THE GREAT RESIGNATION: QUANDO SONO I LAVORATORI A SCEGLIERSI L’IMPRENDITORE

L’aumento della mobilità volontaria conferma che il mercato del lavoro non può più considerarsi come un luogo dove è solo l’imprenditore a selezionare i propri collaboratori

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Intervisa a cura di Guido Lombardi, pubblicata sul quotidiano
La Provincia di Como, 6 febbraio 2022 – In argomento v. anche il mio editoriale telegrafico del giorno successivo Great Resignation: la persona protagonista nel mercato del lavoro .

Le prospettive relative al mercato del lavoro nel nuovo anno sono positive perché “ci troviamo davanti a una situazione di grande espansione e ripresa con nuove e importanti conferme di tendenze già presenti in nuce un anno fa”. Pietro Ichino, giuslavorista, saggista, giornalista e politico, guarda con ottimismo alla situazione occupazionale italiana nel 2022, pur evidenziando alcune criticità.

Professor Ichino, questi mesi sono caratterizzati da un elevato numero di dimissioni volontarie. Come spiega questo fenomeno?
“Tra le novità più consistenti di questo ultimo periodo emerge quella che negli USA chiamano la Great Resignation, con un incremento del 35% delle dimissioni volontarie rispetto al periodo precedente la pandemia. Si può considerare in parte come effetto delle misure straordinarie adottate per stimolare la crescita ma, a ben vedere, si tratta di un fenomeno già presente prima, che ora risulta enfatizzato. I lavoratori, già da alcuni anni, hanno sempre più la possibilità di scegliere, di guardarsi intorno per trovare l’impresa che meglio può valorizzare il loro lavoro. Le persone possono oggi, più di quanto avvenisse prima, muoversi verso le aziende che offrono le condizioni di lavoro migliori. Questo è importante anche nell’ottica di un incremento della produttività del lavoro, indispensabile in Italia. Non si aumenta la produttività del lavoro se non si promuove la mobilità delle persone verso l’azienda che può meglio valorizzare le persone”.

Quindi oggi sono i lavoratori a scegliere, più che gli imprenditori.
“Mettiamola così: il mercato del lavoro non è più soltanto il luogo dove le imprese scelgono i propri collaboratori ma è anche il luogo in cui le persone scelgono  dove lavoreranno tra più possibilità. La persona che vive del proprio lavoro non è più  soltanto oggetto di scelta ma diventa un soggetto, un protagonista che in maggiore o minore misura ha la capacità di negoziare le condizioni del proprio lavoro. Questo non riguarda ancora tutti, ma chi non ha neppure la minima capacità di scelta fa parte ormai di una minoranza. C’è una responsabilità sociale e politica in capo a chi governa per fare in modo che tutti abbiano questa capacità negoziale”.

Quali sono le misure da mettere in campo in favore della minoranza che non è ancora nella condizione di scegliere?
“Le istituzioni devono potenziare i servizi al mercato del lavoro: orientamento, formazione, informazione mirata e assistenza alla mobilità, cioè i servizi essenziali per aumentare la possibilità di scelta delle persone e soprattutto garantirla a tutti. Però è importante proprio cambiare paradigma a livello culturale, come ho cercato di evidenziare nel libro pubblicato lo scorso anno e intitolato L’intelligenza del lavoro. Quando sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore”.

In Italia, tuttavia, sta crescendo sempre più anche il numero di giovani che non lavorano e non studiano. È un fenomeno che la preoccupa?
“Questo è certamente un problema gravissimo; ed è dovuto alla mancanza del primo anello della catena dei servizi al mercato del lavoro che è l’orientamento scolastico professionale. Nei paesi del centro e nord Europa è chiamato guidance o career service. In Italia manca un servizio che raggiunga tutti gli adolescenti all’uscita da ogni ciclo di studi di scuola media, inferiore e superiore, consenta di tracciare il profilo di ciascun giovane, delle sue aspirazioni e delle sue capacità: spesso infatti i desideri non corrispondono alle effettive competenze. Il servizio di orientamento ha il compito di mettere in guardia rispetto al gap tra aspirazioni e capacità effettive. Spesso i giovani arrivano sul mercato del lavoro in una situazione di totale sbandamento. Hanno l’impressione che il lavoro non ci sia, hanno l’immagine di un mercato del lavoro che non c’è: a quel punto si scoraggiano, si perdono e diventano i NEET (Not in Employment, Education or Training). Il tasso della disoccupazione giovanile è intorno al 30%, mentre quello generale al 9%: questa differenza non può essere dovuta alla mancanza di domanda di lavoro da parte delle imprese, perché la domanda è quella che è per gli adulti come per i più giovani. Se i giovani restano disoccupati in misura tre volte superiore è perché soffrono più degli adulti del difetto di conoscenza del mercato del lavoro e dei suoi meccanismi. La realtà è che le imprese in un terzo dei casi cercano lavoratori che non trovano. Ci sono veri e propri giacimenti occupazionali non utilizzati. Se avessimo i servizi idonei per mettere in comunicazione domanda e offerta, e fossimo in grado di farvi accedere soprattutto chi ne ha più bisogno, cioè i più giovani, cambieremmo la faccia del nostro mercato del lavoro”.

Da due anni ormai si parla spesso di smart working  o lavoro agile. A suo parere il fenomeno è adeguatamente disciplinato in Italia?
“La normativa contenuta nella legge n. 81 del 2017 è sostanzialmente adeguata. Non servirebbe un altro intervento legislativo. Il lavoro agile però può essere tale solo in presenza di quattro requisiti: la disponibilità per la singola persona della strumentazione tecnica e in particolare della connessione necessaria; l’accessibilità da remoto del gestionale aziendale e dei database aziendali; la disponibilità di un luogo adatto al lavoro professionale, che non è disponibile in tutte le abitazioni; un rapporto di lavoro nel quale la prestazione non sia misurata soltanto in ragione dell’estensione temporale, ma anche in riferimento ai risultati conseguiti. Credo che nel settore della pubblica amministrazione siamo lontani anni luce dal poter considerare questi requisiti diffusamente realizzati. Mentre il settore privato è certamente più avanti: questo è il motivo per cui nel sittore privato si può certamente prospettare una immediata diffusione dello smart working e suo consolidamento, mentre del settore pubblico non si può dire altrettanto”.

L’inflazione è ai massimi dal 1996. Prevede tensioni sindacali per il rinnovo dei contratti?
“Certamente questa fiammata produrrà conseguenze nei rapporti di lavoro. Fortunatamente non è più presente la scala mobile che avrebbe creato un avvitamento della spirale inflazionistica. Ora credo che la Bce, dovendo perseguire l’obiettivo dell’inflazione al 2%, ridurrà e progressivamente azzererà le politiche di quantitative easing, per abbassare la temperatura dell’economia e riportare maggiore stabilità”.

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