LA LUNGA MARCIA VERSO IL BUON LAVORO

Il ruolo del sindacato non è impedire i cambiamenti ma è sostenere i lavoratori all’interno dei cambiamenti – E chi rappresenta le imprese dovrebbe smettere di fare lobby di piccolo cabotaggio e convincersi che, in alcuni casi, il modo migliore per avere un lavoro più all’altezza delle sfide del presente è pagarlo un po’ di più

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Recensione de L’intelligenza del lavoro a cura di Claudio Cerasa, pubblicata sul quotidiano il Foglio il 14 agosto 202oLe altre recensioni e interviste riferite al libro sono reperibili attraverso la pagina web ad esso dedicata .
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Claudio Cerasa, direttore de Il Foglio

Problema: ma come si fa ad accelerare il futuro se chi dovrebbe far girare la macchina del paese piuttosto che ingranare le marce per andare avanti sceglie di ingranare le marce per andare indietro? In un libro illuminante pubblicato qualche settimana fa con Rizzoli, L’intelligenza del lavoro, il professor Pietro Ichino, giuslavorista con gli attribuiti, che i lettori di questo giornale conoscono bene, ha dedicato spazio ha un tema purtroppo poco presente all’interno del dibattito pubblico del nostro paese e ha invitato la classe dirigente italiana a riflettere su un punto importante: prima che sia troppo tardi, occorre che i sindacati dei lavoratori e i sindacati degli imprenditori si rendano conto che nell’era dell’automazione, dell’intelligenza artificiale e della globalizzazione, senza innovazione organizzativa e tecnologica nessuna impresa può avere un futuro.

“Ai lavoratori è indispensabile un sindacato che sappia guidarli nella valutazione del piano industriale innovativo e che, nel caso di valutazione positiva, sappia guidarli nella negoziazione della scommessa comune con l’imprenditore su quel piano. E che sappia essere un partner autorevole dell’imprenditore nella gestione dell’innovazione”. Con parole semplici, Ichino coglie il cuore del problema e offre ai sindacati degli imprenditori e dei lavoratori qualche spunto utile per riflettere attorno al tema dei temi: in una stagione in cui il mondo accelera, in cui l’economia cambia e in cui il lavoro si trasforma, ci si può permettere di avere sindacati che più che occuparsi di pensare al futuro si occupano di pensare solo a come riportare in vita il passato?

La questione riguarda due punti in particolare. Da una parte, i sindacati dovrebbero accettare il fatto che il loro ruolo non è impedire i cambiamenti ma è sostenere i lavoratori all’interno dei cambiamenti. E fino a quando, tanto per far un esempio, i stessi sindacati continueranno a considerare lo smart working solo come un’occasione di portare il lavoro a casa e non come un’occasione per modernizzare il lavoro continueranno ad avere i piedi inchiodati in un tempo che non c’è più. E in questo senso, piuttosto che concentrare tutte le proprie energie nella difesa del blocco dei licenziamenti (norma che nel mondo, oltre che in Italia, esiste solo in Turchia e in Cina), nella detassazione degli aumenti contrattuali (norma utile ma che di fatto porta l’attenzione del sindacato solo verso chi ha già tutele mettendo ancora una volta in secondo piano chi le tutele non ce le ha), nella battaglia per far diminuire ancora l’età necessaria per andare in pensione (mostrando dunque attenzione a chi un lavoro ce l’ha e dimenticandosi sistematicamente di dare voce a chi, specie tra i più giovani, un lavoro ancora non ce l’ha) e nell’assunzione indiscriminata di tutti i precari della scuola pubblica senza passare neppure dal concorso (cosa che per fortuna non succederà), occorrerebbe capire che non avere i piedi inchiodati in un tempo che non c’è più significa anche capire, all’interno del sindacato, che non c’è tutela del lavoro se non ci si occupa prima di ogni altra cosa di tutelare anche a chi un lavoro non lo possiede ancora.

Come? Scommettendo per esempio sulla formazione. Scommettendo per esempio sulle competenze. Scommettendo anche sul progetto iniziale del jobs act, ovvero sia sull’estensione delle tutele a chi le tutele non ce le ha (e anche qui ha ragione Pietro Ichino quando dice che sul tema del lavoro l’unico partito che potrebbe dare una spinta per andare avanti, il Pd, oggi è afono e “non appare in grado di riempire in alcun modo il vuoto culturale e progettuale del M5S”, al punto da essere lì pronto a creare una condizione da incubo: fare in modo che il vuoto venga riempito dalla la Cgil). Vale per i sindacati dei lavoratori, ovviamente.

Ma il discorso, e qui arriviamo al secondo punto, vale anche per i sindacati degli imprenditori. E mai come oggi chi rappresenta oggi le imprese dovrebbe smettere di fare lobby di piccolo cabotaggio e accettare il principio che, in alcuni casi, il modo migliore per avere un lavoro più produttivo, più di qualità e più all’altezza delle sfide del presente è semplicemente pagarlo un po’ di più (è vero che ci sono migliaia di posti di lavoro per i quali oggi c’è una domanda molto alta che corrisponde a un’offerta molto bassa ma bisognerebbe chiedersi a quanti di questi lavori corrisponde un salario capace di rendere quel lavoro davvero attraente).

Carlo Bonomi

E il bravo presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, che questo giornale segue con simpatia da molto tempo, dovrebbe capire che il sindacato degli imprenditori ha un senso se accetta di essere protagonista attivo di questa rivoluzione. Non chiedendo solo piccole e marginali concessioni per le imprese (come quelle chieste nel decreto agosto, dove il governo ha concesso a Confindustria l’azzeramento della tassazione per rivalutare gli asset aziendali) ma intestandosi alcune grandi battaglie di principio per provare a rivoluzionare in meglio il mercato del lavoro provando per esempio a diventare il garante gentile delle raccomandazioni della Commissione europea su questo terreno. Per “intensificare gli sforzi per contrastare il lavoro sommerso”. Per “garantire che le politiche attive del mercato del lavoro e le politiche sociali siano efficacemente integrate e coinvolgano soprattutto i giovani e i gruppi vulnerabili”. Per “sostenere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro attraverso una strategia globale, in particolare garantendo l’accesso a servizi di assistenza all’infanzia e a lungo termine di qualità”. Per “migliorare i risultati scolastici, anche mediante adeguati investimenti mirati, e promuovere il miglioramento delle competenze, in particolare rafforzando le competenze digitali”. Per “porre l’accento sulla politica economica connessa agli investimenti in materia di ricerca e innovazione e sulla qualità delle infrastrutture, tenendo conto delle disparità regionali”. Per “migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione, in particolare investendo nelle competenze dei dipendenti pubblici, accelerando la digitalizzazione e aumentando l’efficienza e la qualità dei servizi pubblici locali”. Per “affrontare le restrizioni alla concorrenza, in particolare nel settore del commercio al dettaglio e dei servizi alle imprese, anche mediante una nuova legge annuale sulla concorrenza”.

La rivoluzione del lavoro è un qualcosa che riguarda direttamente i singoli lavoratori e i singoli imprenditori (e per le parti sociali, tornare a ragionare con un’ottica novecentesca, proprio in un momento in cui i loro rappresentati si ritrovano a fare i conti con la modernizzazione del proprio lavoro, sarebbe un peccato difficile da perdonare). Ma senza una trasformazione del lavoro dei sindacati l’Italia continuerà ad avere più piedi piantati nel passato che piedi proiettati nel futuro. E il compito di far diventare il lavoro smart è un compito che riguarda i sindacati ancora di più dei governi.

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