UGUAGLIANZA: UNA QUESTIONE RELATIVA DI IMPORTANZA ASSOLUTA

IL GRADO DI EFFICIENZA DEI PAESI NON DIPENDE TANTO DALLA LORO RICCHEZZA, QUANTO DALLO STATO DI DISTRIBUZIONE DI QUEST’ULTIMA. PARADOSSALMENTE, UN PAESE RICCO CON UN ALTO LIVELLO DI DISEGUAGLIANZA HA POTENZIALITA’ INFERIORI RISPETTO A QUELLE DI UN PAESE PIU’ POVERO CON UNA PIU’ OMOGENEA DISTRIBUZIONE DEI REDDITI

Recensione del libro di R. Wilkinson e K. Pickett, The Spirit Level – Why More Equal Societies Almost Always Do Better (Londra, Penguin Books, 2009), a cura di un frequentatore assiduo di questo sito che preferisce mantenere l’anonimato

Nota esplicativa preliminare – Il dato normalmente utilizzato per misurare la differenza di reddito all’interno dei Paesi è il c.d. indice (o coefficiente) di Gini. E’ un numero compreso tra 0 e 1, dove 0 corrisponde a una situazione di uguaglianza perfetta (cioè al caso – puramente teorico – in cui tutti abbiano lo stesso reddito) e 1 corrisponde a una situazione di totale disuguaglianza (cioè al caso – altrettanto puramente teorico – in cui una persona abbia tutto il reddito, mentre tutti gli altri hanno un reddito nullo). Il coefficiente èstato sviluppato dallo statistico Italiano Corrado Gini. In proposito vedi i dati comparativi riportati sul sito della United Nations Development Programme (UNDP), dove sono messi a confronto tutti i Paesi del mondo.

          Il libro The spirit level, di Richard Wilkinson e Kate Pickett [1], è prezioso per chiunque abbia a cuore la politica, la salute e il benessere sociale. Il più grande merito di questo saggio sta nel fornire una spiegazione complessiva a un gran numero di problemi sociali e di salute pubblica, che variano dagli omicidi all’aspettativa di vita, dalla mobilità sociale alle malattie mentali, attraverso la “lente” della disuguaglianza dei redditi. Mentre i problemi sociali e di salute pubblica sono di solito esaminati singolarmente (per esempio: vengono sviluppate direttive specifiche per combattere la dipendenza da alcol e droghe, altre misure vengono introdotte per prevenire le gravidanze delle minorenni, ecc.), Wilkinson e Pickett mostrano come una delle cause principali, e sicuramente comune per una varietà di problematiche sociali, sia la disuguaglianza. Quindi, riducendo la disuguaglianza, si potrebbe attaccare in maniera considerevole un buon numero di problemi di assoluta gravita’. Uno dei vantaggi della crescente massa di prove dei danni inflitti dalla disuguaglianza e’ che traduce in fatti pubblicamente dimostrabili quelli che sono stati spesso valori e convinzioni alla base del pensiero progressista/liberale.
          Le riflessioni offerte in questo libro sono basate su dati comparabili a livello internazionale, raccolti in diversi paesi economicamente sviluppati. Gli autori iniziano mostrando come molti paesi, malgrado siano economicamente ricchi, sperimentano un numero crescente di problemi sociali. Come sostengono gli autori, è un sorprendente paradosso che, al culmine delle conquiste materiali e tecniche dell’uomo, gli abitanti dei paesi “ricchi” siano dominati dall’ansia, inclini alla depressione, preoccupati di come sono visti dagli altri, insicuri delle amicizie, spinti al consumismo e quasi privi di vita sociale. Ancor più paradossalmente, molti studi mostrano come le differenze di reddito medio o di standard di vita tra interi popoli o paesi non siano poi cosi’ rilevanti, mentre le differenze di reddito all’interno di quegli stessi paesi siano di fondamentale importanza.
          Ne deriva un primo punto importante sostenuto dal libro: il successo materiale non solo e’ insufficiente a garantire il “successo sociale” (o “felicità”), ma va considerato in termini relativi anziché assoluti. In altre parole, anche se la povertà e le privazioni sono spesso configurate come assolute, nelle nostre società moderne e ricche dovrebbero essere considerate come relative. Infatti, ciò che davvero conta è l’entità della disuguaglianza nella società di appartenenza.
Questo è evidente quando si osservano i dati presentati: c’è un chiara correlazione (e, in buona misura, una relazione causale) tra la disuguaglianza e molti problemi, che comprendono: livello di fiducia nella società, malattie mentali (inclusa la dipendenza da alcol e droghe), aspettativa di vita e mortalità infantile, obesità, rendimento scolastico dei giovani, gravidanze di minorenni (problema acuto nelle società anglosassoni), omicidi, popolazione carceraria e mobilità sociale. Anche se la disuguaglianza non è la sola causa di questi problemi, essa è comune a tutti.
          Paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, per esempio, malgrado siano tra i più ricchi del mondo, sono tra i più disuguali [2] (insieme al Portogallo), e quasi costantemente in coda nelle graduatorie di tutte le situazioni sopracitate. I crimini violenti, virtualmente sconosciuti in alcune società come I paesi Scandinavi e il Giappone, sono un flagello in altri. Negli Stati Uniti, per esempio, un minore e’ ucciso con un’arma da fuoco ogni tre ore, mentre in Gran Bretagna nei soli due anni 2005 – 2006 è stato registrato un milione di crimini violenti.
          Un altro aspetto interessante che viene dibattuto in questo libro è quello dell’autostima. Anche se, secondo dati recenti, l’autostima e’ cresciuta nei giovani Americani negli ultimi decenni, la loro sicurezza è, in realtà, un meccanismo difensivo di incoraggiamento, un egoismo insicuro che è facilmente scambiato per un’elevata autostima. Non diversamente da Wilkinson e Pickett, infatti, lo psicologo Barry Schwarz ha argomentato che, anche se l’attenzione verso la posizione sociale e i confronti con gli altri non sono una novita’, le molte più scelte generate dalla ricchezza hanno considerevolmente influenzato il nostro ‘orizzonte’ di confronti sociali [3]. Adesso non ci confrontiamo solo con i vicini, ma con un insieme molto più vasto di soggetti. Questo ha prodotto un impatto negativo sull’autostima e il senso di controllo, particolarmente in coloro che sono inclini a tentare di “massimizzare” le loro scelte. In una società in cui sentiamo di dover eccellere, la nostra autostima è probabilmente danneggiata e ciò, a sua volta, impatterà negativamente i nostri sentimenti di fiducia ed empatia verso gli altri. Come sottolineava Alexis de Tocqueville [4] , é probabile che capiamo e fraternizziamo meno con coloro che non percepiamo come nostri pari. A riprova di questo, la percentuale di chi concorda con il giudizio “ci si può fidare della maggior parte delle persone” e’ più elevata nelle società più uguali.
          Un altro argomento importante di questo libro riguarda le pari opportunità, cioè l’idea che chiunque, grazie ai propri meriti e al duro lavoro, può conseguire una miglior posizione sociale o economica, per sé e la propria famiglia. Lungi dal realizzare il “Sogno Americano”, gli Stati Uniti hanno la mobilità più bassa tra gli otto paesi economicamente sviluppati, presi in esame in un recente studio effettuato dagli studiosi della London School of Economics [5]. Come in molti altri studi che concernono l’uguaglianza, la Gran Bretagna si piazza penultima, mentre i paesi Scandinavi hanno il grado più elevato di mobilità sociale e, come prevedibile, registrano insieme al Giappone le migliori prestazioni praticamente in tutte le categorie.
          In questa analisi, l’Italia emerge come una società più uguale dei paesi Anglosassoni (escluso il Canada), ma molto più disuguale della maggior parte dei paesi Occidentali. Ciò si riscontra praticamente per ogni problema considerato. Eccezioni degne di nota sono: benessere dei bambini, malattie mentali e aspettativa di vita, nelle quali l’Italia è superiore alla media; d’altro canto l’Italia va davvero male per quanto riguarda la condizione delle donne e il grado di istruzione.

Principali implicazioni
          Anche se l’uguaglianza può essere un tema interessante, alla fine dei conti, non é il denaro che rende felici? Beh, non proprio: diversi indizi fanno ritenere che a determinare la felicità siano molto di più le intense relazioni sociali che i soldi. Come Wilkinson e Pickett dimostrano, sebbene la teoria economica si sia tradizionalmente basata sull’ipotesi che il comportamento umano si potesse spiegare sostanzialmente con un tendenza innata a massimizzare il proprio interesse materiale, una serie di esperimenti ha dimostrato che questo assunto potrebbe essere molto lontano dalla verità. Analogamente, i principi della “teoria dell’agenzia”, i cui pilastri sono costituiti dall’interesse individuale e dall’opportunismo, e che è stata il credo dominante nella ricerca manageriale degli ultimi trent’anni, sono stati largamente screditati dai fallimenti di Ditte come Enron e Parmalat, e dai più recenti disastri planetari dei cosiddetti “mutui subprime” e dei mercati finanziari in tutto il mondo.
Un’altra implicazione importante di questo libro, poi, é che e’ la gran parte della popolazione ad esser minacciata da una crescente disuguaglianza. In realtà, l’uguaglianza fa bene a tutti, anche ai ricchi. Però, specialmente durante l’attuale recessione e in presenza di livelli insostenibili di debito pubblico, non e’ che un aumento dell’uguaglianza dovra’ corrispondere a una spesa pubblica ancora piu’ ingente? La risposta e’ “no”: come dimostra il Giappone, una maggiore uguaglianza può essere ottenuta attraverso una struttura di salari relativamente piatta e non necessariamente attraverso una tassazione elevata.
          Come questo libro chiaramente mostra, se la disuguaglianza continua a crescere – ed é successo nella maggior parte dei paesi più sviluppati economicamente negli ultimi decenni –, sempre più le nostre società dovranno affrontare gravi problemi di salute e sociali, come malattie mentali, abusi di droghe e crimini, che richiederanno più prigioni e più polizia. Perciò, il messaggio fondamentale per tutti i Governi e i partiti politici è di andare verso una maggiore uguaglianza, attraverso l’integrazione, relazioni industriali più efficaci e la partecipazione di tutti i cittadini alla creazione della prosperità sociale.

Note
[1] Wilkinson, R. e Pickett, K. (2009): “The spirit level – why more equal societies almost always do better”. London: Penguin books.
[2]Il primo 20 % delle famiglie Americane, per esempio, riceve una grossa fetta del reddito totale disponibile (49.7%), mentre l’ultimo 20 % delle famiglie Americane riceve una porzione molto piu’ piccola (3.5%). Il primo 5 % delle famiglie riceve da solo il 21,7 % del reddito totale disponibile (dati del 2002). La distribuzione della ricchezza, misurata in valore netto, è ancora più asimmetrica (dati del 2001): l’1 % delle famiglie più ricche ha circa 1/3 del valore netto disponibile, mentre l’ultimo 50 % delle famiglie ha solo il 2,8 % (fonte:  McNamee, S. J. e Miller, R. K. Jr. (2009), “The Meritocracy Myth”, edito da Rowman & Littlefield).

[3] Schwarz, B. (2004), “The paradox of choice – why more is less”, New York, NY: Harper Collins.
[4] De Tocqueville, A. (2003), “Democracy in America”, London: Penguin.
[5] Blanden, J., Gregg, P. and Machin, S. (2005),”Intergenerational mobility in Europe and North America”. London: Centre for Economic Performance, London School of Economics.

 

 

 

 
 

 

 

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