e, attraverso quella che i teologi indicherebbero come una metànoia, finì coll’individuare nel rapporto tra sé stessa e il giardino – che a quel punto era tutto il suo mondo – la ragione di un’esistenza che meritava di essere goduta fino all’ultimo palpito, nonostante la malattia che stava crudelmente e progressivamente limitando ciascuna delle sue funzioni vitali. In ogni sua parola, detta o scritta, in questo ultimo periodo della sua vita ritrovo la percezione della nostra appartenenza a un tutto che non deperisce e non finisce per il solo deperire e finire di una singola creatura. “L’uomo come la pianta subisce danni dalle intemperie – ha scritto lei poche settimane prima di morire –; posso seccare e appassire come se io fossi immersa nella vita del giardino, diventare tutt’uno col proprio giardino può significare trovare uno stato di grazia anche nella malattia”. E nella morte. Che lei, al dunque, ha poi liberamente scelto di non andare a cercare lontano da quel giardino, ma ha atteso e ha accettato serenamente, lasciandosi addormentare quando è stato il momento in cui il sonno era la sola alternativa a sofferenze non dovute.

Forse sbaglio, ma nel modo in cui lei, che si considerava non credente, ha vissuto l’ultima parte della sua vita segnata dalla morte imminente trovando nel suo giardino la ragione per viverla fino all’ultima goccia, e addirittura sentendosi parte integrante di un giardino che non muore, mi sembra di trovare una straordinaria consonanza con il modo in cui Silvano, profondamente credente, mi ha parlato della vita e della morte nell’incontro di cui ho detto. E in questa consonanza mi sembra di trovare la conferma che lo Spirito soffia dove e come vuole, incurante degli schemi concettuali per mezzo dei quali possiamo cercare di esprimere quel che crediamo di sapere circa il senso della nostra vita. “Nella gioia e nell’amore, non nel recinto del tempio”.

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