SUL FUTURO DEL REDDITO DI CITTADINANZA

Troppi esponenti della sinistra italiana non hanno mai capito l’importanza delle politiche attive del lavoro. Non ci hanno mai creduto, hanno sempre prediletto le politiche passive: il sostegno del reddito ai disoccupati e basta

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Intervista a cura di Alessandra Ricciardi per Italia Oggi, 30 novembre 2022 – In argomento v. anche
Perché e come il reddito di cittadinanza va corretto

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«Troppi esponenti della sinistra italiana non hanno mai capito l’importanza delle politiche attive del lavoro. Non ci hanno mai creduto, hanno sempre prediletto le politiche passive: il sostegno del reddito ai disoccupati e basta». Pietro Ichino, giuslavorista dell’Università statale di Milano, considerato uno dei padri del Jobs act, un passato in politica nel Pd, analizza con Italia Oggi cosa non ha funzionato nel reddito di cittadinanza e in generale nelle politiche di riqualificazione professionale per aiutare a ritrovare lavoro chi lo ha perso. «Sono mancati i corsi mirati agli sbocchi occupazionali esistenti; e comunque, anche dove sarebbe stato possibile attivarli, nessuno si è occupato di farlo e di esigere che i beneficiari del Rdc li frequentassero», dice Ichino. Eppure, il lavoro ci sarebbe ma «le imprese incontrano difficoltà nel reperire il personale di cui hanno bisogno nel 45 per cento dei casi». Il Movimento5stelle ha pensato di attivare le politiche attive «immettendo nel sistema tremila navigators addestrati al compito con un corso di 15 giorni, dimenticando che nei Paesi dove funzionano davvero i job advisors hanno una formazione specialistica post-laurea di almeno due anni». E il Pd? Risponde Ichino: «Con Orlando ha pensato bene di togliere di mezzo l’Anpal, l’Angenzia per il lavoro, come agenzia indipendente». Ora i correttivi al reddito di cittadinanza previsti dalla legge di bilancio: «L’idea di condizionare il sussidio alla frequenza di un corso di formazione mirato a uno sbocco occupazionale esistente è giusta».

D. Il reddito di cittadinanza è arrivato al capolinea?
R. Mah… qualcuno potrebbe anche sostenere che il reddito di cittadinanza in Italia non è mai esistito.

D. Perché?
R. Perché con questa espressione, fino a quando non se ne è appropriato il M5S, si indicava il c.d. basic income, cioè un reddito cui hanno diritto tutti i cittadini per il solo fatto di essere cittadini. Senza il requisito dell’essere in stato di indigenza. L’unico esempio al mondo di questo, che è il vero “reddito di cittadinanza”, è costituito dall’Alaska. Viceversa, un sostegno economico per le persone in stato di indigenza, in Italia, esisteva già prima che arrivasse il M5S: si chiamava Reddito di inserimento, o REI. Il M5S non ha fatto altro che aumentarne l’entità e ridurre i requisiti per goderne.

D. Fatto sta che dal 2023 si applicheranno i primi correttivi, poi la riforma vera e propria dal 2024. Ridurre da subito gli aiuti, per oltre 700 milioni di euro, in una situazione congiunturale difficile è contestato sia dal PD che dal M5s. Lei cosa ne pensa? È un’operazione di destra?
R. I correttivi previsti nel disegno di legge finanziaria del nuovo Governo per il 2023 sono un po’ rudimentali, ma tutto sommato ragionevoli. L’idea di condizionare il sussidio alla frequenza di un corso di formazione mirato a uno sbocco occupazionale esistente è giusta. Quanto alla riforma annunciata, la valuteremo quando se ne conosceranno i contenuti. Ma la mia previsione è che questa misura non verrà affatto soppressa: forse torneranno a chiamarla come prima, oppure si inventeranno un nuovo nome. Sicuramente ne modificheranno la disciplina. Ma un Paese civile oggi non può non essere dotato di una forma di assistenza alle persone in stato di indigenza.

D. Si aspettava l’opposizione del Partito democratico?
R. Sì, anche se avrei preferito una presa di posizione argomentata in modo più ragionato e delle proposte precise sul punto importantissimo della condizionalità del sostegno del reddito per chi è in grado di lavorare e in particolare per i giovani che non studiano e non lavorano, i NEET.

D. Uno dei correttivi per il 2023 è l’obbligo di partecipare a corsi di qualificazione professionale per non decadere subito dal beneficio. Ma l’obbligo di formarsi era già previsto dalla legge istitutiva del RdC; è stato rispettato?
R. Sono mancati i corsi mirati agli sbocchi occupazionali esistenti; e comunque, anche dove sarebbe stato possibile attivarli, nessuno si è occupato di farlo e di esigere che i beneficiari del RdC li frequentassero. È su questo punto che governo e opposizione ora dovrebbero concentrare la propria attenzione. I posti di lavoro ci sarebbero, eccome: secondo Unioncamere le imprese incontrano difficoltà nel reperire il personale di cui hanno bisogno nel 45 per cento dei casi!

D. Chi dovrà organizzare i corsi?
R. Questo è il nodo cruciale. Da sempre gli esperti avvertono che i servizi di collocamento dovrebbero essere strettamente collegati e coordinati con i servizi di formazione. Questo consentirebbe di attivare tempestivamente i corsi mirati ai posti per i quali le imprese hanno difficoltà a trovare le persone idonee, proponendoli ai disoccupati con le caratteristiche meglio corrispondenti ai posti stessi. Invece oggi, se si eccettuano casi isolati – come Afol, l’Agenzia metropolitana milanese – la gestione dei Centri per l’Impiego è totalmente dissociata dalla gestione della formazione professionale.

D. Il sistema della formazione è in grado di programmare e realizzare attività formative utili per tornare nel mercato del lavoro?
R. In parte sì, in parte no. Il problema è che non è stato attivato il meccanismo di monitoraggio sull’efficacia della formazione impartita previsto dal Jobs Act, fondato sull’incrocio dei dati di una anagrafe della formazione e quelli delle Comunicazioni obbligatorie al ministero del Lavoro, delle iscrizioni agli albi professionali e alle liste di disoccupazione. Così non possiamo distinguere la formazione efficace da quella che non lo è.

La ex-ministra del Lavoro Nunzia Catalfo

D. Dove ha fallito il RdC?
R. Ha fallito dove non si è saputo distinguere in modo attendibile tra persone idonee al lavoro e no. Ha fallito dove si è posto come causa di decadenza dal beneficio il terzo rifiuto di una “offerta congrua di lavoro”, chiudendo gli occhi sul fatto che l’“offerta congrua” non esiste, perché nessun imprenditore offre un lavoro a una persona purchessia, per di più non motivata a svolgerlo con impegno: tanto è vero che nessuno ha mai perso il sussidio per questo motivo. Ha fallito dove non si è saputo subordinare il beneficio alla sola condizione che può essere fatta funzionare davvero, cioè la partecipazione a un corso di addestramento o formazione mirato alle esigenze di uno sbocco occupazionale effettivo.

D. Professore Lei è considerato uno dei padri del Jobs act; quella riforma prevedeva l’attivazione dei corsi in funzione della domanda espressa dalle imprese, l’anagrafe della formazione, la rilevazione del tasso di efficacia dei corsi, la condizionalità del sostegno del reddito ai disoccupati: tutte cose che non sono mai decollate…
R. È vero. Per questa parte il decreto attuativo n. 150 del 2015 è rimasto largamente inattuato. L’ANPAL, l’agenzia per le politiche attive del lavoro, è stata paralizzata per tre anni da un presidente che pretendeva di governarla dal Mississippi e che era in guerra con il Direttore generale. I ministri del Lavoro Catalfo e Di Maio hanno pensato di attivare le politiche attive immettendo nel sistema tremila navigators addestrati al compito con un corso di 15 giorni, dimenticando che nei Paesi dove funzionano davvero i job advisors hanno una formazione specialistica post-laurea di almeno due anni.

L’ex-ministro del Lavoro Andrea Orlando

D. E il ministro del Lavoro Orlando?
R. Ha pensato bene di togliere di mezzo l’ANPAL come agenzia indipendente, facendone una costola del ministero, con perdita totale di autonomia e duplicazione delle funzioni rispetto alla Direzione Generale per le Politiche Attive. Il problema è che troppi esponenti della sinistra italiana non hanno mai capito l’importanza delle politiche attive del lavoro. Non ci hanno mai creduto. Quindi hanno sempre prediletto le politiche passive: il sostegno del reddito ai disoccupati, che senza le politiche attive è necessariamente sganciato da ogni condizionalità.

D. Bruxelles ci chiede di ridurre i NEET, siamo il Paese che su questo terreno fa peggio in Europa. Perché a suo avviso le politiche scolastiche hanno finora fallito?
R. Alla radice del problema dei ragazzi inattivi, come di quello della disoccupazione giovanile, non vedo tanto i difetti del sistema scolastico, quanto piuttosto l’assenza di un servizio capillare di orientamento scolastico e professionale, capace di prendere in carico ogni adolescente all’uscita di ciascun ciclo scolastico, tracciare il profilo delle sue attitudini e delle sue aspirazioni, mettere in guardia l’adolescente e la sua famiglia quando tra i due profili non c’è congruenza. Anche questa è politica attiva del lavoro; e anche questa in Italia latita.

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