LA FORMAZIONE EFFICACE E LO SCANDALO DELLO SKILL SHORTAGE

Come dare concretezza al diritto soggettivo a un aggiornamento professionale efficace – Il paradosso di un tasso di disoccupazione giovanile elevatissimo a fronte di centinaia di migliaia di posti di lavoro permanentemente scoperti per mancanza di persone idonee

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Slides e trascrizione dell’esposizione orale della relazione introduttiva al convegno promosso da INAZ a Milano il 16 settembre 2019 – In proposito v. anche il mio articolo pubblicato su la Repubblica il 27 giugno 2019, Formazione: il passo in più indispensabile .
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LA TRASCRIZIONE DELL’ESPOSIZIONE ORALE

  1. I grandi «giacimenti occupazionali» sprecati. Qualche dato sulle situazioni di skill shortage in Italia, oggi

Il tema non è nuovo. Riprendendo una presentazione che ho svolto sette anni fa, nel 2012, ho ritrovato due articoli che recavano questi titoli: “Il paradosso del Made in Italy. Le aziende cercano personale ma il mercato non ha risposte”. “Il paradosso dell’impiego: 45.250 offerte senza risposta”. Già allora la disoccupazione, quella giovanile in particolare, aveva tassi altissimi e però si dice che nel mercato manca l’offerta di manodopera. È evidente: c’è qualcosa che non funziona. I cinquantenni esperti vengono rottamati ma i giovani mancano della formazione e dell’orientamento di cui avrebbero bisogno. Il secondo titolo faceva riferimento al dato molto preciso rilevato dal centro studi della Camera di Commercio di Mestre che notoriamente ha un osservatorio sul mercato del lavoro molto attrezzato ed efficace. L’articolo riportava per la regione Veneto, cioè una regione dove risiede solo il 10% della popolazione italiana, il dato di 45.250 offerte di lavoro senza risposta. Se rapportiamo questo dato all’intero paese, già registriamo per il 2012 un dato impressionante. Se lo stesso dato fosse valso per l’intero Paese avrebbe voluto dire mezzo milione di situazioni di skill shortage. Posti di lavoro permanentemente scoperti per mancanza delle persone adatte, idonee, capaci di ricoprirli.

I dati di quest’anno che ci vengono forniti dall’indagine Excelsior svolta da Unioncamere e ANPAL ci dicono che per ogni quattro vacancies, cioè posti di lavoro che le aziende hanno bisogno di coprire, abbiamo una posizione per la quale è difficile reperire la persona adatta.

Le imprese italiane denunciano difficoltà di reperimento delle persone adatte per circa ¼ delle figure professionali che cercano. Se raffrontiamo i dati del 2017 quando le posizioni difficili da coprire erano il il 21,5%, abbiamo un aumento del 4,8%. Il dato è in tendenziale peggioramento (v. slide 6)

Le entrate programmate nel 2018 erano quattro milioni e mezzo, se applichiamo la percentuale del 26,3% di vacancies, abbiamo quasi un milione e duecentomila posti di lavoro che sono restati scoperti per difficoltà di reperire la persona adatta. (v. slide 7)

La distribuzione geografica delle situazioni di skill shortage vede al nord nella Pianura Padana ogni cento disoccupati, ottanta posizioni di difficile copertura. Mentre nelle provincie meridionali si registra una quantità molto inferiore di richieste di lavoratori non facilmente reperibili. (v. slide 8)

Di queste situazioni di skill shortage si conosce non solo la quantità, ma anche il contenuto professionale, perché vengono censite una per una sulla base delle inserzioni sui giornali e delle ricerche effettuate attraverso le agenzie specializzate. I ricercatori sono dunque in grado di catalogare e analizzare la qualità della domanda. Il problema riguarda nel modo più intenso le qualifiche dirigenziali (50%). Poi si passa a un 38% per le professioni intellettuali. 37,5% per le professioni tecniche. 19% per le qualifiche impiegatizie. 22% per le professioni del commercio. 37% gli operai specializzati. 26% conduttori di impianti e macchinari. 12% professioni non qualificate. (v. slide 9)

  1. Giovani allo sbando. La mancanza pressoché totale di un servizio di orientamento scolastico e professionale degno di questo nome 

Tutti questi dati ci dicono quanto sia lontana dal vero l’immagine che hanno i nostri giovani oggi entrando nel mercato del lavoro. Si sente dire “il lavoro non c’è”, “nessuno cerca lavoro”. Come nessuno cerca lavoro? Oggi ci sono migliaia e migliaia di posizioni che richiederebbero di essere coperte. Se l’impressione che non ci sia il lavoro è diffusa è perché evidentemente non funzionano i servizi e non funziona il canale principale che dovrebbe mettere in comunicazione domanda e offerta, e cioè la formazione. Scorrendo l’elenco delle qualifiche che non si trovano si può vedere che ce n’è per tutti i gusti, per tutti i livelli professionali, per tutti i livelli di acculturazione. Non si tratta di posizioni inarrivabili. Il compito di un servizio che funzioni sarebbe di individuare per ciascuna persona la situazione più vicina, più raggiungibile con minor fatica, minor impegno. Salvo poi indicare a ciascuno anche quelle un po’ più lontane che richiedono un investimento in formazione più lungo e più costoso, ma qui c’è spazio per chiunque, in qualsiasi livello della scala della professionalità.

Un’altra faccia del problema è il mis-match, cioè la scarsa corrispondenza, tra formazione scolastica e sbocchi professionali (v. slide 13).

Solo un diplomato su tre delle scuole tecniche, dopo due anni, fa un lavoro coerente col diploma. Le percentuali della tabella si riferiscono al tasso di coerenza indicato per ciascuna situazione Poco più di un terzo dei casi per le professioni coerenti con la formazione ricevuta, il 14% hanno trovato una professione trasversale, cioè non specificamente coerente ma neanche del tutto incoerente. Ma con la somma di queste due categorie non arriviamo neanche al 50%. Più del 50% di persone vanno a svolgere attività nelle quali non mettono assolutamente a frutto la formazione tecnica ricevuta. Anche questo è indice di un sistema che funziona male.

Nel mercato del lavoro mancano le informazioni che servono. Sarebbe indispensabile un servizio di orientamento scolastico e professionale con servizi di guidance e career services che prendono in carica ogni adolescente all’uscita da ciascun ciclo scolastico, individuano le competenze specifiche, le misurano, individuano le aspirazioni del ragazzo o ragazza, e poi lo informano su tutte le opportunità di lavoro e i percorsi necessari per accedervi, fornendo al ragazzo o alla ragazza l’indicazione circa l’efficacia dello strumento. Questo accade in tutti i paesi del centro e nord Europa. In Italia chiamiamo orientamento scolastico e professionale il radunare le quinte classi in aula magna e far loro un discorsino di un’ora o due ore sul mercato del lavoro.

Dove i servizi funzionano danno informazioni dettagliate: “se tu fai questo corso avrai l’80% di probabilità di andare a fare quel lavoro, se scegli quest’altro la probabilità è del 60%, non imboccare quella strada perché lì hai il 20% di probabilità”. Questo è l’orientamento scolastico e professionale, e questo a noi manca del tutto. Dunque giovani allo sbando. Quando vediamo il dato sulla disoccupazione giovanile, dove l’Italia è sconsolatamente in coda insieme a Spagna e Grecia rispetto al resto dell’Unione Europea, dobbiamo chiederci perché, quali sono le cause di questo.

Nei paesi dove il guidance service funziona, chi lo svolge dispone di un dato essenziale, cioè il tasso di coerenza tra formazione impartita da ciascun corso, ciascun centro di formazione, ciascuna scuola, ciascuna facoltà universitaria, e lo sbocco occupazionale effettivo di chi ha frequentato quel corso negli ultimi anni. Questo consente a chi è addetto al servizio di fornire all’adolescente indicazioni attendibili sui percorsi verso l’occupazione effettiva. In Italia questo dato non è disponibile: quindi i ragazzi fanno le loro scelte senza sapere che cosa gli attende e di quali servizi disporranno nel mercato del lavoro.

Eurobarometro, l’agenzia della Commissione europea che svolge sondaggi sulla popolazione europea su vari temi, nel 2010 svolse un’indagine – citata da Maurizio Ferrera – su che cosa si attendono i giovani dal mercato del lavoro nel quale sarebbero entrati di lì a poco. In Svezia, nel 2010, il 40% degli adolescenti dichiarava di prevedere un lavoro contenente attività manuale. Nel mercato del lavoro svedese nel 2010 il flusso reale delle assunzioni per posizioni di lavoro manuale era del 42%. In Italia rispose affermativamente solo il 5% degli adolescenti, quando la richiesta reale nel mercato del lavoro italiano era del 48%. Questo dato ci dà l’immagine di un’intera generazione totalmente priva di un’idea del proprio futuro professionale corrispondente alla realtà del mercato del lavoro che l’attende. I giovani italiani compiono dunque le scelte decisive per il loro futuro con la testa nel sacco. Ma la colpa non è loro, è delle generazioni precedenti. È nostra: di noi che non abbiamo predisposto i servizi indispensabili per un passaggio facile dalla scuola al lavoro.

  1. Formazione: come si distingue il grano dal loglio. La rilevazione sistematica del tasso di coerenza tra contenuto dei corsi e sbocchi occupazionali effettivi

Come si fa a distinguere il grano dall’olio, a distinguere la formazione che funziona da quella che non funziona? Questa è un’idea che già venne elaborata e sostenuta da Bruno Trentin. L’idea del diritto alla formazione permanente come protezione fondamentale del lavoro nell’età dell’economia digitale e della globalizzazione. Trentin ebbe questa intuizione, la coltivò e ci lavorò a cavallo fra la fine degli anni 80 e gli anni 90. Già un quarto di secolo fa.

Ebbene, di questa idea, una prima timida, modesta, attuazione l’abbiamo nel contratto collettivo dei metalmeccanici del novembre 2016, che prevede che le aziende siano tenute a garantire a ogni lavoratore percorsi di formazione continua mirata. Ma per ora questo diritto soggettivo è limitato a 24 ore in ogni triennio. Quindi è ancora soltanto quasi simbolico. L’aggettivo “efficace” che in genere accompagna l’enunciazione di questo diritto, “il diritto a una formazione efficace”, in realtà è ancora senza contenuti apprezzabili. Perché nessuno spiega che cosa distingue, appunto, il grano dal loglio, la formazione efficace da quella che non serve, dalla formazione che è una truffa, che non dà sbocco e occupazione effettiva.

Ed è proprio questo il punto. Trentin in un colloquio con me che venne pubblicato sul sito lavoce.info, mi pare nel 2003/2004, disse “io sarò d’accordo per il superamento dell’articolo 18 come tutela fondamentale della sicurezza del lavoratore nel tessuto produttivo, quando avremo realizzato un sistema che dia veramente diritto alla formazione efficace a ogni lavoratore. Perché quella sarà la garanzia migliore della sua sicurezza economica e professionale.” Era un’intuizione molto importante e però ancora non siamo arrivati a questo. Dobbiamo ancora capire la differenza importante e profonda tra formazione che risponde alla vocazione del singolo giovane, che pure è necessaria, e formazione mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti.

Occorre la formazione che aiuta a eliminare le situazioni di skill shortage, a indirizzare i disoccupati o i giovani al primo ingresso nel mercato del lavoro dove il lavoro effettivamente c’è,  quella mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti. Qui è importantissima la misurazione e pubblicazione del tasso di coerenza tra formazione impartita, che sia vocazionale o che sia mirata agli sbocchi esistenti, e gli sbocchi occupazionali effettivi.

Rilevazione e pubblicazione del tasso di coerenza. Come si può realizzare? Occorre un monitoraggio permanente e capillare del tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi. Questo monitoraggio permanente si può realizzare istituendo un’anagrafe della formazione professionale, esattamente come abbiamo istituito l’anagrafe della scuola, presso il ministero dell’istruzione. Poi incrociando i dati di questa anagrafe con i dati delle comunicazioni obbligatorie al ministero del Lavoro. Se noi di ogni giovane, o adulto, che frequenta un corso di formazione finanziato coi soldi pubblici, riusciamo a individuare l’esito del suo cammino successivo all’uscita dal corso di formazione, possiamo misurare quanti di coloro che hanno frequentato un corso vanno a fare qualcosa di coerente coi contenuti di quel corso, quanti vanno a fare qualcosa di meno coerente, quanti vanno a fare qualcosa di totalmente diverso, e quanti restano disoccupati.

Il tasso di coerenza è appunto il rapporto fra quelli che vanno a fare qualcosa che ha un rapporto con la formazione in partita e il totale dei formati. Questo dato dovrebbe essere pubblicato obbligatoriamente. Ogni centro di formazione, ma io dico anche ogni facoltà universitaria, ogni scuola, dovrebbe essere tenute a pubblicare il dato rilevato in modo rigoroso e attendibile con questo metodo. Qualcosa di questo genere si è cominciato a fare, ma solo per la scuola. Eduscopio è un osservatorio creato dalla Fondazione Agnelli che misura l’efficacia formativa delle scuole di secondo grado osservando gli esiti universitari e occupazionali di chi le ha frequentate; e lo fa proprio incrociando i dati dell’anagrafe scolastica con le comunicazioni obbligatorie o i dati dell’anagrafe universitaria; questo consente ai giovani di scoprire quali scuole di una zona danno una marcia in più per l’università e il mondo del lavoro.

Oggi Eduscopio riesce a mettere a confronto settemila scuole, in Piemonte e Lombardia. Occorrerebbe che questo potesse avvenire anche e soprattutto per la formazione professionale. Perché voi capite che se noi avessimo questo dato per tutti i corsi di formazione, noi potremmo orientare il finanziamento pubblico. E sono fiumi di denaro, sono miliardi, molti miliardi ogni anno, per metà provenienti dal fondo sociale europeo. Potremmo orientarli sui corsi buoni, quelli che hanno un alto tasso di coerenza con gli sbocchi occupazionali. Mentre noi oggi il finanziamento lo distribuiamo secondo criteri puramente clientelari. L’assessore regionale che gestisce questo fiume di denaro che cosa fa? Dà un tot ai corsi di formazione delle cooperative rosse, un tot a quelli delle bianche, un tot ai salesiani, un tot ai corsi promossi dai sindacati, ecc. Magari anche raggiungendo delle iniziative apprezzabili, finanziando ottimi corsi di formazione; ma finanziando anche i corsi che non funzionano, i corsi che sono delle truffe, che portano i ragazzi in un vicolo cieco, li ingannano. Non c’è alcuna selettività nel finanziamento, perché non ce n’è lo strumento.

Finora questo sistema non è stato attivato dallo Stato perché il sistema attuale privilegia l’interesse degli addetti al sistema formazione, che non amano essere posti sotto stress. Perché è evidente che misurare il tasso di coerenza significa mettere in pericolo il posto di lavoro di chi lavora in un corso che non funziona, e questo non è gradito all’addetto. Ma mette in discussione anche la discrezionalità e quindi il potere politico dell’assessore regionale di turno. Mentre il sistema nuovo, fornendo un criterio oggettivo per la distribuzione dei finanziamenti, toglierebbe agli assessori regionali competenti l’amplissima discrezionalità che oggi possono esercitare.

Questo progetto era stato inserito nella riforma del 2015. Il d.lgs numero 150, andate a vedere gli articoli 13, 14, 15 e 16, prevede esattamente questo. Un sistema informativo unitario delle politiche del lavoro, il fascicolo elettronico del lavoratore, il coordinamento dei sistemi informativi, l’incrocio fra i dati della formazione e i dati delle comunicazioni obbligatorie, il compito di ANPAL, INAIL, ISFOL, che adesso si chiama INAP, e INPS, di elaborare questi dati per fornire il dato sulla qualità della formazione. Solo che questo progetto si poggiava sul presupposto di una riforma costituzionale che, sappiamo come è andata, l’anno dopo è stata bocciata con un referendum che non ha consentito che la competenza su questa materia, almeno per la parte di coordinamento e orientamento generale del sistema della formazione, ritornasse a essere accentrata allo Stato. Questo sistema si basava sul presupposto che lo Stato avesse la competenza per regolare e controllare la qualità della formazione. Venendo meno quel presupposto costituzionale, la materia è rimasta di competenza esclusiva di ciascuna delle 20 regioni italiane. Però questo non significa che sia vietato a ciascuna delle 20 regioni di fare questa cosa.

sSe si cominciasse almeno nelle regioni più virtuose, la dove c’è più consapevolezza della gravità del problema e della possibilità di risolverlo, i risultati si vedrebbero presto. Una regione che già monitora l’efficacia della formazione è il Trentino-Alto Adige. Non è un caso che i dati relativi alla disoccupazione giovanile in quella regione siano particolarmente felici rispetto al resto della nazione. Ma, insomma, se si incominciasse in una o due regioni, questa prassi probabilmente diventerebbe un benchmark anche per le altre. Quindi consentirebbe poi di arrivare, sia pure in modo più graduale, a una estensione della buona pratica anche nelle altre regioni. Io comunque non vedrei male che il Fondo Sociale Europeo incominciasse a dire “i soldi vanno dove si conosce la qualità della formazione finanziata”: se dunque non c’è questa rilevazione, il contributo non può essere erogato.

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