Il decreto del 1° maggio non affronta alla radice il difetto di partecipazione delle donne e dei giovani alle forze di lavoro – Il referendum promosso dalla Cgil muove da una premessa sbagliata: il Jobs Act ha armonizzato il nostro diritto del lavoro rispetto agli altri Paesi UE, favorendo gli investimenti esteri, e non ha affatto precarizzato il lavoro
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Intervista a cura di Alessandro Di Matteo pubblicata su La Stampa il 3 aprile 2024 – In argomento v. anche la mia intervista pubblicata su Italia Oggi il 7 dicembre 2023
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“Le misure varate dal governo in materia di lavoro non affrontano i problemi alla radice”, serve semmai “investire in formazione e orientamento scolastico e professionale”. Pietro Ichino, giuslavorista, è critico sul pacchetto Meloni, approva il salario minimo ma boccia il referendum promosso dalla Cgil sul Jobs Act.
Professore, nel pacchetto varato dal governo c’è una raffica di misure per il lavoro. Cgil e Uil contestano la strada dei bonus e dei “voucher” per l’autoimpiego. Lei come valuta queste misure?
Gli incentivi economici sono tanto più efficaci quanto più sono facilmente conoscibili le condizioni per goderne: se per goderne occorre ricorrere al consulente, l’incentivo incide molto meno sul comportamento dei suoi destinatari. Ma il difetto maggiore di queste misure è che non affrontano i problemi alla radice.
Può chiarire meglio?
Se si intende affrontare sul serio la questione della bassa presenza delle donne nel mercato del lavoro, occorre una misura generalizzata di redistribuzione dell’imposizione fiscale tra uomini e donne: Giorgia Meloni dovrebbe riprendere in mano il disegno di legge su questa materia della sua compagna di partito Maria Ida Germontani della XVI legislatura, il PD quello di Enrico Morando. Quanto al lavoro dei giovani e in particolare dei NEET, per affrontare il problema alla radice sarebbe necessario investire robustamente sui servizi di orientamento scolastico e professionale, che in Italia latitano,
Poi c’è la questione della mancata crescita delle retribuzioni. Le opposizioni hanno ripresentato la proposta del salario minimo, stavolta come legge di iniziativa popolare. La premier Giorgia Meloni è contraria. Questa norma non può aiutare a frenare l’impoverimento del lavoro?
In qualche misura sì, anche se non lo eliminerebbe: per esempio, non servirebbe per combattere il part.time involontario. D’altra parte, in assenza della determinazione per legge di uno standard retributivo minimo, dall’ottobre scorso la Corte di Cassazione ha attribuito la funzione di stabilirlo ai tribunali, anche aumentando i minimi previsti dai contratti collettivi. Se dunque non interviene il legislatore, la prospettiva è che ogni giudice del lavoro decida discrezionalmente lo standard applicabile, in modo imprevedibile e anche con effetti retroattivi: una prospettiva a dir poco caotica.
Basterebbe un salario minimo orario stabilito dalla legge a risolvere il problema della stagnazione ormai trentennale delle retribuzioni?
Qui la risposta è “no”. La stagnazione del livello medio delle retribuzioni nasce dalla stagnazione della produttività media del lavoro: un problema che può essere risolto soltanto da una politica volta a incentivare e sostenere il trasferimento delle persone dalle aziende poco o nulla produttive a quelle che saprebbero valorizzare molto meglio il loro lavoro. L’indagine Unioncamere-Anpal mostra che centinaia di migliaia di posti di lavoro restano scoperti perché le imprese più dinamiche non trovano le persone che cercano.
La forbice tra lavoro ricco e lavoro povero si sta allargando. Non si deve cercar di invertire la “redistribuzione verso l’alto” in atto ormai da quasi trent’anni?
Anche questo è un problema che va affrontato, e che non si risolve certo con misure come il “bonus tredicesima” una tantum. Contrastare la tendenza alla polarizzazione tra lavoro povero e lavoro ben retribuito, però, è possibile soltanto attraverso una riqualificazione dei lavoratori professionalmente più deboli in relazione alle nuove tecnologie: questo richiede servizi di formazione di alta qualità.
La Cgil ha avviato la raccolta di firme contro il Jobs act, lo ha fatto simbolicamente il 25 aprile. La riforma Renzi è diventata il simbolo di un mercato del lavoro più precario. È d’accordo?
Come si fa a parlare di “un mercato del lavoro più precario”, se nell’ultimo decennio la probabilità di essere licenziati in Italia è rimasta invariata, i rapporti di lavoro a tempo indeterminato sono aumentati in valore assoluto e in percentuale, la frazione dei contratti a termine – un sesto del totale della forza-lavoro – è rimasta in linea con la media UE? Il Jobs Act, viceversa, ha armonizzato il nostro diritto del lavoro rispetto al resto della UE, favorendo l’afflusso degli investimenti esteri. Detto questo, la Cgil ha ragione su una cosa..
Quale?
La disciplina attuale dei licenziamenti, a seguito di tutti gli interventi, legislativi e giudiziali, che su di essa si sono succeduti, è troppo frammentaria e persino di difficile comprensione.
Dunque, bene il referendum abrogativo?
No, perché non si risolve il problema tornando indietro. La soluzione è un’iniziativa legislativa, che potrebbe essere presa dal Governo, dal CNEL, o da un gruppo bi-partisan di parlamentari, volta a riordinare e aggiornare la disciplina della materia, secondo una sollecitazione che la stessa Corte costituzionale ha rivolto al legislatore.
Quali ricette può mettere in campo la sinistra degli anni ’20 di fronte all’avvento dell’intelligenza artificiale?
Per il mondo del lavoro l’IA presenta più opportunità positive che minacce; a patto, però, che tutte le persone che vivono del proprio lavoro siano poste in grado di utilizzare le nuove tecnologie. Per questo già trent’anni fa Bruno Trentin diceva che la vera protezione del lavoro nell’era della globalizzazione e della digitalizzazione è costituita dal diritto a una formazione efficace e continua, lungo tutta la vita lavorativa.
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