È IL RISPARMIO PRIVATO CHE DEVE COPRIRE IL DEBITO PUBBLICO?

Finché non impone a se stesso una congrua “imposta patrimoniale”, lo Stato è poco legittimato a imporla ai cittadini


Intervista a cura di Alessandra Ricciardi, pubblicata su
Italia Oggi il 28 novembre 2018 – In argomento v. anche il mio editoriale telegrafico del 26 novembre, Tassare i patrimoni è la soluzione per il problema del debito? .
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Professor Ichino, visti i nomi in campo, che congresso sarà questo del Pd?
La mia speranza è che restino in campo solo i due candidati più forti, in modo che il vincitore possa assumere la guida del partito con una solida investitura diretta da parte degli elettori democratici. È ancora possibile che questo accada.

In questo congresso si riaffaccia il tema caro alla sinistra della patrimoniale. Aprono Zingaretti e Martina. Contrario Minniti. Lei cosa ne pensa?
Qualche giornale ha attribuito questa proposta a Zingaretti e a Martina, senza che però né l’uno né l’altro abbiano confermato o smentito. Sono dell’idea, comunque, che il solo fatto di avanzare questa proposta rischi di produrre danni immediati sicuri. Mentre i benefici futuri sono molto meno certi.

Perché?
Perché se parliamo di un prelievo sui patrimoni mobiliari – azioni, obbligazioni, conti correnti, ecc. – abbiamo, subito, la certezza di aggravare la fuga dei capitali, già provocata negli ultimi mesi dalla crisi economico-finanziaria innescata dagli annunci sconsiderati del Governo M5S-Lega. E per il futuro una buona probabilità che il gettito dell’imposta non arrivi neanche a coprire il danno prodotto.

Gli immobili, però, non possono scappare.
Già. Ma non si possono neanche usare per pagare la tassa; e se per pagarla i contribuenti devono vendere azioni od obbligazioni, ammesso che ne abbiano, c’è il rischio che l’applicazione dell’imposta influenzi negativamente i corsi della borsa. Comunque, se per “patrimoniale” si intende quella ordinaria, cioè un prelievo sui patrimoni di carattere permanente, va detto che con le misure adottate dal Governo Monti nel dicembre 2011 – e soprattutto con la reintroduzione dell’IMU sulle seconde case – l’Italia è passata dall’essere tra i Paesi UE con l’imposizione sui patrimoni più bassa, all’essere tra quelli con l’imposizione più alta.

Questo per quel che riguarda l’ipotesi di patrimoniale ordinaria. Ma qualcuno vede nella tassazione straordinaria almeno sui patrimoni immobiliari una soluzione logica ed efficace per dare finalmente una botta al debito pubblico.
L’idea è suggestiva. Si dice: “il debito pubblico grava mediamente su ciascun cittadino italiano per poco meno di 40.000 euro? Facciamo un prelievo progressivo una tantum che gravi in media per 10.000 euro pro capite, e avremo ottenuto di allineare in un colpo solo il nostro debito a quello della Francia e di mettere tranquilli i nostri creditori”. Sarebbe sbagliato rifiutare questa soluzione soltanto per ragioni ideologiche. La cosa, però, è difficilmente fattibile sul piano pratico.

Secondo lei perché non è fattibile?
Il problema è che in molti casi alla proprietà immobiliare non corrisponde una disponibilità proporzionata di denaro liquido. Se l’aliquota dell’imposta straordinaria fosse, per esempio, il 2 per cento, il contribuente non potrebbe evidentemente pagarla cedendo all’Erario il 2 per cento dell’immobile di cui è proprietario.

Sta di fatto che l’idea di un’imposta sui grandi patrimoni piace molto alla sinistra-sinistra, e alla parte del Pd che vorrebbe tornare a qualificare questo partito come “di sinistra” senza se e senza ma.
L’imposizione, se è limitata ai grandi patrimoni, può soddisfare un’esigenza di redistribuzione sociale. Ma il gettito di un’imposta ordinaria limitata a questa platea non può incidere molto sul bilancio annuale. E se l’imposta è straordinaria, il suo gettito può a malapena scalfire il debito, non certo “dargli una botta”, come lei dice. D’altra parte, se la si estende ai patrimoni di entità media si incontrano le difficoltà pratiche di cui parlavamo prima. Per non parlare dei problemi più strettamente politici, di consenso elettorale nel ceto medio.

Intanto, il problema del debito pubblico deve essere fronteggiato dal governo gialloverde. Un’ipotesi di vendere il patrimonio pubblico torna a circolare. Una buona mossa?
Certo che sì, se parliamo della parte del patrimonio pubblico, immobiliare e mobiliare, male posseduto e male utilizzato. Però, mi sembra che nel governo gialloverde oggi prevalga la tendenza opposta: quella ad aumentare l’interventismo e dirigismo pubblico nell’economia. Stanno spendendo denaro pubblico per rinazionalizzare Alitalia, oltretutto violando platealmente alcune regole europee su questo terreno.

Che cosa potrebbe vendere, invece, lo Stato secondo lei?
C’è una infinità di palazzi storici di grande valore occupati malamente da ministeri e altri uffici pubblici centrali e locali, da caserme e carceri, nonostante che siano poco adatti a quelle funzioni. Qui un piano ventennale di dismissione e spostamento progressivo delle funzioni pubbliche in spazi costruiti modernamente su misura potrebbe fruttare anche una decina di miliardi all’anno. Poi ci sono le quote azionarie che il ministero dell’Economia detiene in grandi imprese, da Finmeccanica a Fincantieri, dalle Poste all’Eni e all’Enel, da Terna a Sace e ST Microelectronics; per non parlare delle aziende pubbliche locali. Un piano decennale di dismissione di queste partecipazioni, anche sotto l’ipotesi del mantenimento in mano allo Stato della golden share, potrebbe fruttare, secondo le stime disponibili, dai 6 ai 10 miliardi l’anno. Fra tutto, vorrebbe dire un abbattimento di oltre un decimo del nostro debito pubblico; ma soprattutto si lancerebbe un segnale di grande rilievo alle istituzioni europee e ai mercati finanziari.

Cedere anche le partecipazioni nelle imprese considerate strategiche?
Ma di che cosa abbiamo paura? Lo Stato conserva sempre il potere di controllare e regolare l’attività delle imprese, anche in modo molto penetrante, quando è in gioco l’interesse generale del Paese. E può farlo persino meglio se si limita alla sua funzione di regolatore, senza commistioni con l’attività di gestione diretta.

In passato le dismissioni hanno dato i frutti sperati?
Ci sono esperienze molto positive, come quella della cessione del Nuovo Pignone alla General Electric nella prima metà degli anni ’90; e cessioni che avrebbero potute essere fatte meglio, come quella della Telecom. Ma anche queste ultime ci hanno fornito un patrimonio di esperienza, che può consentire di riaprire questo discorso con un know-how molto maggiore rispetto a prima. D’altra parte lo Stato, finché non impone a se stesso una congrua “imposta patrimoniale”, è poco legittimato a imporla ai suoi cittadini.

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