SU LAVORO E AFFITTI IL GOVERNO MOSTRA ANCORA UN RESIDUO DI POPULISMO

Occorre mettere l’Anpal in stretto coordinamento con l’Inps, perché proprio da questo potrebbero scaturire potenti incentivi al buon funzionamento delle politiche attive del lavoro – E smettere di tenere in freezer le centinaia di migliaia di persone che hanno perso il posto: al contrario, vanno attivate subito nel mercato del lavoro

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Intervista a cura di Fausto Carioti pubblicata
il 24 maggio 2021 su Libero con un titolo a dir poco demenziale, per il quale ho scritto una lettera al Direttore del quotidiano, rimasta senza risposta – In argomento v. anche la mia intervista pubblicata sul sito Firstonline per il 1° maggio 2021, Il Primo Maggio nell’era del Recovery Plan

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«Il blocco dei licenziamenti serve solo a rinviare il problema a spese dell’Inps. È come mettere le persone interessate in freezer. Ma ogni mese che passa il problema di queste persone si aggrava: tutti gli studi mostrano che più lungo è il periodo di inattività, più difficile è il reinserimento nel tessuto produttivo». A parlare così non è un feroce liberista, ma Pietro Ichino, il “padre del Jobs Act”. Classe 1949, un passato nell’Azione Cattolica e nella Cgil, ex parlamentare prima del Pci e poi del Pd, autore di una serie infinita di articoli e saggi in tema di politiche per l’occupazione, sindacati e diritto del lavoro, materia che insegna all’università di Milano.

Eppure, professore, sono tanti, a partire dal capo della Cgil Maurizio Landini, quelli che chiedono la proroga del blocco di tutti i licenziamenti fino a ottobre, paventando un’esplosione del tasso di disoccupazione. Il governo l’ha concessa, con il decreto Sostegni-bis, sino a fine agosto. Che succederà il giorno dopo?
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Non ci sarà alcuna esplosione del tasso di disoccupazione, perché ormai anche la statistica ufficiale considera già come disoccupate tutte le persone che sono in cassa integrazione a zero ore da più di tre mesi».

Evidentemente, Landini non ha fiducia nella possibilità di ricollocare le persone i cui licenziamenti sono stati bloccati dal governo.
«E io capisco la sua sfiducia, ma considero grave che la sua organizzazione sia del tutto afona e inerte sul terreno delle politiche attive del lavoro, come rassegnata al fatto che in Italia, a differenza del resto d’Europa, esse non possano funzionare».

Politiche attive, appunto. Cosa può fare il governo?
Capisco la sua sfiducia, ma considero grave che la sua organizzazione sia del tutto afona e inerte sul terreno delle politiche attive del lavoro, come rassegnata al fatto che in Italia, a differenza del resto d’Europa, esse non possano funzionare.

Quali misure alternative il governo può varare?
La situazione di crisi gravissima giustifica un aumento della durata del sostegno del reddito, ma a patto che si promuovano subito anche le misure necessarie affinché le persone si attivino e siano sostenute efficacemente nella ricerca del nuovo lavoro. Altrimenti, come è ampiamente dimostrato, l’allungamento del trattamento ha l’effetto di un allungamento del periodo di disoccupazione.

Il presidente dell’Anpal Mimmo Parisi con il ministro Luigi Di Maio

Intanto Draghi sta tagliando una dopo l’altra le teste dei manager responsabili della passata gestione. L’ultima mossa è il commissariamento dell’Anpal, con il siluramento di Mimmo Parisi, l’economista scelto da Luigi Di Maio per l’“operazione navigator”. Che giudizio dà dell’operato di Parisi?
Visto che finalmente se ne va, non voglio infierire. Certo, l’ultimo biennio è stato un periodo nero per le politiche attive del lavoro, al livello centrale: un periodo di paralisi totale. Con lui che presiedeva l’Anpal in smart working dal Mississippi, e i navigator, anche loro in smart working, che avrebbero dovuto aiutare i disoccupati a trovare lavoro senza alcuna formazione specifica, senza un progetto e senza nessuno che ne dirigesse e organizzasse l’attività.

Eppure lei è favorevole al mantenimento dell’Anpal. Quale utilità può avere un’agenzia che sinora non è stata capace di fare nulla?
Certo, fin qui l’Anpal non ha svolto la propria funzione; ma riportare l’intera struttura all’interno del ministero riattivando la vecchia “Direzione generale per le Politiche attive” sarebbe una misura decisamente regressiva, un ritorno senza speranza al punto di partenza. In tutti i maggiori Paesi europei si è affidata questa funzione a una struttura autonoma più agile di quanto sappia essere l’amministrazione statale. Per far funzionare bene le politiche attive del lavoro occorre un management tecnicamente qualificato, non direttamente dipendente dal ministro di turno, capace di rapportarsi quotidianamente con tutte e venti le amministrazioni regionali.

Cosa dovrebbe fare il governo per rilanciare l’Anpal?
Innanzitutto metterla in stretto coordinamento con l’Inps, cui compete la gestione delle politiche passive del lavoro, cioè della NASpI e della CIG. Perché proprio da questo coordinamento potrebbero scaturire potentissimi incentivi economici al buon funzionamento delle politiche attive: basti pensare agli effetti che produrrebbe la destinazione all’Anpal e ai suoi dipendenti anche soltanto dell’uno per mille di quanto essa riuscisse davvero a far risparmiare all’Inps col ricollocare efficacemente i disoccupati. Inoltre occorre realizzare un regime efficiente di sussidiarietà, che veda l’Anpal intervenire operativamente in tutte le situazioni – e sono molte – nelle quali le Regioni non riescono a svolgere correttamente la propria funzione nel campo dei servizi al mercato del lavoro.

Non è un progetto un po’ troppo ambizioso?
Forse. Ma non vedo altre strade, se vogliamo davvero allineare il nostro Paese ai suoi partner maggiori del centro e nord Europa. Chi mai può pensare seriamente che una rediviva “Direzione generale delle Politiche attive” ministeriale offra qualche chance di un risultato migliore?

Lei ha criticato anche un altro provvedimento “di sinistra” adottato dal governo Conte e tuttora in vigore: il blocco generalizzato degli sfratti.
Il blocco degli sfratti non è di sinistra: è solo sbagliato. Innanzitutto perché, tecnicamente, costituisce una forma di paralisi della Giustizia proprio nel momento in cui il governo si impegna a renderla più rapida. Ma anche perché non distingue tra chi ha subìto una riduzione di reddito per effetto della pandemia e chi no. Per di più, il blocco non è neppure accompagnato da una sospensione del debito fiscale del proprietario sul reddito non percepito. E poi è una misura miope e demagogica.

In che senso?
Perché è stata adottata senza tener alcun conto dei suoi effetti controproducenti. Per un inquilino moroso indebitamente privilegiato, quanti sono gli aspiranti inquilini la cui speranza di trovare casa viene azzerata, stante l’effetto gravemente depressivo del blocco sull’offerta di case in locazione? Molto meglio, semmai, un sussidio agli inquilini in difficoltà per il pagamento del canone.

Passiamo al reddito di cittadinanza: è in qualche modo riformabile (come?) o va abolito?
Va corretto, anche nel nome, ma non abolito. E va considerato per quello che è, cioè una misura assistenziale, necessaria per combattere la povertà, ma non una misura di politica del lavoro; se non altro perché almeno per tre quarti dei suoi beneficiari è impensabile un inserimento nel tessuto produttivo. Per i pochi di cui invece un inserimento produttivo è pensabile, occorre neutralizzare l’effetto negativo, cioè il forte disincentivo al lavoro regolare, con una assistenza adeguata capillare, persona per persona: questo avrebbero dovuto fare i navigator.

A giochi fatti, secondo il governo, l’impatto del Recovery plan sull’occupazione dovrebbe consistere in un aumento del 3,2%: circa 730mila posti in più da qui al 2026. Lei crede a queste cifre?
Senta, è già difficilissimo individuare e misurare l’effetto causato sui livelli occupazionali da politiche o investimenti già compiuti. Francamente non so come si possano fare previsioni minimamente attendibili sull’impatto di un insieme eterogeneo di misure, delle quali non si sa come in concreto verranno attuate.

Leggendo il PNRR, il governo Draghi sembra affrontare i problemi della Pubblica amministrazione più in termini di digitalizzazione, pure necessaria, che non responsabilizzando dirigenti e lavoratori. È anche la sua impressione?
È così: il nocciolo della riforma dovrebbe consistere nel responsabilizzare i dirigenti costringendoli a riappropriarsi ed esercitare veramente le loro prerogative manageriali. Però capisco che il PNRR non era probabilmente la sede adatta per definire una riforma di questa natura.

Lei ha scritto sul Foglio che «i garantiti, e tra questi soprattutto i dipendenti pubblici, sono stati per la maggior parte appena lambiti dalla catastrofe», e che il governo «deve smettere di considerare intangibili la loro inamovibilità, il loro non assoggettamento a valutazione, le loro rendite, i loro “diritti acquisiti”». Era un messaggio diretto a Renato Brunetta?
Non solo a lui!

Al ministro, specificamente, che cosa rimprovera?

Di lasciare troppo spazio, nella campagna di nuove assunzioni nelle file degli statali, alla cosiddetta “stabilizzazione dei precari”. Se sono i migliori, che affrontino un vero concorso.

Sindacati e dipendenti pubblici, intanto, sembrano essersi affezionati al lavoro a distanza. Può essere un’opportunità per tutti o siamo davanti alla pretesa di un diritto inesistente?
La rivendicazione sindacale delle quote prefissate di personale in smart working è sbagliatissima: questa forma di organizzazione del lavoro richiede innanzitutto quella responsabilizzazione per i risultati di cui abbiamo parlato prima, che nel settore pubblico è ancora assai poco diffusa. Inoltre richiede l’accessibilità da remoto al sistema informatico, che nella maggior parte delle amministrazioni è ancora di là da venire. Ha fatto molto bene il ministro a non cedere su questo punto.

Chi decide dove lo smart working è utile e dove no?
Se ne deve discutere in sede sindacale. Ma la responsabilità della decisione è del management.

Nel PNRR e in tutta la filosofia del governo Draghi permane la visione del Mezzogiorno come caso a sé: “il Sud ha malattie diverse dal resto d’Italia, dunque ha bisogno di terapie diverse”. È il modo giusto di affrontare la questione?
Il nostro Mezzogiorno ha bisogno di infrastrutture almeno pari a quelle del Centro-Nord e di una forte iniezione di civicness. Ma di quest’ultimo fattore di progresso in buona misura ha bisogno, a ben vedere, l’intero Paese.

 

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