L’AVVENTUROSO VIAGGIO DI ICHINO DALL’ISOLA FELICE ALLE BOTTEGHE OSCURE

“[…] Alcuni passaggi del libro sono da antologia, per l’originalità dei tratti e la schiettezza dei sentimenti […] Una testimonianza dinamica, precisa, ricca di argomenti e di episodi interessanti. Non spiega però i motivi per i quali il Pietro Ichino liberale, tollerante, riformista, moderato, sceglie di militare nella sinistra filosovietica […]”

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Recensione de La casa nella pineta a cura di Attilio Pandini (v. qui sotto la sua biografia), pubblicata da La Gazzetta di Sondrio il 31 marzo 2019 – Le altre recensioni e ogni altro intervento, commento e documento relativi al libro sono facilmente raggiungibili mediante la pagina web ad esso dedicata

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Attilio Pandini, nato nel 1928 a Chiavenna (Sondrio), risiede a Ginevra . Nel 1951-52 è redattore del settimanale Risorgimento socialista di Roma ; 1952-53 redattore capo del settimanale Eco delle valli di Sondrio; 1954-59 di nuovo redattore e inviato del Risorgimento socialista, poi dal 1959 al 1961 redattore e inviato del quotidiano Avanti! di Roma, dal 1961 al al 1963 capo della terza pagina dell’Avanti! di Milano , dal 1963 al 1965 redattore capo dell’Avanti! di Milano; dal 1965 al 1966 redattore capo del settimanale ABC di Milano; dal 1967 al 1988 corrispondente dei servizi giornalistici della RAI dalla Svizzera. Ha collaborato a molti giornali e periodici, fra i quali Critica sociale, Tempo presente, Mondo operaio, Tempo illustrato, L’avvenire dei lavoratori, Libera stampa, Azione ecc. È autore di vari saggi e opuscoli, fra i quali Rapporto sul divorzio in Italia, con Fortuna e Jorio (edito prima da Sugar e poi da Longanesi) e I camosci della Luna, sussidiario della memoria (ed. Comunità montana della Valchiavenna) con diversi spunti autobiografici: storie di valle e storie svizzere, dalla Liberazione alla “scoperta” di una Svizzera poco conosciuta.

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LA RECENSIONE

La vera storia della “Casa nella pineta” al Forte dei Marmi si legge come una fiaba, nell’armonia e nel consenso dei suoi personaggi. È un lungo viaggio in una moderna isola della felicità, quasi un controcanto allo sgambetto sul quale Anselmo aveva costruito la prova ontologica dell’esistenza di Dio: “Ho l’idea di un’isola perfettissima, dunque essa esiste: perché se non esistesse, non sarebbe perfettissima…”. E così per un centinaio di pagine il libro di Pietro Ichino accompagna il lettore nella sua piccola repubblica della Versilia. Ricordandogli, senza citarle, le leggi della civile convivenza, di un continuo impegno a migliorarsi, spesso nel confronto con gli altri, magari divertendosi insieme; e a non disperdersi, a non pendolare nell’inconcludenza, a non ciondolare. Gli adolescenti leggano pure i fumetti, ma in inglese; e anche i romanzi polizieschi, purché scritti nel nitido francese del belga Simenon, l’ami des petites gens.
Alcuni passaggi del libro sono da antologia, per l’originalità dei tratti e la schiettezza dei sentimenti. I medici temevano che Giulia, la prima figlia di Ichino, nascesse focomelica; e lui con uno slancio d’amore si promise: se nasce senza braccia le insegnerò a giocare al calcio. Quando l’infermiera, uscita dalla sala parto, gli presentò la piccola che strillava come un’ossessa, lui gridò: “Ma ha le braccia!” E l’infermiera: “Be´, perché non dovrebbe averle?”.

La Giulia nasceva fortunata per almeno due motivi: perché aveva mani e braccia come tutti, certo; ma anche perché, se le braccia non le avesse avute, avrebbe corso il grosso rischio di esser iniziata al calcio. È vero: in Francia i rugbisti prendono in giro i calciatori chiamandoli manchots, cioè senza braccia, perché è loro proibito di giocare il pallone con le braccia e le mani. Però anche ai calciatori le mani e le braccia sono indispensabili per mantenersi in equilibrio nella corsa e attutire le inevitabili e pericolose cadute. In quel brano le amorose intenzioni di papà Pietro fanno dimenticare le probabili conseguenze “cinetiche” del giuoco del pallone sulla figlia Giulia. Grazie anche all’editor, che forse ha concorso a valorizzare l’episodio. Benedetti editor, che fanno spesso il trionfo di un libro, specie quando non si limitano a correggerne i refusi, le imprecisioni storiche, i costrutti zoppicanti.

Un prontuario suggestivo – L’editor ideale è forse quello inglese di cui racconta Guido Almansi nel n. 51 di Carte vive: “Un capolavoro di giudizio, di pignoleria, di sensibilità critica, di cercare il pelo nell’uovo, di sottigliezza linguistica, di raffinatezza di gusto e di paranoia”. Mi domando, per tornare al libro, quali dubbi avrebbe insinuato nell’editor di Almansi l’incidente che nel lontano 1946 rischiò di avvelenare la luna di miele di Francesca e Luciano, i futuri genitori di Pietro, a causa di una temporanea impotenza del marito. I due chiedono consiglio al domenicano padre Cattoretti [qui a destra nella foto – n.d.r.], confessore della sposa. Egli li tranquillizza. “Di solito si tratta – dice – di un infortunio passeggero. Però – aggiunge – ci sono molti altri modi per fare l’amore. Nel matrimonio tutto è lecito”. E per fugare ogni perplessità della sposa, conferma: “Sì, proprio tutto, se lo fate volendovi bene”.

Intorno a quegli anni avevo studiato in un collegio cattolico vicino a Pontida e non ho memoria di una così grande apertura dottrinale della Chiesa. Cerco quindi conforto in un prontuario di Teologia morale delle Edizioni paoline (1): un libro talvolta suggestivo, per esempio quando elenca le parti disoneste e meno oneste del corpo umano; e anche quelle oneste, che sarebbero il viso, le mani e i piedi (2). Purtroppo questa teologia morale non sembra condividere l’opinione di padre Cattoretti. Il suo “tutto è permesso” vi si restringe fino a scomparire nel baratro del sacrilegio. “Il sacramento del matrimonio – precisa il prontuario – può essere profanato […] con tutti i peccati di lussuria” (3). La manica del domenicano è proprio troppo larga. Le giovani lettrici non dovrebbero esserne avvertite?

Don Milani a gamba tesa – A questo punto un altro sacerdote, il ben noto don Lorenzo Milani, priore di Barbiana, entra a gamba tesa nella nostra storia. Lo vediamo arrivare a Milano con sei suoi scolari e per una settimana insediarsi con loro nell’abitazione di Francesca e Luciano Ichino, genitori di Pietro. Qualche tempo dopo la famiglia e l’ospite sono a tavola e il sacerdote ammonisce duramente il tredicenne Pietro, per lui “Pierino”. Indica il salotto, i quadri, i bei mobili e gli dice: “Per tutto questo non sei in colpa. Ma se alla maggiore età non restituisci tutto, sarai già in peccato”. E nel “tutto”, osserverà poi Pietro, don Milani certo mette, insieme all’appartamento milanese, la mitica casa nella pineta del Forte, “il luogo di unità della famiglia” e insieme centro dell’accoglienza, delle vacanze, dell’amicizia, scuola di confronto delle opinioni e di libertà.

La pineta fu comperata dal bisnonno e resa vivibile negli anni con i risparmi e il lavoro di tre generazioni di avvocati, medici, docenti universitari. All’intemerata di don Milani i genitori, “scuri in volto”, non reagiscono: in simili casi l’ospite è sacro due volte. E poi le sue parole riecheggiano da vicino il proclama del giovane Proudhon, che molto cattolico proprio non era: la proprietà è un furto che dev’essere restituito. Ma le dure parole di don Milani sembrano rivolte non soltanto al Pierino adolescente ma anche ai suoi genitori, rispettabili professionisti della media borghesia liberale; e che un poco liberali sono in religione e in politica, con juicio e moderazione.

Il Vangelo non lo dice – Partito don Milani, il ragazzo domanda ai genitori: “Che ne dite? La roba è vostra, non mia, e voi siete maggiorenni da un pezzo…”. Suo padre Luciano scuote la testa: don Milani è certo un sant’uomo, ma il Vangelo non contiene ricette su come si debbano amministrare i frutti dei propri risparmi: ciascuno deve agire secondo coscienza. La madre Francesca è invece più vicina al sacerdote: “Ha ragione lui, dobbiamo restituire… dobbiamo prepararci a restituire tutto”. Quando un decennio più tardi il Comune del Forte decide di espropriare la metà della vasta pineta che circonda le loro case, le posizioni dei coniugi si invertono. Papà Luciano è incline ad accettare l’esproprio (“è arrivato, dice, il momento di restituire”), mentre mamma Francesca non ci sta, ricorre al Tar e vince. È la grande forza della “roba”, come diceva Verga.

Anche la famiglia del priore di Barbiana vive nell’agiatezza. Possiede fra l’altro una fattoria, chiamata la Gigliola, nel comune di Montespertoli [nella foto qui a sinistra – n.d.r.], e molti poderi, con fattori e contadini che vi lavorano; procurando, si presume, un buon reddito ai “padroni”.  Entrando in Seminario a 20 anni, Lorenzo Milani avrebbe però rinunciato alla sua parte di eredità: lo afferma in un recente articolo la storica Cristina Siccardi su Corrispondenza romana, settimanale religioso on line. Un voto di povertà coerente con la vocazione primaria del sacerdote.

Perché, come il sulfureo Proudhon, anche don Milani considerava “un furto” le proprietà dei capitalisti, degli agrari. Anzi, egli era addirittura più proudhoniano di Proudhon, secondo il quale la proprietà diventa invece “strumento di libertà” se conquistata con l’impegno e il risparmio individuale di professionisti e artigiani, messa insieme senza sfruttare il lavoro altrui. Era proprio il caso dei genitori di Ichino e forse papà Luciano lo aveva intuito. Se il giovane Pierino ne avesse condiviso l’opinione, non sarebbe stato ossessionato per decenni dal nobile rimorso di dover lavorare per i meno fortunati. E forse (ma vorrei scrivere “purtroppo”) non avrebbe dedicato gran parte della vita a difendere i diritti dei lavoratori in quell’eterna lotta chiamata questione sociale. Non tutto il male viene per nuocere, sua nonna non si stancava di ripeterlo.

Al figliolo Vittorio che gli domandava: “Signor padre, siamo noi nobili?” il conte Antonio Amedeo Alfieri rispose: “Sarai nobile se sarai virtuoso”. Uguale risposta, con parole diverse, diede la mamma Francesca alla domanda del giovane figlio: “Siamo noi ricchi?”. Per diventare virtuoso, Pietro Ichino scelse, interpretando la reprimenda di don Milani, di “restituire” ai meno fortunati (cioè agli operai, ai poveri) il tesoro di conoscenze accumulate in anni di studi e di ricerche. Si specializzò in diritto del lavoro, e invece di avviarsi subito alla carriera di professore universitario o di civilista scelse la modesta e faticosa professione di avvocato nelle Camere del lavoro della periferia milanese. Fosse stato prete, sarebbe diventato prete operaio. E come i preti operai dalle gerarchie ecclesiastiche, Pietro fu poco compreso e ancor meno amato dalle gerarchie burocratizzate della sinistra.

Al fianco dei “carristi” – Il racconto delle sue avventure, delle vittorie e dei compromessi di quegli anni difficili offre al lettore una testimonianza dinamica, precisa, ricca di argomenti e di episodi interessanti. Non spiega però i motivi per i quali il Pietro Ichino liberale, tollerante, moderato, riformista, cattolico, sceglie di militare nei partiti della sinistra filosovietica. Nel 1968 si iscrive al Psiup, il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, fondato quattr’anni prima da quei socialisti contrari alla politica di centro-sinistra del Psi di Nenni e quindi stretti alleati dei comunisti. I loro leader erano chiamati “carristi” da quando, nel ’56, applaudirono i carri armati russi che soffocarono nel sangue la rivolta ungherese contro lo Stato-guida sovietico. Nel ’56 Pietro aveva sette anni, ma seguì trepidante la mattanza di Budapest anche perché ne discussero in casa sua Antonio Giolitti, che lasciò in quelle giornate il Pci per aderire al Psi, e Gillo Pontecorvo [foto qui a destra – n.d.r.] che “con le lacrime agli occhi sembrava anche lui sul punto di restituire la tessera”.  Eppure dodici anni dopo, nel ’68, Pietro scelse proprio di mettersi con i nipotini italiani di Stalin. “Penso –  scrive Ichino – che quella scelta sia stata dettata più che altro dalla grande simpatia del segretario regionale di quel partito, fiorentino di origine, che nell’aspetto e nei modi aveva qualche notevole somiglianza con don Milani”. Una spiegazione tanto reticente quanto ingenua. Per farne una battuta: sarebbe come se un agnostico della sinistra laica ci raccontasse di aver chiesto alla Chiesa gli ordini (minori) perché una simpatica dirigente del gruppo cattolico SS (Santi Sùbito) assomigliava tanto a Nilde Jotti (la compagna di Togliatti).

Il Psiup era un partito “provvisorio”, costituito da gruppi poco omogenei entrati in grave crisi nel ’68 (proprio l’anno in cui vi aderì Ichino!) perché discordi su un’altra violenta invasione sovietica, quella della Cecoslovacchia. A Praga vinsero ancora una volta i carri armati del Cremlino e nel Psiup si impose ancora una volta la maggioranza “carrista” amica dell’Urss. Il partito aveva 23 seggi alla Camera ma li perse tutti nelle elezioni del 1972 e la sua maggioranza decise di confluire nel Pci. (Qualcuno diede una lettura feroce della sua sigla: Partito Sciolto In Un Pomeriggio). Anche Ichino scelse il partito comunista. Per quali motivi? Nel suo libro egli racconta: “In quel periodo accadde una novità rilevante sul terreno politico: il Psiup confluì nel Pci. Così mi ritrovai con la tessera comunista in tasca”. Un’altra dichiarazione sconcertante. L’adesione al Pci non era per nulla e per nessuno una scelta obbligata, automatica. Certo, bisogna tener conto della situazione di quegli anni di aspri scontri frontali (il terremoto del ’68 fece sentire a lungo i suoi effetti). La concreta possibilità di poter proseguire senza troppi intralci “ideologici” gli studi e le ricerche sul diritto del lavoro potrebbe dunque aver influito in qualche misura sulla scelta politica del giovane professionista.

Compagno di strada – Eppure padre Acchiappati, il terzo e più saggio sacerdote della storia di Pietro Ichino, gli aveva indicato la strada giusta: “Frequenta tutti i gruppi e le associazioni, ma diffida di chi vuol fare del suo partito una chiesa”. Come viatico gli aveva donato il libro giusto, un’opera-chiave per l’analisi del regime stalinista, Uscita di sicurezza di Ignazio Silone [qui a sinistra nella foto – n.d.r.], che si definiva “socialista senza partito e cristiano senza chiesa”. Silone metteva in guardia i giovani: attenzione, “il partito comunista è casa e scuola, chiesa e caserma”. Pietro non diede retta né al consigliere cattolico né a quello laico. Forse, come altri “compagni di strada” cattolici, alla “chiesa” e ai suoi dogmi era già abituato; e la “caserma” era giustificata dall’attrazione esercitata dai grossi battaglioni (sovietici), dalla forza organizzativa del partito (italiano) e soprattutto dal fascino sottile della doppia strategia (togliattiana), formale ai vertici nel rispetto delle regole e dei riti parlamentari ma con una base tenuta compatta dal miraggio del grand soir: “Ha da venì Baffone” (4).

Eletto deputato, Ichino non ottenne grande collaborazione dal gruppo comunista della Camera. Studioso acuto, grande lavoratore, portato per formazione e per convinzione al dibattito e al negoziato, disciplinato perché esperto nel lavoro di gruppo, non soltanto non vi trovò, come scrive, una “sintonia senza riserve”, ma andò addirittura a sbattere contro le asprezze di un operaismo conservatore fatto di controlli asfissianti, burocratici e di un’ormai anacronistica rigidità ideologica.
Ma anche nella Cgil non erano state tutte rose e fiori. Per esempio, una corrente del sindacato vide male la sua critica all’eccessivo assenteismo operaio dal lavoro e volle addirittura intenderla come cedimento agli interessi del padronato. Un’altra volta Ichino aveva progettato di riunire in un manuale i suoi corsi di diritti del lavoro tenuti agli attivisti sindacali. Ne portò il testo al direttore della casa editrice della Cgil che sembrò apprezzare la proposta e anche la preventiva rinuncia agli eventuali diritto d’autore. Fu però convocato a Roma dalla direzione della Cgil e dopo una lunga anticamera si sentì dire dal capo dell’ufficio legale della confederazione che l’opera era impubblicabile, che trovava il “suo” diritto del lavoro del tutto ingiusto, “mentre noi vogliamo scardinarlo come espressione della dittatura della classe borghese sulla classe lavoratrice”. Il manuale fu poi pubblicato da una editrice specializzata, su segnalazione del segretario generale della Camera del lavoro di Milano, ed ebbe una notevole diffusione fra sindacalisti e lavoratori.

La parola a Pierino – Come ho già accennato, per Ichino le cose non andarono molto meglio a Montecitorio, dove in certi momenti sentì “tutto il peso opprimente della macchina del partito: lenta, ottusa vischiosa, conservatrice”; un sito dove la disciplina di gruppo pesa “come una cappa di piombo che blocca tutto finché la burocrazia interna non dà il via libera”. Il capogruppo del Pci alla Commissione Industria della Camera giunse a dirgli a muso duro: “Ichino, tu rappresenti l’ala destra non del movimento operaio, ma della borghesia”. Sospetti, incomprensioni, ostacoli. Egli avrebbe forse voluto discuterne con i vertici dell’organizzazione, ma non era facile.

In ogni caso, Ichino ebbe almeno la buona ventura di frequentare due dirigenti importanti, e li incontra – come dire? – per contiguità: Bruno Trentin, il numero due della Cgil, è suo vicino di casa; e Pietro Ingrao [qui nella foto con Lucio Magri – n.d.r.], lo storico capo della sinistra, è suo compagno di banco alla Camera. Tutti e due lo ascoltano con interesse. Ingrao gli confessa che sì, qualche volta il fatto di uscire dal Pci per protestare contro la sua politica, come fece Giolitti, “fu utile anche al partito”. Ma Ingrao (come Gillo Pontecorvo, come Occhetto, come mille altri capi) pur addolorato e tormentato decise di restare nel partito, “vicino alle masse” (e all’Unione Sovietica).  Bruno Trentin confida invece a Ichino di essere passato, anche lui, per le sue stesse esperienze. Però lo invita, anche lui, a restare con le masse e a ricercare sempre una “grande pazienza organizzativa”. Trentin aggiunge: “Se tu prendi la parola di tua iniziativa, quello che dici conta poco.[…]. Il tuo compito non è quello di far valere una tua superiorità culturale […] scandalizzando i compagni, ma di conquistare sempre più la loro fiducia, perché la tua verità diventi anche la loro”.
A questo punto il giovane Pierino, che da sempre vive dentro l’adulto Pietro, dovrebbe avergli ricordato sottovoce l’evangelico oportet ut scandala eveniant, talvolta gli scandali sono necessari, sussurrandogli anche: “Ma come fai a convincerli, i compagni, e a conquistarne la fiducia, se non puoi parlare, trasmettere loro le tue idee?”. Un quesito che forse potrebbe indurre Pietro Ichino ad aggiungere qualche capitolo (o un secondo volume) a questo suo bel libro pieno di interessanti storie e di riflessioni stimolanti.

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(1) P. Teodoro Da Torre Del Greco  O.F.M. Cap. , Teologia morale, prontuario di morale cattolica, sesta edizione, riveduta e migliorata, Edizioni paoline 31 luglio 1964. Imprimi potest, Romae, die 30 octobris 1945, Fr. Begninus a S, Ilario Milanese Min. Gen. O.F.M. Capp.; Imprimatur Alba, 5 no. 1956, Mons. Pasquale Gianolio, Vic. Gen.
(2) Prontuario citato, pag. 282.
(3) Ibidem, pag. 798. Il prontuario prosegue citando  l’Enciclica Casti connubii di Pio XI: “Qualsivoglia uso del matrimonio in cui per la umana malizia l’atto sia destituito della sua naturale virtù procreatrice va contro le leggi di Dio e della natura, e coloro che osino commettere tali azioni si rendono rei di colpa grave”.
(4)  Non è una battuta. Agli inizi degli anni ’50 due deputati del Pci proposero al congresso provinciale di Reggio Emilia un odg nel quale i comunisti si impegnavano a “difendere i confini nazionali contro ogni invasione straniera da qualunque parte venisse”. Quindi anche dall’Est. I due deputati, Cucchi e Magnani, furono espulsi dal partito con infamia, insultati come spie e traditori, aggrediti anche fisicamente, a lungo perseguitati e calunniati. Soltanto due decenni dopo Gian Carlo Pajetta, uno dei massimi dirigenti del Pci,  in un congresso di riabilitazione dei due deputati tenuto a Reggio ammise che il Pci li aveva “combattuti con tutti i mezzi possibili”. L’ANPI,  l’associazione nazionale partigiani, a guida comunista, aveva sùbito espulso anch’essa i due deputati (già decorati della guerra partigiana, Cucchi con la medaglia d’oro) accusandoli di tradimento e vilipendio.

Pietro Ichino in breve
Laureato in diritto del lavoro, Pietro Ichino (Milano, 1949) fu per nove anni attivista in provincia e poi dirigente della Cgil lombarda. Professore di diritto del lavoro nelle università di Cagliari e Milano, è eletto deputato del Pci dal 1979 all’83. Nel 2007 partecipa alla fondazione del Pd di cui è senatore dal 2008 al 2018 mettendo competenza e ingegno nella ricerca di un sistema più agile ed efficace di tutela dei lavoratori. Riceve vari riconoscimenti, fra i quali l`Oscar del “Riformista” come miglior parlamentare del 2008.
È autore di una quindicina di libri sul diritto del lavoro, alcuni dei quali molto diffusi, per esempio “Il collocamento impossibile”, “Il lavoro e il mercato”, “I nullafacenti”. Durante gli anni di piombo due colleghi giuslavoristi di Ichino, Marco Biagi e Massimo D’Antona, furono assassinati dalle Brigate Rosse. Egli stesso, più volte minacciato di morte, dovette vivere a lungo sotto la scorta armata della polizia.
Nel 2018, alla fine del terzo mandato parlamentare, Ichino comunica alla segreteria del Pd la decisione, in obbedienza alle regole interne del partito, di non ripresentarsi candidato. Nessuna risposta, neppure una telefonata. A Libero che gli domanda che cosa si debba riformare al più presto in Italia, Ichino risponde: La burocrazia centrale, che è più potente dello stesso Parlamento. Dette da uno dei più esperti conoscitori dei percorsi legislativi e del funzionamento della macchina dello Stato, le sue parole sono la denuncia di una deriva pericolosa che trasferisce poteri istituzionali delle assemblee elettive del Paese nelle mani di un gruppo di funzionari di carriera non scelti dagli elettori.
Ichino intanto prepara e dà alle stampe il suo primo lavoro di varia letteratura, recensito in queste pagine. Fra le forti intuizioni e i sofferti ripensamenti, La casa nella pineta è insieme romanzo e storia, biografia e cronaca, testimonianze del passato e prospettive per il futuro. L’interesse del pubblico e della critica sta spingendo il libro fra i best-seller dell’anno.  (a.p.)

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