LE TRE GRANDI SFIDE PER IL SINDACATO CONFEDERALE

Per un verso il cambiamento del paradigma del mercato del lavoro e l’accelerazione dell’evoluzione tecnologica con l’automazione e l’intelligenza artificiale, per altro verso la stagnazione della produttività media del lavoro degli italiani, richiedono un profondo rinnovamento della strategia per l’emancipazione del lavoro nel secolo XXI

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Comunicazione all’Assemblea Nazionale della FIR-Cisl, svoltasi a
Frascati il 10 novembre 2023 – In argomento v. anche il mio articolo Sette punti per il patto proposto da Draghi .

 

Questo incontro si svolge in un momento in cui si manifestano con particolare intensità alcuni mutamenti profondi del contesto in cui il nostro sistema delle relazioni industriali opera.

  1. È mutata radicalmente la struttura del mercato del lavoro: perdurano un tasso di disoccupazione superiore a quello fisiologico e un tasso di disoccupazione giovanile decisamente anomalo, ma non per carenza della domanda; al contrario, quote sempre maggiori di domanda espressa dal tessuto produttivo restano insoddisfatte (Unioncamere-Anpal: quasi 50% in termini di flusso!), evidentemente a causa di un grave difetto della rete dei servizi al mercato del lavoro: in particolare orientamento, incontro D/O, formazione mirata agli sbocchi effettivi, monitoraggio dell’efficacia della f.p., assistenza alla mobilità professionale e geografica delle persone. Il problema principale, nel funzionamento del nostro mercato del lavoro non è più la distorsione che caratterizzava il mercato del lavoro all’indomani della rivoluzione industriale: la disfunzione che lo caratterizza oggi è qualche cosa di molto diverso.

Dobbiamo chiederci che cosa questo implichi per il sindacato che intenda fare bene il proprio mestiere in questo nuovo contesto.

  1. Con l’avvento dell’automazione e dell’intelligenza artificiale, accelera fortemente il ritmo del progresso tecnologico e conseguentemente il ritmo di obsolescenza delle tecniche applicate: se nel secolo passato ci sono voluti cinquant’anni per far sparire l’80 per cento dei mestieri esistenti all’inizio del secolo (contadini e braccianti, lavandaie, maniscalchi, lampionai, carrettieri, scrivani e dattilografi/e, ecc.), oggi la prospettiva è che una percentuale analoga dei mestieri esistenti scompaia nell’arco di non più di un quarto di secolo. E l’osservazione del fenomeno ci dice che le nuove tecnologie azzerano la domanda di vecchie competenze, ma producono con la stessa velocità la nascita e crescita veloce della domanda di competenze nuove. Donde una drammatica accentuazione della necessità di servizi di orientamento, informazione, formazione mirata agli sbocchi effettivamente esistenti, assistenza alla transizione professionale e geografica delle persone.

Anche a questo proposito dobbiamo chiederci che cosa questo implichi per il sindacato che intenda fare bene il proprio mestiere in questo nuovo contesto.

  1. In Italia sembra essersi drammaticamente interrotta la tendenza alla crescita della produttività del lavoro: tutta la crescita del nostro PIL è data dall’aumento del numero degli occupati e del tasso di occupazione, ma ormai da un quarto di secolo la produttività ristagna e conseguentemente ristagnano i livelli retributivi.

Ancora una volta dobbiamo chiederci che cosa questo implichi per il sindacato che intenda fare bene il proprio mestiere: quale strategia esso debba mettere in campo per curare questa vera e propria malattia del sistema, che si traduce in aumento della quota di lavoro povero.

Un sindacato moderno e pragmatico, impegnato a guardare in faccia la realtà senza gli occhiali di vecchie ideologie, deve affrontare apertamente queste tre emergenze dotandosi di una strategia che sia all’altezza delle sfide che ne derivano. Deve farlo riscoprendo la propria vocazione originaria e reinterpretandola in relazione ai nuovi segni dei tempi. Mi riferisco le due idee espresse ormai più di 70 anni or sono in un breve saggio di straordinaria importanza, che ogni sindacato degno di questo nome dovrebbe assumere come proprio manifesto: il libro pubblicato nel 1951 da Frank Tannenbaum, intellettuale statunitense e militante di tante lotte per la libertà e il progresso sociale, Una filosofia del sindacato (tradotto in italiano trent’anni fa proprio dalla casa editrice della Cisl). Le due idee centrali espresse nel saggio sono queste:

– tra impresa e lavoro non può esserci antagonismo, perché non può esserci buon lavoro senza buona impresa, e al contempo non può esserci buona impresa senza buon lavoro;

– l’impresa (ma anche l’intero sistema produttivo) non può produrre tutto il benessere di cui è capace se non “internalizza” nel proprio bilancio gli interessi dei propri dipendenti, e possibilmente anche gli interessi della collettività che la circonda; per questo il sindacato è fattore essenziale del successo dell’impresa: perché soltanto il sindacato, attivando la partecipazione dei lavoratori nell’impresa e dove possibile rappresentando in seno ad essa la voce della collettività circostante, può dare all’impresa ciò che essa da sola non si può dare: cioè un’anima!

Ecco, questa è la chiave di lettura essenziale, relativamente antica eppure ancora attualissima, del ruolo che il sindacato deve assumere nel nuovo contesto, per rispondere alle tre grandi sfide di cui si è detto: non considerare l’imprenditore come un nemico, ma dare corpo alla pretesa dei lavoratori di partecipare all’impresa facendosi in qualche misura imprenditori essi stessi; non contrapporsi antagonisticamente all’impresa, ma al contrario dare all’impresa un’anima attivando in essa la partecipazione piena di chi in essa lavora e facendosi il sindacato stesso portatore anche degli interessi della collettività circostante – basti pensare all’interesse ecologico –, così consentendo all’impresa stessa di internalizzare nel proprio bilancio questi interessi.

Vediamo, in questo contesto ideale, una per una le tre grandi emergenze sopra indicate.

  1. Il mutamento di paradigma del mercato del lavoro.

Il mercato del lavoro – abbiamo detto – in Italia come negli altri Paesi dell’Occidente sviluppato non è più connotato da uno squilibrio strutturale tra domanda e offerta di manodopera, come lo era all’indomani della prima rivoluzione industriale: al contrario, si osserva una quota crescente di domanda di manodopera, qualificata e no, che resta insoddisfatta, nonostante un tasso di disoccupazione, soprattutto di quella giovanile, nettamente al di sopra della soglia “fisiologica” del 4-5 per cento. Gli economisti indicano questa mutazione con l’espressione “passaggio da una situazione di monopsonio strutturale (quello tipico del secolo XIX e della prima metà del XX) a una situazione di monopsonio dinamico”, cioè una situazione nella quale la debolezza delle persone che vivono del proprio lavoro non è causata tanto da carenza della domanda di manodopera, quanto da un grave e diffuso difetto, nel mercato del lavoro, di servizi di orientamento, informazione, formazione mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti. Una manifestazione evidente di questa trasformazione è il forte aumento della mobilità spontanea delle persone che vivono del proprio lavoro: aumento che è culminato nell’ultimo biennio in quello che è stato chiamato il fenomeno della Great Resignation, verificatosi pressoché allo stesso modo su entrambi i lati dell’Atlantico. Una parte sempre maggiore delle persone che vivono del proprio lavoro è in grado di “usare il mercato del lavoro” per scegliersi l’imprenditore; è capace, dunque, almeno in qualche misura, di negoziare le condizioni di lavoro; è in qualche misura dotata di un potere contrattuale: è il fenomeno che mi sono proposto di studiare nel libro L’intelligenza del lavoro. Quando sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore (Rizzoli, 2020). Il problema è, per un verso, di rafforzare – non certo di negare – questo potere contrattuale; per altro verso di occuparsi di quella parte della forza-lavoro che questo potere ancora non lo ha, per far sì che anche questa possa incominciare a “usare” il mercato del lavoro, a muoversi in esso con facilità.

Se questo è il problema, il compito di un sindacato al passo con i tempi è di occuparsi non soltanto della condizione delle persone in seno all’azienda, ma anche della loro condizione nel mercato del lavoro: il che significa occuparsi dell’efficienza ed efficacia dei servizi di orientamento, informazione, formazione mirata, assistenza alla mobilità geografica e professionale.

Solo un esempio a questo proposito. Gli articoli da 13 a 16 del d.lgs. n. 150/2015 – uno degli otto decreti attuativi del Jobs Act – prevedono l’istituzione di un’anagrafe della formazione professionale e l’incrocio dei suoi dati con quelli delle comunicazioni obbligatorie al ministero del Lavoro sulle assunzioni, degli albi professionali, delle liste di disoccupazione: questo renderebbe possibile conoscere di ogni corso di formazione il tasso di coerenza tra la formazione impartita e gli esiti occupazionali effettivi, che è l’indice migliore della qualità del servizio. Ebbene, questa norma è rimasta lettera morta. Nel 2015 le Regioni diedero il loro consenso a questa norma legislativa obtorto collo, solo perché anticipava la riforma costituzionale che avrebbe attribuito allo Stato un potere di controllo e di coordinamento in questa materia; caduta la riforma costituzionale nel 2016, quella norma legislativa è stata molto volentieri dimenticata da tutti: sia dal ministero del Lavoro, sia dalle Regioni. Io vedrei come compito prioritario di un sindacato confederale moderno denunciare questa violazione, anzi disapplicazione totale della legge; ed esigere l’attuazione del meccanismo fondamentale di monitoraggio della qualità della formazione professionale: funzione per la quale si spendono fiumi di denaro pubblico, e che sarebbe essenziale per assicurare alle persone itinerari sicuri verso gli sbocchi occupazionali realmente esistenti.

  1. Stare al passo con il progresso tecnologico

L’intensificazione del ritmo di obsolescenza e sostituzione delle tecniche applicate nel tessuto produttivo – voi che lavorate nel settore della ricerca lo sapete bene – richiede un sindacato sempre più capace di proteggere la sicurezza economica e professionale delle persone non con l’ingessatura delle strutture produttive esistenti, ma garantendo loro tutto il sostegno necessario nella transizione dal vecchio lavoro al nuovo.

Sul piano della transizione individuale, questa garanzia può essere data soltanto dal rafforzamento dei servizi di orientamento, informazione, formazione mirata e soggetta a monitoraggio capillare, di cui ho detto poc’anzi. Sul piano della transizione di un’intera azienda, nell’era della globalizzazione, questa garanzia può essere data soltanto da un sindacato-intelligenza collettiva che sappia valutare i piani industriali presentati da qualsiasi imprenditore, da qualsiasi longitudine o latitudine provenga; e, se la valutazione è positiva, anche per quel che riguarda l’affidabilità dell’imprenditore sul piano tecnico, come su quello dell’etica industriale, il sindacato deve saper guidare i lavoratori nella scommessa comune sul nuovo piano. Scommessa comune, ovviamente, significa anche poi partecipazione dei lavoratori nella misura in cui essi devono poter controllare l’attuazione del piano su cui hanno scommesso e, a scommessa vinta, la corretta ripartizione dei frutti.

È evidente come questo modo di essere del sindacato sia l’esatto contrario del sindacato che dà ai lavoratori sempre e comunque l’indicazione di restare abbarbicati con le unghie e coi denti alla loro vecchia struttura produttiva, anche quando questa condanna l’impresa a una posizione marginale rispetto al mercato, se non addirittura all’emarginazione. Con un quinto del denaro che spendiamo, in Italia, per pagare la Cassa integrazione a zero ore per anni e anni ai dipendenti di aziende decotte, potremmo pagare loro la retribuzione piena per un periodo di sei mesi o un anno di riqualificazione professionale mirata a ciò che effettivamente il tessuto produttivo chiede. E dare loro nel giro di qualche mese una prospettiva di aggiornamento professionale, di maggiore sicurezza e di miglioramento del reddito.

  1. L’aumento della produttività del lavoro e delle retribuzioni

Siamo così arrivati al cuore della questione della stagnazione ormai quasi trentennale, nel nostro Paese, della produttività e dunque della retribuzione del lavoro.

Un primo rilievo doveroso a questo proposito è che il nostro Paese ormai sottrae alla propria economia una somma tra gli 80 e i 100 miliardi di euro ogni anno, che vengono spesi solo per gli interessi su un debito pubblico abnorme. A me sembra che un sindacato responsabile dovrebbe prendere posizione con fermezza a favore di un programma di riduzione progressiva di questo debito, nell’interesse delle generazioni future innanzitutto, ma anche della generazione presente: se anche solo metà di quei 100 miliardi fosse disponibile ogni anno per una politica seria di investimenti, anche la produttività del lavoro e le retribuzioni riprenderebbe a crescere. Un’altra brevissima considerazione a questo proposito: un programma di riduzione del debito potrebbe partire da un drastico abbattimento dell’evasione fiscale, che sarebbe facilmente perseguibile con una altrettanto drastica riduzione dei pagamenti in contanti. A me sembra che anche questo costituisca un obiettivo che il sindacato confederale dovrebbe far proprio con grande determinazione.

Al di là di misure di carattere generale come quelle ora menzionate, una leva molto efficace per aumentare la produttività media del lavoro degli italiani è costituita dalla promozione del trasferimento dei dipendenti di aziende marginali o sub-marginali, talvolta tenute in vita con la respirazione artificiale, alle aziende più produttive, che cercano personale senza trovarlo (Unioncamere e Anpal indicano in 1,2 milioni i posti di lavoro che restano permanentemente scoperti per la difficoltà che le imprese incontrano nel reperire il personale di cui hanno bisogno, in tutte le fasce di professionalità). Per questo è indispensabile attivare e sostenere robustamente percorsi di riqualificazione e riconversione professionale, offrendo ai dipendenti delle aziende in crisi non solo la sicurezza della continuità del reddito nella transizione al nuovo lavoro, ma soprattutto la prospettiva di un upgrading professionale e reddituale.

Nell’affrontare la questione dei livelli retributivi troppo bassi non può, infine, essere ignorata la situazione di difficoltà in cui versa il sistema italiano delle relazioni industriali: diversi contratti collettivi nazionali, anche rinnovati pochi mesi or sono, prevedono minimi tabellari che sono stati recentemente considerati dalla Corte di Cassazione come non compatibili con il principio della “giusta retribuzione” di cui all’articolo 36 della Costituzione. Due sentenze della Corte di Cassazione su questo tema, pubblicate il 2 ottobre scorso (n. 27711 e n. 27769), devono essere considerate come un forte campanello d’allarme, non solo per la denuncia che esse contengono circa l’incapacità della contrattazione collettiva di assicurare livelli retributivi sufficienti nelle fasce professionali più basse, ma anche per la soluzione che esse prospettano: quella cioè di una sorta di “via giudiziaria al minimum wage”, che rischia di delegittimare non soltanto i contratti collettivi dei settori più deboli, ma l’intero sistema della contrattazione collettiva.

A questa sfida il sistema delle relazioni industriali deve rispondere con una orgogliosa rivendicazione delle proprie prerogative, che però non può essere affidata alla sola affermazione di principio: deve concretarsi in una iniziativa efficace proprio sul terreno dei minimi salariali.

È mia convinzione, maturata anche attraverso l’osservazione di quanto accade in diversi Paesi stranieri, alcuni assai vicini e simili al nostro:

  • innanzitutto che, nella perdurante situazione di abstention of law sul terreno del salario orario minimo universale, sia compito proprio del sistema delle relazioni industriali farsi carico del problema, attraverso la contrattazione collettiva: un salario minimo stabilito da un accordo interconfederale intercategoriale risolverebbe efficacemente il problema, offrendo ai giudici del lavoro un nuovo parametro per la determinazione dello standard retributivo sotto al quale nessun rapporto di lavoro può collocarsi;
  • che tuttavia questo standard minimo intercategoriale non possa essere stabilito rigidamente in termini nominali (cioè nei termini di un certo numero di euro l’ora) uguali per tutto il territorio nazionale: esso sarebbe infatti, inevitabilmente, o troppo basso per le aree del Paese dove sono più alti il costo della vita e la produttività media del lavoro, o troppo alto per le aree dove l’uno e l’altra sono notevolmente più bassi.

Se le cose stanno così la sola via d’uscita che vedo è quella di un minimum wage orario fissato da un accordo interconfederale in termini nominali (numero di euro), suscettibile di essere adattato in relazione ai differenti livelli di costo della vita e di produttività media del lavoro ad opera della contrattazione aziendale o territoriale, secondo un coefficiente provinciale o regionale la cui determinazione potrebbe essere affidata all’Istat.

Già immagino – e su questo concludo la mia comunicazione a questo incontro, ringraziandovi per la vostra attenzione e pazienza – l’obiezione che verrà sollevata da molte parti, e non soltanto da sinistra: “non vogliamo ritornare alle gabbie salariali!”. A chi solleva questa obiezione rispondo che le “gabbie salariali” in vigore fino al 1968 ingabbiavano – appunto – i minimi tabellari secondo uno schema rigido e immutabile, costruito su 14 parametri predeterminati; quello che propongo è l’esatto contrario: è sgabbiare la contrattazione su questa materia, consentendole di adattare lo standard fissato da un accordo interconfederale su un valore nazionale medio in relazione alle condizioni di una zona o di una regione.

Una autoriforma come questa della contrattazione collettiva in materia di standard retributivo minimo costituirebbe il miglior modo per difendere il ruolo e l’autonomia del sistema delle relazioni industriali. E su questo terreno la Cisl può svolgere un ruolo di assoluta protagonista.

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