FRANCESCO ALL’O.I.L.: FAR IN MODO CHE CIASCUNO POSSA AMARE IL PROPRIO LAVORO

Un contenuto profetico che si colloca al di sopra del discorso giuridico-economico, ma anche qualche punto a rischio di generare equivoci, come la polemica con l’illuminismo, l’immaginario legato al dio-denaro e la questione della parità di genere

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Commento al video-messaggio inviato dal Papa alla 109ma Conferenza Internazionale del Lavoro,  pubblicato nel numero di agosto-settembre 2021 della rivista dei Gesuiti
Aggiornamenti Sociali (anch’esso qui disponibile), insieme al commento di Gaetano Sateriale In argomento v. anche l’editoriale telegrafico per la Nwsl n. 443, 30 giugno 2017, contenente una critica a una dichiarazione del Papa in materia pensionistica

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Scarica l’estratto della rivista Aggiornamenti Sociali, contenente anche il testo del video-messaggio del Papa e l’altro commento, affidato a Gaetano Sateriale, in formato pdf

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Il messaggio rivolto da papa Francesco alla 109a Conferenza internazionale del lavoro è ricco di spunti autenticamente profetici, dei quali sono ben visibili le radici bibliche; in particolare sottolineo qui la preoccupazione per il contrasto alle disuguaglianze, la riflessione sul significato della vocazione dell’imprenditore, con il richiamo al principio della destinazione universale dei beni, e la proposta della cura come dimensione fondamentale di ogni lavoro. La lettura evidenzia però anche alcune debolezze o punti a rischio di generare equivoci, quali la polemica con l’illuminismo, l’immaginario legato al denaro e alla finanza e la questione della parità di genere. Complessivamente possiamo affermare che il messaggio segna una nuova tappa importante nello sviluppo della dottrina sociale della Chiesa.

Il contenuto profetico

Un primo elemento di valore profetico, che affiora lungo tutto il testo, è la preoccupazione per l’aumento delle disuguaglianze conseguente all’evoluzione tecnologica, che espone i più deboli al rischio di emarginazione. Il messaggio denuncia a questo proposito come peccato sociale la “cultura dello scarto”: la rinuncia a contrastare l’allargarsi del divario di produttività e di reddito, ovvero la polarizzazione della forza lavoro tra i più forti e i più deboli, condannati a essere soltanto, se va bene, beneficiari di assistenza. Riferita alla situazione italiana, la condanna della “cultura dello scarto” implica mettere in discussione un tessuto produttivo come il nostro, nel quale  i più deboli sono abbandonati a sé stessi, privati della necessaria rete di servizi di informazione, orientamento scolastico e professionale, formazione mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti, assistenza nelle transizioni professionali e nella mobilità geografica, di cui il mercato del lavoro dovrebbe essere capillarmente innervato. Nelle parole del Papa riecheggiano quelle di don Lorenzo Milani, che indicava proprio nell’istruzione e nell’apprendimento professionale la chiave per liberare i più deboli dalla trappola della povertà.

Questo discorso riguarda da vicino anche i sindacati, che devono difendere «la causa degli stranieri, degli ultimi e dei rifiutati». Fanno bene a «sorvegliare le mura della città del lavoro, come una guardia che […] protegge quanti sono dentro», ma hanno anche il dovere di proteggere «quelli che stanno fuori dalle mura», che più di tutti hanno bisogno di sostegno. Qui emerge il tema attualissimo del possibile conflitto di interessi fra insider e outsider e del rischio sempre incombente che le mura erette a protezione della città del lavoro si trasformino in barriere insuperabili per l’ingresso nella città di quanti «sono esclusi dal lavoro […] dai diritti e dalla democrazia». Di qui il comandamento biblico, rivolto non solo al sindacato, ma anche e soprattutto a chi ha responsabilità di governo, di porsi prioritariamente al servizio di questi ultimi, e un’indicazione forte in favore di un sistema di protezione capace di estendersi a tutte le persone che vivono del proprio lavoro e non solo alla parte che è già “dentro la cittadella”.

Un altro passaggio che merita una riflessione attenta è quello in cui il Papa indica l’attività imprenditoriale come «una nobile vocazione orientata […] a migliorare il mondo per tutti», mettendo in guardia contro l’atteggiamento tendente a vedere aprioristicamente nell’imprenditore una figura socialmente negativa. Implicitamente auspica quindi un sistema di relazioni industriali (tra imprenditori e lavoratori) fondato sul riconoscimento reciproco dell’insostituibilità della rispettiva funzione: non ci può essere buona impresa senza buon lavoro, ma neppure buon lavoro senza buona impresa. Il punto è accompagnato dalla ripresa di un tema centrale della dottrina sociale della Chiesa, e cioè la «subordinazione di ogni proprietà privata alla destinazione universale dei beni della terra e, pertanto, il diritto di tutti al loro uso»: la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’azienda e al godimento dei relativi frutti deve costituire una sorta di prefigurazione della partecipazione di tutti – senza “scarti” né esclusioni – ai benefici del progresso economico. In quest’ultima affermazione si coglie appieno la dimensione etica del messaggio del Papa, che si colloca su un piano diverso e più alto rispetto al discorso giuridico ed economico e si fonda su un comandamento di giustizia le cui radici affondano nella rivelazione biblica più e prima che su argomenti di diritto positivo o analisi scientifiche.

Nel messaggio del Papa si osserva peraltro una simmetria fortemente significativa tra la qualificazione del ruolo dell’imprenditore come funzione indispensabile per la valorizzazione del lavoro umano, e la qualificazione del ruolo della persona che lavora (anche) in termini di cura: il lavoro «deve includere la dimensione della cura, perché nessuna relazione può sopravvivere senza cura». Dunque il lavoro deve essere svolto non solo secondo la buona tecnica, la “regola d’arte”, ma anche con “diligenza”, termine che rimanda direttamente al verbo latino diligere, cioè amare. È responsabilità dell’imprenditore realizzare le condizioni affinché ciascuno nell’impresa possa amare fino in fondo il proprio lavoro e l’azienda stessa che lo rende possibile e lo valorizza.

I passaggi che possono suscitare qualche perplessità

Uno dei passaggi che può suscitare perplessità è l’auspicio che possiamo «liberarci definitivamente dell’eredità dell’illuminismo»: a più di due secoli di distanza dalle origini di quel movimento di pensiero, mi sembra che la Chiesa possa lasciarsi alle spalle polemiche e contrapposizioni anche durissime, che lo spirito evangelico impone di collocare nel loro contesto storico; e di riconoscere, di quel movimento, i meriti nella civilizzazione del mondo, ad esempio le battaglie illuministe contro la tortura e la pena di morte, per l’affermazione dei diritti fondamentali della persona e in particolare della libertà di pensiero e della ricerca scientifica, per il perfezionamento dell’organizzazione dei poteri dello Stato.

Ugualmente può dare luogo a qualche equivoco anche il riferimento fortemente negativo – tratto dall’enciclica Fratelli tutti – all’«Impero del denaro». Con questa espressione il Papa intende metterci in guardia contro tutte le possibili forme di deificazione del denaro o – che è lo stesso – del mercato; essa, però, rischia di evocare e giustificare atteggiamenti demagogici diffusi, che demonizzano i meccanismi e del libero mercato, dimenticando che il denaro, a ben vedere, è segno e simbolo della fiducia reciproca tra i cittadini di una nazione, e persino di nazioni diverse, nel caso delle monete sovranazionali come l’euro; ed è anche uno strumento preziosissimo per l’economia mondiale e la libertà delle persone. Anche il mercato, come la moneta, si basa sul bene comune costituito dalla fiducia tra le persone e, pur con tutti i suoi malfunzionamenti, che devono essere tenuti a bada e corretti, è strumento indispensabile per la pace tra i popoli – «Dove passano le merci non passano gli eserciti», secondo la massima dell’economista francese Frédéric Bastiat (1801-1850) –, oltre che per la libertà delle persone e la contendibilità delle funzioni in seno a una società civile. Il progresso economico-sociale è in gran parte basato proprio su una buona combinazione tra contendibilità delle funzioni e parità effettiva delle opportunità di partecipare a questa pacifica contesa, che deve essere costruita con sapienza e garantita a tutti.

Un’ultima notazione critica riguarda il sacrosanto appello del Papa alla difesa delle donne contro ogni forma di violenza e di discriminazione: «per quanto ci siano stati notevoli miglioramenti nel riconoscimento dei diritti della donna e nella sua partecipazione allo spazio pubblico, c’è ancora molto da crescere in alcuni Paesi». L’efficacia di queste parole sarebbe assai maggiore se la Chiesa si aprisse a una salutare autocritica su questo punto, operando al proprio interno per il superamento di una bimillenaria esclusione delle donne dalle funzioni di maggior rilievo, alla base come al vertice. Vedo in questo un ritardo grave della Chiesa rispetto all’evoluzione della cultura di tutto il mondo civile, per il cui superamento proprio le parole del Papa dovrebbero costituire uno stimolo prezioso.

Una nuova fase per la dottrina sociale

Resta il fatto che questo messaggio di papa Francesco costituisce una nuova tappa di grande rilievo nell’evoluzione e arricchimento progressivo della dottrina sociale della Chiesa. Negli anni ’30 del Novecento l’enciclica Quadragesimo anno, promulgata da Pio XI nel 1931, aveva aggiunto all’impianto della Rerum novarum di Leone XIII (1891), emanata nell’epoca della prima rivoluzione industriale, l’idea che le persone devono poter godere dei frutti del progresso economico anche in termini di aumento della sicurezza della propria famiglia e del proprio patrimonio (la possibilità di acquisto della casa); e aveva enunciato il principio di sussidiarietà nei rapporti tra Stato e società civile. Nel 1961, con la Mater et magistra Giovanni XXIII integra nella dottrina sociale i diritti fondamentali della persona; nel 1967, con la Populorum progressio Paolo VI ammonisce i Paesi ricchi circa l’obbligo che loro incombe di sostenere lo sviluppo di quelli più poveri.

Oggi, nell’era dell’automazione e dell’intelligenza artificiale, il messaggio del Papa indica come al centro della preoccupazione della Chiesa stia l’aumento delle disuguaglianze tra i forti e i deboli causato dallo sviluppo tecnologico: un rischio epocale che l’umanità intera ha il dovere di evitare. Per riuscirci occorre innervare capillarmente il tessuto produttivo dei servizi indispensabili per pareggiare le dotazioni di tutte le persone che vivono del proprio lavoro, ma soprattutto coltivare un modello di funzionamento dell’impresa che renda possibile a ogni persona amare il proprio lavoro, l’organizzazione che lo rende possibile e lo valorizza, così come ogni altra persona al cui servizio l’azienda si pone.

 

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