UN BILANCIO DEL DIBATTITO SULL’EREDITÀ DEL PRIORE DI BARBIANA

L’attualità del messaggio di don Lorenzo Milani, di cui si celebra il centenario della nascita, nel ricordo di un “Pierino”, testimone diretto

 

Conversazione a cura di Vincenzo Antonio Poso, pubblicata su GiustiziaInsieme il 16 settembre 2023 – In argomento v. anche la mia intervista a cura di Emanuele Raco, In extremis omnia sunt communia  .

Don Lorenzo Milani con due allievi

Don Lorenzo Milani (Firenze,27 maggio 1923-Firenze, 26 giugno 1967), all’anagrafe Lorenzo Carlo Domenico Milani Comparetti, era figlio di Alice Weiss e Albano Milani Comparetti, ebrei, liberali conservatori, fortemente antifascisti. Nella formazione del giovane Lorenzo la famiglia aveva privilegiato la crescita culturale rispetto ad altri aspetti; colpisce l’importanza della chiarezza e della logica della parola, elementi importanti della sua esperienza pedagogica insieme alla conoscenza delle lingue.

Il 10 novembre 1943 entra in seminario. La sua è una vocazione da adulto; passa dall’ateismo alla conversione e alla vocazione, dopo un travaglio non breve né semplice. Ne segue una attività intensa, nello svolgersi di una stagione breve dal 1947, anno dell’ordinazione sacerdotale, all’anno della morte,1967, con tre tappe fondamentali, scandite dalle sue opere: Esperienze pastorali(1958), L’obbedienza non è più una virtù (1965), Lettera a una professoressa ( 1967) [1].

Con Esperienze pastorali , don Lorenzo Milani anticipa, in qualche modo, la riforma del Concilio Vaticano II, avviata da Giovanni XXXIII con il solenne discorso di apertura dell’11 ottobre 1962.

Ho qualche perplessità su questa affermazione. A me sembra che la grandezza del messaggio contenuto in quel libro, come poi anche in Lettera a una professoressa, non stia in una “riforma religiosa” o “ecclesiale” in qualche modo assimilabile a quella recata dal Concilio Vaticano II: lo stesso don Milani si definiva, sul piano ecclesiale, come un sacerdote “pre-conciliare” e diceva di essere stato “scavalcato a sinistra” dal Papa, Giovanni XXIII, e dalla Chiesa stessa con il Concilio. Penso invece che il contenuto rivoluzionario della sua predicazione si collochi su un piano assai diverso: non tanto su quello della riforma ecclesiale – questa sì recata dal Concilio –, quanto su quello della teologia morale. Su questo terreno la sua predicazione conserva tuttora una portata rivoluzionaria anche rispetto al contenuto – pur molto incisivo rispetto al recente passato pacelliano – della Gaudium et Spes: un significato di rottura rispetto a una tiepida morale cattolica diffusa che neppure il Concilio Vaticano II ha saputo scuotere altrettanto.

Fatto sta che il 15 dicembre 1958 Esperienze Pastorali fu disapprovato dal Sant’Uffizio, che chiese il suo  ritiro dal commercio, vietandone ristampe e traduzioni. Questo vincolo fu rimosso soltanto nel 2014, dopo ripetute richieste, da ultimo da parte del Cardinale Giuseppe Betori.

Strana vicenda, questo ritardo, se si pensa che già Papa Montini aveva manifestato disagio per il “cordone sanitario” che era stato attivato per impedire la circolazione di quel libro. Che sia dovuto passare più di mezzo secolo è davvero un po’ scandaloso. E incomprensibile, anche mettendo nel conto tutte le vischiosità dell’apparato ecclesiastico.

Risale invece al 1965 la Lettera ai cappellani militari che costò un processo penale per incitamento alla diserzione e vilipendio delle Forze Armate: questa Lettera – che, dopo essere stata diffusa in varie forme il 23 febbraio 1965, fu pubblicata il 6 marzo dello stesso anno su Rinascita, settimanale comunista diretto da Luca Pavolini – fu inserita, insieme alla Lettera ai giudici, datata 18 ottobre 1965 e assai più lunga della prima, nel libro uscito in quello stesso anno con il titolo L’obbedienza non è più una virtù.

Ricordo che don Lorenzo inviò a mio padre una minuta della lettera ai giudici, chiedendo il suo parere e consiglio in proposito. Lui gli rispose approvandola, anche da un punto di vista tecnico-processuale.

In questi scritti venivano affrontati i temi della pace, della coscienza civile e dell’obiezione di coscienza, molto discussi in quegli anni.

Il 15 febbraio 1966 don Milani, insieme al coimputato Luca Pavolini, fu assolto con formula piena, “perché il fatto non costituisce reato”. Nel processo di appello il Pubblico Ministero all’udienza del 28 ottobre 1967 chiese per Don Milani, anche se morto, la condanna a 4 anni di reclusione, ma la Corte di Appello di Roma, correttamente, dichiarò di non doversi procedere nei suoi confronti perché il reato si era estinto per morte dell’imputato (fu invece condannato, e amnistiato solo in Cassazione, Luca Pavolini).

Fa impressione che cinquant’anni fa in Italia si potesse essere condannati per aver espresso le tesi contenute in quella lettera di don Milani: solo dieci anni dopo, non si sarebbe trovato più neanche un solo giudice disposto a firmare una sentenza di quel genere.

È infine del 1967, essendo uscita qualche mese prima della sua morte, la Lettera a una professoressa, che ci riguarda più da vicino e che affronta i temi della scuola. Scritta con i suoi allievi, secondo lo schema della scrittura collettiva, questa Lettera anticipa il ’68, contestando il carattere classista della scuola.

Per un aspetto è vero che Lettera a una professoressa anticipa il ’68; per altro verso questa affermazione può alimentare qualche equivoco, che invece va evitato: se don Milani fosse vissuto un anno di più, in modo da assistere all’esplosione della protesta studentesca, penso che ne avrebbe disapprovato una parte rilevante dei contenuti. Per dirne solo uno: un contenuto essenziale di quel movimento fu la contestazione dell’autorità del docente, della sua capacità di dirigere il percorso di acculturazione dei propri allievi; nulla di più distante dall’idea della funzione dell’insegnante che don Milani ha professato e incarnato.

A ben vedere, è anche quello che dice il Presidente Sergio Mattarella, nel discorso pronunciato a Barbiana in occasione delle celebrazioni del centenario della nascita: «Testimone coerente e scomodo per la comunità civile e per quella religiosa del suo tempo. Battistrada di una cultura che ha combattuto il privilegio e l’emarginazione, che ha inteso la conoscenza non soltanto come diritto di tutti ma anche come strumento per il pieno sviluppo della personalità umana. Essere stato un segno di contraddizione, anche urticante, significa che non è passato invano fra noi ma, al contrario, ha adempiuto alla funzione che più gli stava a cuore: fare crescere le persone, fare crescere il loro senso critico, dare davvero sbocco alle ansie che hanno accompagnato, dalla scelta repubblicana, la nuova Italia. Don Lorenzo avrebbe sorriso di una sua rappresentazione come antimoderno se non medievale. O, all’opposto, di una sua raffigurazione come antesignano di successive contestazioni dirette allo smantellamento di un modello scolastico ritenuto autoritario. Nella sua inimitabile azione di educatore – e lo possono testimoniare i suoi “ragazzi” – pensava, piuttosto, alla scuola come luogo di promozione e non di selezione sociale. Una concezione piena di modernità, di gran lunga più avanti di quanti si attardavano in modelli difformi dal dettato costituzionale».

Ecco: anche Mattarella mette in guardia contro la raffigurazione di don Milani “come antesignano di successive contestazioni dirette allo smantellamento di un modello scolastico ritenuto autoritario”.

Don Lorenzo Milani è stato un privilegiato o un predestinato? Anche il percorso che lo ha portato a scegliere l’abito talare sembra un segno del destino.

Mah… più che un percorso predeterminato dal destino, in questa vicenda vedrei semmai il trionfo della libertà etica della persona umana: la forza morale, la volontà che consente di superare tutti i condizionamenti derivanti dall’educazione ricevuta e dalle altre circostanze sociali. Tutta la vita e l’opera di don Milani è un monumento alla capacità dell’uomo di liberarsi dai condizionamenti esterni e di determinare il proprio destino, la propria sorte.

Certo, nulla nel primo ventennio di vita di Lorenzo Milani poteva far pensare a una scelta religiosa così fortemente caratterizzata: aveva ricevuto il battesimo cristiano per evitare le persecuzioni fasciste per la discriminazione razziale. Nelle sue biografie si legge che si fece prete per colpa del “latte pessimo” della sua balia, Carola Giuliani Galastri, di Poppi: anche lei aveva avuto un figlio che si era fatto frate. Nessuno della sua famiglia partecipò alla cerimonia per la sua ordinazione sacerdotale.

Non è il solo caso conosciuto di conversione, in quegli anni, di una persona di origine ebraica a un cristianesimo integrale. Vedo qualche analogia, per questo aspetto, tra la vicenda di don Lorenzo Milani e quella di Etty Hillesum: una chiesa che curasse di più l’essenza del messaggio evangelico dovrebbe assumerli entrambi come esempi straordinari di incarnazione di quel messaggio nel secolo XX. Ma vedo anche qualche analogia con la vicenda umana di Simone Weil.

Il centenario della nascita di Lorenzo Milani ha visto la pubblicazione di numerosi libri. Tra questi: Riccardo Cesari, Hai nascosto queste cose ai sapienti. Don Lorenzo Milani, vita e parole per spiriti liberi (Giunti Editori, Firenze, 2023); Adolfo Scotto di Luzio, L’equivoco don Milani (Einaudi, Torino, 2023); Mario Lancisi, Don Lorenzo Milani. Vita di un profeta disobbediente. A cento anni dalla nascita(TS Edizioni, Milano, 2023). Le Edizioni San Paolo hanno pubblicato, nel mese di febbraio 2023, in una versione aggiornata, con la prefazione del Cardinale Matteo Maria Zuppi, una raccolta di Lettere a cura di Michele Gesualdi.

Su quest’ultima pubblicazione, però, si registra una controversia circa la titolarità dei documenti contenuti nel volume, che la Fondazione Don Lorenzo Milani rivendica, a mio avviso con pieno fondamento, mentre il libro viene pubblicato sulla base di un atto di disposizione della moglie e della figlia di Michele Gesualdi. La raccolta di tutti questi documenti è stata compiuta dagli allievi di Barbiana uniti nella Fondazione; e lo stesso Michele Gesualdi, che è stato il primo presidente della Fondazione, in diverse pubblicazioni precedenti lo dichiara esplicitamente.

Merita anche segnalare: Lorenzo Milani, Duecento lettere. Nel centenario della nascita (a cura di Adele Corradi, Josè Luis Corzo e Federico Ruozzi) EDB, Bologna 2023. Tu che lo hai conosciuto e frequentato personalmente, che bilancio trai dal rinnovato fervore degli studi su questa figura di primo piano del Novecento italiano?

Il bilancio, pur tra alti e bassi, è complessivamente positivo: alcuni scritti, veramente importanti, fanno fare un passo avanti molto rilevante per una conoscenza più approfondita di quello che sono state la vita e la predicazione di don Milani nella storia recente della Chiesa e nella cultura europea. E anche di quello che ne è conseguito sul piano socio-politico a partire dagli anni Sessanta. Considero tra le pubblicazioni più importanti il libro di Riccardo Cesari – economista e statistico: di tutt’altro mestiere, quindi, rispetto agli altri studiosi della vita e dell’opera del Priore di Barbiana – che fornisce una chiave di lettura in gran parte nuova dell’intera sua eredità; mentre la biografia di Mario Lancisi riorganizza il frutto di diversi suoi studi precedenti, dando conto anche delle diverse fasi della formazione e dell’opera di don Milani. Per altro verso e in altro modo, è importante anche il saggio di Adolfo Scotto di Luzio – storico della pedagogia, delle istituzioni educative e scolastiche –, anche se questo contiene una critica molto corrosiva della predicazione del Priore di Barbiana.

Condivido quello che dici. Quella di Cesari è una «completa, lucida e appassionata ricostruzione della vita del priore», come ha scritto Eraldo Affinati (che ha dedicato, anche lui, studi significativi ai temi trattati in occasione del centenario: primo fra tutti, L’uomo del futuro. Sulle strade di don Lorenzo Milani, Mondadori, Milano, 2017). Molto attento ai particolari e ben documentato (fin troppo, direi), questo libro, trovando il suo autore un filo conduttore tra tutti gli scritti nella denuncia dello scandalo della povertà e della miseria che don Milani aveva scoperto negli occhi dei bambini che frequentavano la scuola di Barbiana.

Il libro di Cesari ha anche il merito di approfondire il confronto tra la predicazione di don Milani e la realtà sociologica ed economica dell’Italia degli anni ’50 e ’60.

Il libro di Scotto di Luzio (che è tornato sul suo pensiero e su quanto ha scritto nella video-intervista rilasciata il 9 giugno 2023 a Norberto Gallo per La Voce della scuola e in un’altra intervista rilasciata il 28 giugno 2023 a Tiziana Morgese, per Orizzontiscuola.it), però, contiene una critica molto corrosiva della predicazione di don Milani: a parte il titolo – L’equivoco don Milani –, che sembra giocare sulla possibilità di intendere la parola “equivoco” come sostantivo o come aggettivo, nella parte finale l’autore trae un bilancio pesantemente negativo dell’eredità politico-sociale riconducibile, in particolare, alla Lettera a una professoressa.

Al netto del titolo, questo libro è molto importante innanzitutto perché rispecchia una conoscenza approfondita di tutti gli scritti di e su don Milani, giungendo a mettere in luce anche alcuni aspetti della sua vicenda intellettuale che nessun altro – per quel che mi risulta – aveva rilevato; inoltre, perché propone un ragionamento originale e molto intelligente sul rapporto tra scuola e cultura (popolare e no). La critica che mi sento di muovere alla tesi svolta nella seconda metà del saggio è che essa, a ben vedere, ha per oggetto non tanto la predicazione del Priore di Barbiana, quanto semmai l’uso che ne è stato fatto sul piano politico e sul piano amministrativo, cioè su quello della concreta riforma della scuola media inferiore, dal ’68 in poi.

Puoi spiegare meglio questo punto?

L’intendimento originario di tutta l’opera di don Milani è di natura essenzialmente teologico-evangelica (l’amore per il prossimo come manifestazione di Dio su questa terra) ed etica: non c’è una sola parola di argomento politico, detta o scritta da lui, che non si collochi nell’ambito di un discorso eminentemente etico e di fede cristiana. Non è sbagliato affermare che nella sua predicazione sono espliciti il contenuto “classista” e anche quello lato sensu “comunista”; ma il suo classismo è di natura etica, prima e più che politica: risponde al dovere di dividere il pane con chi non ce l’ha; e il “comunismo” di don Milani, molto più radicale di quello predicato e praticato dallo stesso Partito comunista, non è un progetto politico di organizzazione della società: è la conseguenza rigorosa, applicata al comportamento di ogni persona, di un precetto della più genuina morale cattolica. A chi gli obiettava che la morale cattolica riconosce il diritto di proprietà privata, don Lorenzo rispondeva con la massima di Tommaso d’Aquino: «In extremis omnia sunt communia»; e – l’ho sentito dalle sue labbra – aggiungeva: «Tutto sta nello stabilire qual è l’extremum; non puoi stabilirlo stando al calduccio a casa tua; il Vangelo ti impone di stabilirlo mettendoti nei panni del prossimo, di chi soffre, di chi non ha nulla, di chi ha paura; solo così ti accorgi che l’extremum è qui e ora».

Innamorato di Dio e dei poveri, un prete “disubbidiente”, un maestro straordinario (per usare alcuni concetti espressi da Lancisi). Ma di quale scuola? A Scotto di Luzio fa scandalo la sua scuola, ma non la povertà e l’arretratezza dei parrocchiani di Barbiana. È, questo, un giudizio, che mi sembra di poter riservare anche alle due recensioni, adesive, che hanno accompagnato il libro di Scotto di Luzio, enfatizzando la sua analisi: quella apparsa sul Corriere della Sera del 1° giugno 2023, a firma di Ernesto Galli della Loggia, Don Milani capovolto, e quella pubblicata sul Il Sole 24 Ore dell’11 giugno 2023, a firma di Gabriele Pedullà, Don Milani al di là del conformismo.

È facile “capovolgere” don Milani, confrontando il suo messaggio con il modo in cui è stato recepito e attuato; confrontando cioè il suo ideale di uguaglianza e la sua idea di scuola come strumento per costruirla con il degrado e l’inadeguatezza della scuola pubblica italiana a svolgere questa funzione, a più di mezzo secolo dalla pubblicazione di Lettera a una professoressa. Ma questo paradosso non è la conseguenza di un difetto dell’idea fondamentale predicata dal Priore di Barbiana; è la conseguenza di una riforma della scuola gravemente carente sotto il profilo della formazione dei docenti e del monitoraggio dei risultati dell’insegnamento: difetti che non vedo come possano essere addebitati a quell’idea originaria. Si è pensato – come troppo spesso accade nel nostro Paese – che bastassero le norme sulla riforma scolastica pubblicate nella Gazzetta Ufficiale: il problema maggiore è invece l’organizzazione amministrativa e la strumentazione del nuovo colossale organismo cui la riforma intendeva dare vita. È stato gravemente sottovalutato il problema dell’implementazione. Il solo egualitarismo che si è attuato in concreto è quello che riguarda il trattamento degli insegnanti, indipendentemente dalla loro competenza, dal loro impegno personale, dalla loro diligenza, intesa nel senso originario del diligere, ovvero dell’amare il proprio lavoro e i suoi destinatari.

Sul tema della riforma della scuola, però, Scotto di Luzio muove a don Milani una contestazione radicale: per svolgere la propria funzione di equalizzazione delle dotazioni di partenza, la scuola pubblica, per sua stessa natura, deve trasmettere una cultura “altra” rispetto a quella originariamente propria dei figli del popolo. Negando questa funzione della scuola, pretendendo che la scuola coltivi solo la “cultura dei poveri”, cioè le risposte che il popolo dà ai problemi della vita quotidiana, la predicazione milaniana si contrapporrebbe radicalmente all’idea stessa che è alla base della scuola pubblica.

Questa critica coglie nel segno soltanto in riferimento ad alcuni passaggi, alcuni argomenti utilizzati in modo un po’ provocatorio in Lettera a una professoressa per evidenziare certe astrattezze dei contenuti dell’insegnamento impartito nella scuola pubblica. Ma non sta lì la parte essenziale né del messaggio contenuto nella Lettera, né del modello di scuola cui don Milani ha concretamente dato vita a  Barbiana: una scuola, la sua, nella quale si imparava, sì a usare la pialla, la sega e il tornio, ma si studiavano – oltre all’italiano e alla matematica – anche l’astronomia, la musica classica, la pittura, le lingue straniere; si leggevano i giornali per confrontarne criticamente i contenuti; si consultavano i dizionari alla ricerca del significato di parole inusuali; si esercitava la curiosità in tutte le direzioni. Certo, era un insegnamento “classista”, nel senso che era fortemente ispirato dall’intendimento di tirar fuori gli appartenenti alla classe più povera dalla loro condizione di inferiorità, liberarli dalla timidezza rispetto alla classe privilegiata, dotarli degli strumenti necessari per emanciparsi. Prima fra tutti questi strumenti la padronanza del linguaggio. Ma non per questo il contenuto di ciò che si insegnava nella piccola aula della pieve di S. Andrea era meno universale. Se la cultura è la risposta di una società ai problemi della propria esistenza, quella che don Milani trasmetteva a Barbiana era “cultura” nel senso più pieno e universale del termine.

Sta di fatto che lui imputava alla cultura trasmessa nella scuola pubblica di essere concepita per escludere e non per rendere eguali. Scotto di Luzio sostiene che questa tesi di don Milani finisce col negare alla radice la funzione della scuola pubblica, cioè quella di trasmettere una cultura nazionale tendenzialmente universale.

Se riferita al nucleo essenziale della tesi sostenuta in Lettera a una professoressa, mi sembra che questa critica non tenga conto di che cosa era realmente la scuola media prima della riforma avviata nel 1963. Chiunque l’abbia frequentata, come è accaduto a me (e proprio negli anni immediatamente precedenti a quelli in cui è nato quel libro), sa quanto essa fosse ferocemente classista, fatta per selezionare e non per equalizzare le dotazioni di partenza degli allievi. La mia classe era composta da 31 ragazzi in prima media, dei quali solo 13 arrivarono alla fine della terza. Di “Gianni” bocciati dalle mie severissime professoresse di lettere e di matematica ne ho conosciuti personalmente 18 e ho ancora ben presenti i loro volti e le loro condizioni sociali: erano il figlio della portinaia di piazza Conciliazione, del ciabattino di via Marghera, della lattaia di via Pier Capponi e così via. Non solo le materie insegnate, ma anche il metodo dell’insegnamento pareva studiato in funzione della selezione: presupponeva che l’allievo avesse alle spalle una famiglia colta, genitori che lo aiutassero nei compiti, una casa dotata di libri e adatta allo studio pomeridiano. Per questo mi sembra davvero sbagliato sostenere, come fa Scotto di Luzio a conclusione del suo saggio, che – morto don Milani – della Scuola di Barbiana non sia rimasto nulla; la nostra scuola dell’obbligo è in gran parte figlia di quella esperienza, quanto meno nel suo intendimento fondamentale, cioè quello della costruzione della parità delle opportunità. Che poi questo intendimento sia stato e venga tuttora di fatto diffusamente tradito per il modo in cui la scuola media unificata effettivamente funziona, per come i suoi dirigenti e i suoi insegnanti interpretano la loro missione, questo davvero non può essere imputato a don Milani.

Dunque, non condividi la tesi conclusiva del saggio di Scotto di Luzio secondo cui, dopo la morte del maestro, della Scuola di Barbiana non è rimasto nulla e i suoi allievi si sono ridotti ad amministrarne la memoria, un perenne e nostalgico amarcord?

Non vorrei che il mio dissenso possa apparire come una svalutazione di questo saggio, che – lo ripeto – considero tra gli studi più acuti e stimolanti usciti su don Milani in questo anno del centenario della sua nascita, scritto da uno tra i maggiori conoscitori della sua vita e della sua opera. E tuttavia, proprio per il carattere radicale della critica che contiene, esso ci aiuta a liberare il discorso sul Priore di Barbiana dai toni agiografici che prevalgono in tanti altri scritti, a rivivere per intero le asprezze e le durezze della sua predicazione; e anche a metterne a fuoco i limiti e i difetti: lo stesso don Milani era ben consapevole del nesso che legava strettamente la sua predicazione al suo tempo. Però la tesi conclusiva di Scotto di Luzio secondo cui dell’esperienza della Scuola di Barbiana non sarebbe rimasto in piedi nulla e il messaggio di Lettera a una professoressa si sarebbe rivelato del tutto sterile mi sembra davvero non sostenibile. È vero che a quel messaggio non ha giovato la lettura prevalente che ne è stata data nel Sessantotto e poi nel corso degli anni Settanta: in altre parole, non gli ha giovato un certo “donmilanismo” che è venuto diffondendosi. Ma non mi sembra che si possa ragionevolmente negare il valore e la modernità della tesi fondamentale di don Milani: quella secondo cui la vera emancipazione dei poveri sta nell’apprendimento della lingua, nell’appropriarsi della cultura e dei suoi strumenti, più e prima che nell’appropriarsi dei mezzi di produzione. Non mi sembra che si possa ragionevolmente negare l’impatto dirompente che questo messaggio ha avuto sulla cultura dell’intera Europa: prova ne sia la citazione che ne ha fatto ultimamente la Presidente della Commissione UE Ursula Von der Leyen. Del resto, quel messaggio non riguarda soltanto la missione fondamentale della scuola dell’obbligo; esso ha anche un contenuto particolare riguardante gli insegnanti e il loro compito, che conserva per intero la sua attualità.

A che cosa ti riferisci?

Tutta la vita di don Lorenzo, prima ancora che i suoi scritti, è dedicata a porre in evidenza un carattere essenziale proprio del buon insegnamento: l’amore dell’insegnante per gli allievi, che deve essere almeno pari a quello di un genitore per il proprio figlio. Non è l’amore universale per il genere umano: il Priore di Barbiana chiarisce più volte di essere capace di un amore molto più “piccolo”, limitato ai suoi ragazzi; ma è quello che genera in essi la motivazione a impegnarsi, a superare la fatica, a fare tutto quanto è nelle loro possibilità per soddisfare le attese del maestro. Qui, sì, potrebbe apparire che il messaggio di Lettera a una professoressa sia incompatibile con le caratteristiche della scuola pubblica, la quale è per definizione un’istituzione laica, fondata su meccanismi amministrativi, non su precetti etici. E invece, sorprendentemente, proprio questo aspetto essenziale dell’esperienza della Scuola di Barbiana esprime alla perfezione quello che dovrebbe costituire il nucleo essenziale del compito dell’insegnante nella scuola pubblica.

Stiamo parlando dell’amore evangelico?

No, qualche cosa di più specifico e al tempo stesso più universale; qualche cosa che l’umanità ha conosciuto perfino prima dell’amore evangelico. Parlo dell’amore del genitore per i propri figli. Pochi sanno che già nel diritto romano antico la parola “diligenza”, usata per indicare l’atteggiamento che deve connotare il comportamento di chi adempie una obbligazione contrattuale – quale è anche l’obbligazione lavorativa ed è in particolare quella dell’insegnante – è parola derivata dal verbo diligere, che – come accennavo poc’anzi – significa “amare”; già il diritto romano antico stabiliva che l’adempimento dell’obbligo deve essere ispirato non a una “diligenza” generica, bensì a quella “del buon genitore” (bonus pater familias).Non per un comandamento evangelico, dunque, ma perché lo richiede molto laicamente l’ordinamento dei rapporti civili, ciò che deve animare l’insegnante nei confronti dei suoi allievi è un amore simile a quello che un genitore nutre per i propri figli; e non l’amore di un genitore qualsiasi, ma quello di un buon genitore.

Puoi spiegare meglio questo aspetto?

Per mettere a fuoco la distanza che separa di fatto ancora la scuola dell’obbligo realizzata nell’ultimo mezzo secolo nel nostro Paese dal modello della Scuola di Barbiana da cui come si è visto in qualche modo essa trae origine, basta confrontare la “diligenza” mediamente profusa dagli insegnanti nell’adempimento della loro missione con quella del Priore di Barbiana nell’insegnare ai suoi ragazzi. Sono molti, certo, gli insegnanti che nello svolgere il loro compito esprimono la “diligenza del buon genitore”; ma sono, ahimè, più numerosi gli avari, i pigri, gli sciatti, quelli che coi propri allievi, se va bene, stabiliscono un rapporto di tiepida amicizia ma senza alcun rilevante coinvolgimento emotivo; che non muovono un dito per compensare le disparità profonde tra le famiglie che i loro allievi hanno alle spalle. La scuola stessa, come istituzione, di questo non si mostra preoccupata, non reagisce; non corregge né avarizie, né pigrizie, né sciatterie, bensì accetta che esse appartengano alla propria normalità. Così tradendo la funzione essenziale che le assegna la Costituzione: quella di “rimuovere gli ostacoli” all’eguaglianza sostanziale dei cittadini, quella di costruire la parità delle dotazioni di partenza. In riferimento a questo tradimento ha un senso affermare che della Scuola di Barbiana è rimasto poco; ma solo per dire che, per questo aspetto fondamentale, quel modello è ancora lontano dall’essere realizzato nella maggior parte della scuola pubblica italiana.

Bisogna anche riconoscere il messaggio, fortemente simbolico (anche se, talvolta, politicamente abusato) della cultura solidale espressa dal motto I care, che campeggiava nell’aula di Barbiana: non a caso, come si legge anche nel libro di Lancisi, per Don Milani i luoghi sociali per eccellenza erano, oltre alla scuola, la politica e l’attività sindacale.

“Politica”, per don Milani, è il “venirne fuori insieme” invece che ciascuno per conto proprio. In questo stava il suo “comunismo” e al tempo stesso il nocciolo della sua scuola, del suo insegnamento, che aveva per oggetto essenzialmente il “venirne fuori insieme”, sempre prendendo per mano il più debole, non lasciando indietro nessuno.

Il messaggio di don Milani sulla scuola è rivolto più ai politici che la governano o più agli insegnanti che la fanno vivere giorno per giorno?

È rivolto agli uni e agli altri, a ciascuno per la sua diversa parte di responsabilità. Ma, quale che ne sia il destinatario, il fondamento del suo appello è sempre lo stesso, di natura etica, in difesa dei più poveri e diseredati. E l’indicazione è sempre nel senso di fare della scuola dell’obbligo uno strumento di parificazione delle dotazioni di partenza. Che non significa affatto un pareggiamento del livello dell’istruzione pubblica verso il basso: semmai l’inverso.

Sono, quindi, i presupposti di una scuola laica, che contraddicono le analisi e le valutazioni fatte da Ernesto Galli della Loggia, non solo nella recensione citata all’inizio, ma anche nel suo saggio più importante su questi temi, L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la scuola, Marsilio Editori, Venezia, 2019.

Nel periodo trascorso a Calenzano (quello delle Esperienze pastorali) don Milani guarda alla scuola democratica e popolare secondo il modello fatto proprio dall’ala sinistra della Democrazia Cristiana: è un dossettiano che crede fortemente nella forza trasformatrice del cristianesimo. Qui concordo con Scotto di Luzio e Galli della Loggia. La carica rivoluzionaria e la sua focalizzazione sul ruolo della scuola maturano nell’esilio di Barbiana; ma a questa carica rivoluzionaria – che certamente c’è nell’idea di scuola di don Milani – sarebbe sbagliato attribuire una valenza eversiva nei confronti dell’istituzione scolastica. La “distruzione della scuola” di cui parla Ernesto Galli della  Loggia non la ha causata la Lettera a una professoressa, ma l’abdicazione da parte dello Stato alla propria funzione di garante del perseguimento dei propri obiettivi da parte del sistema scolastico.

Insomma, per dirla con le parole utilizzate da Riccardo Cesari (p. 337), la scuola di Barbiana è stata «un granello di senape nel deserto». La Lettera a una professoressa fu accolta con grande entusiasmo e condivisione, ma anche con molte critiche, non solo negli ambienti cattolici; più di quanto fosse capitato per gli altri scritti (lo stesso Cesari, alle pp. 524 e ss., elenca un nutrito gruppo di detrattori di don Milani e della sua scuola, con dotte spiegazioni a confutazione dei loro severi giudizi critici). Una serie di critiche che sono continuate, nei tempi a seguire, dopo il ’68. Sono critiche che incidono sulla pedagogia, sull’ educazione e il modo di fare scuola, o si tratta, piuttosto, di valutazioni e giudizi di carattere politico?

In questo campo tutto è (anche) politica. È politica la passione per l’emancipazione dei poveri che muove don Milani e che lui si propone di inculcare ai propri seguaci; è politica la lettura parzialmente distorta che del suo messaggio è stata dal movimento studentesco del ’68; è politica la critica di questa lettura parzialmente distorta, che finisce con l’estendersi – indebitamente, a mio avviso – al messaggio originario del Priore di Barbiana. Ed è “politica” anche qualsiasi soluzione del problema di come fare scuola, se si vuole realizzare l’obiettivo di farne il luogo e lo strumento principale di costruzione dell’uguaglianza e della libertà delle persone.

Non può essere rimproverato al don Milani del suo tempo quello che è diventato dopo il suo tempo: mito e simbolo della cultura dell’opposizione e della minoranza; una “presenza postuma”, come la definisce Scotto di Luzio, quella di un don Milani al quale si può far dire qualunque cosa, nell’ambito, però, di un dibattito al quale lui non ha potuto partecipare. Trovo, peraltro, davvero ingenerosa la critica di Scotto di Luzio per il fatto che don Milani (a suo dire citato molto ma letto poco) sia diventato mito dell’ufficialità. I riferimenti, impliciti, sono, di tutta evidenza, a quello che è successo dopo la sua morte: dal costante riferimento al suo modello di scuola nel corso degli anni, alla visita, e al discorso, di Papa Francesco sulla sua tomba nel piccolo cimitero di Barbiana il 20 giugno 2017 (non per caso, risale allo stesso giorno la visita, e il discorso, a Bozzolo, diocesi di Cremona, sulla tomba di don Primo Mazzolari) e alle numerose cerimonie per il centenario della nascita, che hanno visto, il 27 maggio 2023, la presenza a Barbiana, tra gli altri, del Presidente della Repubblica, dell’On. Rosy Bindi (nella sua qualità di Presidente del Comitato per il centenario), dei Cardinali Zuppi e Betori. Ufficialità della Repubblica Italiana, ma anche della Chiesa (dalla quale, comunque, don Milani non è mai uscito).

I profeti sono sempre molto scomodi per le istituzioni finché sono in vita, più facilmente inquadrabili nella cultura istituzionale quando non possono più parlare e della loro predicazione si può fare una citazione selettiva. Non è questo il caso del Papa, né del Presidente Mattarella, nei loro pellegrinaggi a Barbiana del 2017 e del 2023; ma nessuna delle due grandi istituzioni che essi rispettivamente rappresentano può dire di avere per davvero fatto proprio il messaggio cruciale contenuto in quella predicazione.

Tu hai conosciuto e frequentato di persona don Lorenzo Milani. Ci racconti come è accaduto?

Lui da ragazzo frequentò il liceo artistico di Brera, dove incontrò la cugina di mia madre Carla Sborgi, sua coetanea, e attraverso di lei mia madre, con la quale pure ci fu qualche frequentazione fino a quando, dopo lo scoppio della guerra, la famiglia di lei – ebrea – dovette nascondersi in montagna per sfuggire alla deportazione e lui entrò in seminario per farsi sacerdote. In quegli anni Lorenzo si era legato sentimentalmente a Carla, ma forse era stata lei a legarsi di più a lui. Fatto sta che fra di loro rimase una forte amicizia; e sul letto di morte lui la presentò agli allievi che aveva intorno dicendo “Questa è la sola persona a cui ho fatto del male”. Perché lei aveva sofferto molto della sua decisione di entrare in seminario. Quando, nel 1958, era uscito il primo libro di don Lorenzo, Esperienze pastorali, lui ne aveva inviato a lei una copia, che lei aveva prestato a mia madre. I miei genitori, attivi nel mondo cattolico progressista milanese, lessero il libro con entusiasmo e ne acquistarono 250 copie per distribuirle nei gruppi del Gallo, di Adesso e di Rinascita Cristiana, dei quali facevano parte, e nell’ambito dell’associazione Corsia dei Servi (dove qualche anno prima era approdato padre David Maria Turoldo, anche lui esiliato da Firenze su indicazione del Cardinale Alfredo Ottaviani).

Un gesto assai significativo, se si considera la disapprovazione del libro da parte della Chiesa “ufficiale”, condivisa financo da una parte della cultura liberale. Cito, fra tutti, l’articolo L’apocalisse di don Milani, pubblicato sul Corriere della Sera del 28 dicembre 1958 da Indro Montanelli (che molti anni dopo si ricrederà, chiedendosi cosa aspettasse la Chiesa a farlo santo).

Considero quella recensione, nella quale le Esperienze pastorali venivano liquidate come “baggianate, che non vale nemmeno la pena di confutare”, come l’espressione del peggiore giornalismo di Indro Montanelli: superficiale, arroccato in difesa di un quieto vivere borghese metropolitano contro qualsiasi tentativo delle “periferie” di farsi sentire, che non bastano i “dubbi” finali a riscattare. Ma torniamo alla vicenda della “diffusione militante” di quel libro da parte dei miei genitori: l’editore informò l’autore dell’acquisto di molte copie da parte di una lettrice milanese e così, quindici anni dopo la traumatica interruzione della sua relazione affettiva con  Carla, mia madre e don Lorenzo tornarono a parlarsi per telefono.

E non solo per telefono, come ho letto.

Lui raccontò del suo esilio a Barbiana a mia madre, che gli chiese che cosa potesse fare per dargli una mano. Don Lorenzo chiese l’invio di libri per la sua scuola; e poco dopo chiese ospitalità per portare i suoi primi sei allievi a visitare Milano. Detto fatto, nell’aprile del 1959 le mie sorelle vennero spedite a dormire dai nonni, a casa nostra venne steso qualche materasso aggiuntivo per terra e una sera don Lorenzo arrivò da Barbiana con Aldo Bozzolini, Agostino Burberi, Giancarlo Carotti, Michele Gesualdi, Silvano Salimbeni e Giancarlo Tagliaferri. Nella settimana che passarono a Milano io venni esentato dalla scuola e mi aggregai a loro nella visita della città e di due delle sue fabbriche, la Pirelli e la Siemens. In seguito, noi andammo a Barbiana più volte e qualche volta anche lui venne a Milano ospite da noi.

La gita a Milano  è descritta molto bene, oltre che nel tuo La casa nella pineta, da Cesari (pp. 338 e ss.), che riferisce, in un altro passo del suo libro (p. 345) i sentimenti di gratitudine di don Lorenzo per Elena Pirelli Brambilla e i tuoi genitori, per aver aiutato i suoi ragazzi e averli amati «con affetto silenzioso e ritirato».

Sì; ma le sue lettere non esprimevano soltanto questa gratitudine, che pure c’era ed era viva: lui non lesinava mai, neanche nelle occasioni di un ringraziamento per l’ospitalità o il sostegno ricevuto, il sale e il pepe della sua critica nei confronti del nostro “vivere borghese”. Ed era ben consapevole della irritualità di questo coniugare il “grazie” con un “non credete però, con questo, di esservi sdebitati compiutamente”; e si giustificava aggiungendo: “se tacessi perché vi sono grato non vi farei un buon servizio!”.

Il rapporto con i tuoi genitori è legato solo a questi episodi?

No: tra lui e loro si instaurò una corrispondenza abbastanza frequente: per questioni pratiche relative al funzionamento della scuola e ai viaggi dei ragazzi, che lui ha sempre promosso con grande impegno, considerandoli essenziali per la loro formazione; ma anche per qualche grana legale in cui incorrevano i genitori dei ragazzi o altri parrocchiani, per la quale lui chiedeva aiuto a mio padre; e per i guai giudiziari che seguirono alla pubblicazione della sua Lettera aperta ai cappellani militari. Quella, come la Lettera ai giudici sullo stesso tema, noi le leggemmo in anteprima, battute a macchina su fogli di carta velina che lui aveva inviato ai miei genitori per sentirne il parere.

Un manifesto contro la guerra e a favore dell’obiezione di coscienza, che qualche anno dopo diventerà legge dello Stato.

Pensare che una persona ha potuto essere incriminata per aver scritto quello che don Lorenzo scrisse in quella Lettera aperta dà la misura dell’arretratezza politico-culturale in cui versava il nostro Paese negli anni ’60. Gli odierni critici della sua predicazione e del suo operato sembrano non rendersene conto.

Nella scuola di Barbiana eri Pierino, il primo della classe che non ha problemi a scuola; ma il Priore trepidava per Gianni, che veniva immancabilmente bocciato. Per gli studenti di buona famiglia borghese, colta e ricca, vale il punto di arrivo; per quelli poveri, di famiglie contadine e operaie, è sufficiente l’impegno messo per superare il punto di partenza per non essere bocciati. È una semplificazione che troviamo nell’analisi di Scotto di Luzio. È così?

Scotto di Luzio rimprovera al Priore di Barbiana di trepidare, sì, per tutti i Gianni della terra, ma di non avere ottenuto e lasciato loro in eredità niente di concreto che in qualche modo possa migliorare la loro condizione. A me sembra, invece, che quanto don Milani ha fatto e ha scritto abbia contribuito in modo decisivo al superamento del modello di scuola media dominante in Italia ancora alla metà degli anni ’60; che poi il modello costruito in sua sostituzione sia ancora molto difettoso è verissimo, ma non riesco a vedere come i suoi difetti possano essere imputati alle idee di don Milani.

Nel suo libro (p. 16) Lancisi, per meglio far capire il pensiero di don Milani sulla scuola, riporta quanto lui stesso ti disse in una delle vostre frequentazioni: «Scrivi bene, ma usi troppi aggettivi; gli aggettivi sono come il belletto che usano le donne per sembrare più belle; se vieni a Barbiana ti insegno a scrivere acqua e sapone, andando al cuore delle cose, senza belletto». È questo il significato della «scuola» di Barbiana? È questa la lezione di don Milani?

No: questo è soltanto un piccolo dettaglio di quanto lui insegnava. È, però, significativo della differenza tra l’italiano che mi veniva insegnato a scuola e quello che intendeva lui: il primo, una lingua strutturata per costruire belle strutture di parole con cui fare bella figura, mostrando la propria padronanza del lessico in tutta la sua ricchezza; il secondo, una lingua funzionale a comunicare in modo incisivo cose duramente concrete e utili per vivere meglio. Nel primo la ricerca della bellezza della scrittura, nel secondo la ricerca della risposta ai problemi che la vita pone quotidianamente.

Chi legge il tuo libro La casa nella pineta. Storia di una famiglia borghese del Novecento (Giunti Editore, Firenze, 2018) ha la chiara percezione che ci fosse un’affinità di fondo tra la tua famiglia e quella di don Lorenzo Milani. È così?

Certo, di affinità ce n’erano diverse: entrambe famiglie borghesi e benestanti; entrambe molto attente alla questione sociale; entrambe di origine ebraica; mia madre e suo fratello, come lui, battezzati in età adulta. Ma l’affinità che ha più colpito me e le mie sorelle è quella tra un atteggiamento di don Lorenzo subito dopo l’esilio a Barbiana e un insegnamento che la nostra nonna, Paola Pontecorvo, ci ha sempre ripetuto quando ci siamo trovati di fronte a sconfitte, incidenti di percorso, eventi sfortunati: “non puoi sapere se quel che ti accade è per il tuo bene o per il tuo male; anche perché se sarà per te fonte di bene o di male dipende per la maggior parte da te”. Quando venne spedito dall’arcivescovo di Firenze nel “non luogo” di Barbiana, don Milani rifiutò di considerare quell’assegnazione come una pena da scontare nel più breve tempo possibile, per poi voltar pagina: decise invece che lì avrebbe trascorso la parte più importante e più significativa della sua vita; e per porre un sigillo su questa decisione si affrettò ad acquistare dal Comune di Vicchio lo spazio di una tomba nel minuscolo cimitero situato subito sotto la pieve di S. Andrea. Poi fu capace di compiere il miracolo, trasformando il “non luogo” della sua punizione nel luogo di un’esperienza straordinaria, che sarebbe stata conosciuta in tutta Europa e anche oltre oceano. Per noi ragazzini questa sua scelta e il miracolo che ne è seguito era la più straordinaria conferma dell’insegnamento della nonna Paola: “se sarà per il tuo bene o per il tuo male dipende per la maggior parte da te”.

Nel 1959 avevi dieci anni. Quando don Milani è morto ne avevi diciotto. Quanto ha inciso l’averlo conosciuto e frequentato sulle scelte della tua famiglia? E quanto, in particolare, su quelle che tu hai compiuto al termine della tua adolescenza?

Sulle scelte compiute dai miei genitori, da mia madre soprattutto, incise davvero molto e profondamente: subito dopo l’istituzione dell’“adozione speciale”, che avrebbe dovuto svuotare gli orfanotrofi, lei si dedicò anima e corpo, con un gruppo di altre volontarie, al lavoro presso il Tribunale dei Minorenni perché il dettato legislativo venisse attuato effettivamente e alla diffusione dello stesso modello organizzativo presso altri Tribunali in tutta Italia; e in quel lavoro rientrava anche assai spesso il prendersi in casa i bambini che tardavano a essere scelti dalle famiglie adottive o affidatarie. Quanto a mio padre, la svolta nella sua vita in risposta alla predicazione di don Milani fu meno evidente; ma nel libro che hai citato mi sono proposto di mostrare come, per certi aspetti, quella predicazione abbia influito sulle sue scelte di vita non meno incisivamente che su quelle di mia madre.

E sulle scelte tue?

La mia adolescenza è stata segnata profondamente dall’avvertimento che don Lorenzo mi rivolse quando avevo 12 anni, riferendosi alla casa e agli agi in cui vivevo e soprattutto all’abbondanza di libri, di istruzione e di cultura di cui beneficiavo: «Per ora tutto questo non è peccato; ma da quando compirai 21 anni [allora era questa l’età della maturità], se non restituisci tutto diventa peccato»; ed è stata dedicata in gran parte a rimuginare su come adempiere questo comandamento, che lui stesso concretizzava nell’alternativa: «o fai l’insegnante, o il sindacalista». Finii con lo scegliere di fare il sindacalista e a vent’anni andai a lavorare alla Fiom-Cgil, rinunciando a entrare nello studio legale di cui i miei nonni materni e i miei genitori erano titolari. Ma uno dei temi de La casa nella pineta è quello del privilegio dal quale neppure con quella scelta sono riuscito a liberarmi: anche in seno al sindacato io ero il “bun de pena” (buono con la penna), quello che sapeva leggere, scrivere, parlare con i giudici e gli avvocati. Quello che organizzava il corso di diritto del lavoro per i delegati. Di questo privilegio non mi sono mai liberato; e lungo tutto l’arco della vita adulta ogni rinuncia compiuta in funzione del lavoro nel sindacato in quel primo decennio mi è tornata a credito raddoppiata.

Nel 1959 don Milani scrisse a tuo padre una lunga lettera che prendeva spunto dal licenziamento di un operaio della Pirelli per sostenere che il licenziamento doveva essere vietato perché è come una pena di morte; e la pena di morte non si deve infliggere neanche agli assassini. Sembra che l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori abbia costituito la risposta positiva del legislatore all’invettiva di don Milani contro la libertà di recesso del datore di lavoro. Come si concilia questo suo insegnamento con le tesi che tu hai incominciato a sostenere già negli anni ’80 e hai poi sviluppato compiutamente nei due decenni successivi, circa la necessità di superare l’articolo 18 nell’ordinamento italiano?

La risposta a questa domanda si trova nel testo stesso di quella lettera, nella quale don Milani condanna l’istituto del licenziamento: «Un atto feudale. […] Nessun motivo può intaccare i principî che un licenziamento viola. È un processo senza le garanzie che il diritto romano aveva, credo, introdotte già nel periodo repubblicano cioè prima di Cristo (te lo saprai preciso). Ma ora son passati venti secoli e il nostro senso della fraternità evangelica è stato raffinato da Dio in mille maniere. […] Per cui oggi p. es. la pena di morte che san Tommaso giustificava non trova più diritto di cittadinanza né nel nostro cuore né nel nostro cervello. E neanche un’infinità d’altri concetti antichi non valgono più o stanno disgregandosi ai nostri occhi cui Dio paternamente va allargando giorno l’orizzonte. Licenziamento è uno di questi concetti che appartenevano al mondo feudale e derivavano dall’art. 3 del codice di diritto penale della giungla».

Quello di don Milani era il rifiuto dell’assoggettamento della persona che lavora a una forma di arbitrio signorile. E il discorso si collocava in un contesto nel quale la persona licenziata aveva diritto a un’indennità di disoccupazione di entità e durata minime, con una prospettiva di durata lunga della disoccupazione. L’articolo 18 ha avuto il significato di un voltar pagina rispetto a quella situazione, all’indomani dell’autunno caldo del ’69. Ma resto convinto che non fosse quello il modo giusto di voltar pagina; e che quel modo non sarebbe piaciuto neanche a don Milani. Perché il regime di job property che da quella norma è sostanzialmente derivato nel settore privato non era suscettibile di essere esteso a tutti i lavoratori dipendenti: di fatto si è applicato soltanto a una metà di essi, scaricando tutto il peso della flessibilità di cui il tessuto produttivo aveva bisogno sull’altra metà; don Milani non avrebbe mai approvato una norma che opera necessariamente solo a favore di una parte dei lavoratori, gli insider, escludendone un’altra parte, gli outsider. Poi perché l’ingessatura dello stesso tessuto produttivo che ne derivava non faceva bene né alle imprese né ai loro dipendenti.

Oggi si parla molto di «merito», con enfasi valorizzato in ogni occasione (strumentalmente, a mio avviso), tanto da comparire anche nella denominazione dell’attuale Ministero dell’Istruzione, che, non per caso, è stata privata dell’aggettivo “pubblica”. Qual è la tua opinione in proposito?

A questo proposito, però, ricordo che don Milani ha detto: “Cari insegnanti io vi pagherei a cottimo, anzi no! Multa per ogni ragazzo che non impara una materia. Così vi svegliereste la notte a pensare al metodo migliore per insegnare anche ai ragazzi difficili, e se uno di loro non torna a scuola andreste a casa a cercarlo”. Per questo motivo non capisco la levata di scudi dell’opposizione di sinistra contro la rivalutazione del merito nella scuola, nella quale mi è parso di vedere più una reazione faziosa che la difesa di un principio “di sinistra”. È merito degli insegnanti insegnare bene, con passione e amore per i propri allievi; una scuola degna di questo nome non può essere indifferente al merito dei propri insegnanti, non può, per questo aspetto, fare…  parti eguali tra diseguali senza tradire la propria missione e infliggere perdite irreparabili ai propri utenti più deboli, ai diseredati dei quali dovrebbe ricostituire l’eredità. È merito degli allievi impegnarsi al massimo delle loro possibilità nello studio, consapevoli di ciò che questo significherà per il loro futuro; una scuola degna di questo nome non può essere indifferente all’impegno dei propri allievi senza venire meno al proprio compito educativo e trasmettere loro un messaggio di disimpegno, sciatteria, disponibilità allo spreco (esattamente il messaggio che troppi insegnanti, ahimè, trasmettono con il loro comportamento quotidiano nella nostra scuola). Per questo motivo, francamente, non ho nulla contro l’inserimento della parola “merito” nel nome del dicastero competente; inserimento che, nella scuola dell’obbligo, non può significare certo una rivalutazione dell’istituto della bocciatura come strumento di selezione. Di selezione, sia pure indirettamente, parla invece l’articolo 34 della Costituzione quando fa riferimento a “capacità e merito” come criteri per l’attribuzione del diritto della persona ad accedere ai gradi più alti dell’istruzione: ma qui si parla, appunto, dell’istruzione superiore, per la quale anche don Milani riconosceva che potesse applicarsi qualche criterio selettivo.

Sei ancora in contatto con i ragazzi di Barbiana con i quali ti incontrasti all’età di dieci anni?

Soprattutto con due di loro: Agostino Burberi e Aldo Bozzolini. Collaboro con loro e con la Fondazione don Lorenzo Milani, cui hanno dato vita. Michele Gesualdi, che ne è stato presidente per molti anni, è morto alcuni anni fa. Ora è sorta la controversia di cui ho fatto cenno sopra, tra la Fondazione e le eredi – moglie e figlia – di Michele, in merito alla titolarità di una parte rilevante dell’archivio. La speranza è che a Barbiana prevalga il buon senso, il rispetto della memoria del Priore, il senso della responsabilità comune di tutti per la conservazione di questo patrimonio culturale per le generazioni future e la diffusione della sua conoscenza.

Nell’introdurre la sua Lettera ai Giudici il Priore di Barbiana descrive la sua scuola con queste parole: «La mia è una parrocchia di montagna. Quando ci arrivai c’era solo una scuola elementare. Cinque classi in un’aula sola. I ragazzi uscivano dalla quinta semianalfabeti e andavano a lavorare. Timidi e disprezzati. Decisi allora che avrei speso la mia vita di parroco per la loro elevazione civile e non solo religiosa. Così da undici anni in qua, la più gran parte del mio ministero consiste in una scuola. Quelli che stanno in città usano meravigliarsi del suo orario. Dodici ore al giorno, 365 giorni l’anno. Prima che arrivassi io i ragazzi facevano lo stesso orario (e in più tanta fatica) per procurare lana e cacio a quelli che stanno in città. Nessuno aveva da ridire. Ora che quell’orario glielo faccio fare a scuola dicono che li sacrifico. La questione appartiene a questo processo solo perché vi sarebbe difficile capire il mio modo di argomentare se non sapeste che i ragazzi vivono praticamente con me. Riceviamo le visite insieme. Leggiamo insieme: i libri, il giornale, la posta. Scriviamo insieme».

Don Lorenzo Milani. Sacerdote e maestro. Un testimone del suo tempo, che interpella, anche ora, ciascuno di noi.

 

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[1] I tre libri di Don Lorenzo Milani sono stati pubblicati (e continuano ad essere pubblicati) da una piccola casa editrice di Firenze, la LEF-Libreria Editrice Fiorentina dei fratelli Vittorio e Valerio Zani.

A cinquant’anni dalla morte, tutte le opere sono state pubblicate nell’Edizione nazionale diretta da Alberto Melloni, a cura di Federico Ruozzi e di Anna Carfora, Valentina Oldano, Segio Tanzarella, Mondadori, Milano, 2017, in due tomi della prestigiosa collana I Meridiani. Classici dello Spirito.

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