LA FINE DEL REGIME DI JOB PROPERTY

Tutte le Corti superiori, dalla Corte di Giustizia Europea del Lussemburgo alla Corte costituzionale italiana, alla Corte di Cassazione, hanno confermato che la sanzione contro il licenziamento ingiustificato è – di regola – l’indennizzo e non la reintegrazione

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Intervista di Arturo Maresca, professore di diritto del lavoro nell’Università “La Sapienza” di Roma a cura di Claudio Tucci, pubblicata sul Sole 24 Ore del 3 gennaio 2021 – In argomento v. anche il mio editoriale telegrafico del 13 gennaio 2020, L’articolo 18 e una sinistra senza speranza
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“Il 2020 si è chiuso con un punto fermo: dalla Corte di Giustizia UE alla Consulta, passando per Cassazione e giudici di merito, tutte le recenti pronunce di questi organi giurisdizionali hanno confermato come, nel regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo, l’indennità monetaria costituisca la regola e la reintegrazione l’eccezione. Certo – spiega Arturo Maresca, ordinario di diritto del lavoro all’Università di Roma La Sapienza, e da 40 anni big della consulenza alle imprese – l’intera disciplina relativa ai rimedi in caso di atto datoriale illegittimo è, a oggi, molto complessa, frutto di una stratificazione e frammentazione normativa realizzzatasi dal 2012 in poi. Ma va detto con altrettanta chiarezza che la soluzione non può essere quella di restaurare la disciplina preesistente (l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori – n.d.r.), ma piuttosto di sistematizzare quella oggi vigente”.

Professore, i giudici hanno risposto chiaro ai detrattori del Jobs Act?
Diciamo che, almeno ad oggi, tutte le illazioni, anche di fonte governativa, sulla tenuta del Jobs Act si sono dimostrate infondate sia per i licenziamenti individuali sia per i collettivi. A luglio, la Corte costituzionale ha confermato, per gli assunti dopo il 7 marzo 2015, che la tutela principe, in caso di declaratoria di illegittimità del licenziamento, è quella monetaria, da un minimo di sei a un massimo di 36 mensilità, rimessa, però, ora, in virtù di quella stessa pronuncia, alla discrezionalità del singolo magistrato (è stato dichiarato incostituzionale il riferimento esclusivo all’anzianità di servizio nel calcolo dell’indennizzo, n.d.r.). Ma ancor più significativa, a mio avviso, è la sentenza della Corte UE che, sul Jobs Act, ha affermato che non esistono collegamenti tra la disciplina nazionale (nel caso di specie, i criteri di scelta nell’ambito dei licenziamenti collettivi, n.d.r.)  e un atto di diritto dell’Unione, così come richiesto dall’articolo 51, paragrafo 1, della Carta di Nizza. In altre parole, il giudice UE ha chiarito che il regime sanzionatorio di un licenziamento illegittimo non è materia comunitaria, ma nazionale.

Che conseguenze hanno, o avranno, adesso queste decisioni?
Intanto, che la disciplina del 2015 sulle tutele crescenti è ormai diffusa e normalmente applicata. Milioni di lavoratori sono stati assunti dopo il 7 marzo 2015, e da un po’ non riscontro più discussioni nel voler inserire nei nuovi contratti di lavoro clausole di salvaguardia (per richiamare istituti della precedente normativa). Resta, tuttavia, l’esigenza di chiarire i dubbi interpretativi che ancora permangono; tra gli altri, i criteri di determinazione dell’indennità, e superare le differenziazioni prive di un convincente fondamento (ad esempio, la data di assunzione), per “ricomporre”, usando le parole della Consulta, una razionalità complessiva del sistema sanzionatorio del licenziamento illegittimo.

La reintegrazione rimane, ma è davvero così marginale?
La tutela reale è vigente e, a mio avviso,  è stata opportunamente circoscritta a fattispecie davvero gravi di licenziamento. Ad esempio, in caso di licenziamento discriminatorio, nullo, della madre lavoratrice o della donna che ha contratto matrimonio. Insomma tutte le ipotesi dove è sacrosanto il ripristino del rapporto di lavoro, a seguito di sentenza del giudice.

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