Colpisce il pessimismo con cui tanti studiosi vedono soltanto le prospettive negative dell’automazione e dell’IA, invece di sottolinearne gli assai più rilevanti effetti positivi già oggi ben visibili o facilmente prevedibili sul piano della libertà delle persone, della sicurezza e igiene del lavoro, del buon funzionamento del mercato del lavoro
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Intervista-discussione a cura Emanuele Dagnino, pubblicata sul Bollettino Adapt il 10 giugno 2024 – L’intervista è parte di una serie dedicata a una rivisitazione dei miei scritti pubblicati nell’arco degli ultimi 50 anni; questa prende spunto dalla mia relazione al convegno nazionale dell’AGI svoltosi a Torino nel settembre 2017, pubblicata sulla Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2017, I, pp. 525-563, sotto il titolo Le conseguenze dell’innovazione tecnologica sul diritto del lavoro – L’ultima intervista precedente della stessa serie messa online su questo sito è dedicata al tema de La disciplina del licenziamento per giustificato motivo oggettivo
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D.: Il saggio che commentiamo, tratto dalla relazione a un convegno torinese del 2017, ha per oggetto un tema che è diventato un topos nella riflessione giuslavoristica attuale e che richiama un analogo concentrarsi dell’attenzione accademica sulla rivoluzione informatica, verificatosi negli anni Ottanta. Rispetto a una gran parte delle riflessioni che si sono interessate di questo fenomeno, la tua analisi non si concentra su elementi di dettaglio normativo o su singole disposizioni, ma offre una lettura di sistema e di prospettiva, fondata su una valutazione di impatto di tipo economico e organizzativo dell’innovazione tecnologica. Rispetto a quanto sostenuto nel 2017 ritieni che le evoluzioni successive dei mercati del lavoro abbiano confermato le tue posizioni?
R.: Se fossi invitato a svolgere oggi l’introduzione a un dibattito sullo stesso tema, non ne modificherei più che tanto l’impostazione di sette anni fa, ma sottolineerei più di quanto io abbia fatto allora gli aspetti positivi dell’impatto dell’innovazione tecnologica sulla quantità e la qualità del lavoro umano. Mi colpisce il pessimismo con cui tanti studiosi del mondo del lavoro vedono soltanto le prospettive negative dell’automazione e dell’intelligenza artificiale, invece di sottolinearne gli assai più rilevanti effetti positivi già oggi ben visibili sul piano della libertà delle persone, nonché della sicurezza e igiene del lavoro. Penso in particolare agli sviluppi portentosi già verificatisi e a quelli prevedibili nella prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, nella neutralizzazione delle disabilità motorie o sensoriali delle persone che lavorano, nel potenziamento della produttività del lavoro, e anche – non ultimo per importanza – nell’aumento della domanda di lavoro umano, nell’enorme ampliamento della platea di potenziali utilizzatori del lavoro di ciascuna persona.
D.: Sul tema della disoccupazione tecnologica nel saggio prendi già una posizione molto netta contro le profezie catastrofiche à la Jeremy Rifkin di una società senza lavoro. Confermi questa posizione anche in riferimento all’ingresso nel tessuto produttivo dell’intelligenza artificiale generativa?
R.: Nel 1977, primo anno di cui possediamo dati statistici sulla forza-lavoro italiana confrontabili con quelli attuali, le persone occupate nel nostro Paese erano 17 milioni. A mezzo secolo di distanza – un mezzo secolo in cui il ritmo dell’evoluzione tecnologica è stato più veloce che in qualsiasi altro periodo della storia umana – le persone occupate sono quasi 24 milioni, nonostante che nel frattempo la popolazione italiana si sia ridotta di quasi due milioni. Se consideriamo i mestieri nei quali erano occupati i nostri bisnonni all’inizio del secolo scorso, sono molti di più quelli scomparsi o quasi, di quelli sopravvissuti nel tessuto produttivo attuale: sono spariti, o quasi, i lampionai, le lavandaie, i maniscalchi, le tessitrici, gli spazzacamini, i cocchieri, e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Ciononostante gli occupati sono aumentati, sia in percentuale rispetto alla popolazione, sia in numero assoluto: le nuove tecnologie hanno fatto nascere più nuovo lavoro di quanto ne abbiano fatto sparire. Certo, una cosa è cambiata sensibilmente con la globalizzazione: quanto maggiore è la mobilità dei beni, dei servizi, delle persone, delle informazioni, tanto meno è garantito che il lavoro nuovo nasca là dove è sparito il vecchio. La geografia del lavoro è sempre più fluida. Donde l’importanza sempre maggiore di servizi di formazione continua, disponibili lungo tutto l’arco della vita lavorativa, capaci di rispondere subito alle nuove domande di competenze espresse dal tessuto produttivo, reggendo a una concorrenza sul lato dell’offerta di lavoro che può arrivare da qualsiasi parte del pianeta.
D.: Già nel saggio del 2017 mettevi in guardia circa le esigenze connesse con la gestione delle transizioni occupazionali che diverranno una nota sempre più comune a tutti i percorsi professionali. La tua analisi del quadro normativo e istituzionale rispetto a questa esigenza mostrava non poche preoccupazioni rispetto all’effettiva capacità del nostro ordinamento di fornire risposte adeguate. Nel frattempo alcuni interventi sono stati attuati (si pensi al programma GOL). Che valutazione dai dello stato dell’arte attuale sulla materia?
R.: La mia valutazione prevalentemente negativa non è riferita tanto al nostro ordinamento, in particolare alla disciplina legislativa della materia, quanto al modo e al grado di attuazione di quanto questa disciplina prevede. L’arretratezza del sistema, per questo aspetto, è destinata a produrre conseguenze gravi anche sul piano generale della giustizia e della coesione sociale. Se si eccettuano poche isole felici, non mi sembra che il programma GOL, dopo la prima fase di adempimenti esclusivamente burocratici (le “prese in carico”), stia conseguendo risultati concreti brillanti su questo terreno.
D: Quali, se li ritieni opportuni, dovrebbero essere gli ulteriori interventi – sul piano amministrativo, se non su quello legislativo – per garantire transizioni sicure e adeguate nella nuova realtà del lavoro?
R.: Il discorso su questo tema è oggetto dell’intervista sulle politiche attive, alla quale rinvio per evitare duplicazioni. Qui basti sottolineare che quanto più rapido è il ritmo di obsolescenza delle tecniche applicate, tanto maggiore è la probabilità per chi vive del proprio lavoro di dover cambiare occupazione, o di dover cambiare il modo di svolgere il lavoro nell’ambito di uno stesso rapporto che prosegue; e dunque tanto maggiore è anche la necessità che vengano predisposti “percorsi attrezzati” per la transizione da una occupazione a un’altra o per l’aggiornamento delle competenze, la cui qualità ed efficacia sia sottoposta a un monitoraggio capillare e permanente: mi riferisco a un sistema di rilevazione del tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi, che richiede una moderna anagrafe della formazione i cui dati possano essere incrociati con tutti i dati disponibili circa i movimenti delle persone nel tessuto produttivo. In difetto di questi “percorsi attrezzati” efficaci, è inevitabile che si determini una crescente polarizzazione tra il lavoro povero e quello buono, cioè il lavoro di chi sarà comunque capace di stare al passo con l’evoluzione tecnologica aggiornando in continuazione la propria professionalità.
D.: Tornando, invece, al primo nodo tematico affrontato, quello dell’economia delle piattaforme, il saggio si segnala per una posizione abbastanza isolata nel panorama italiano, soprattutto per la scelta di affrontare il tema tanto nei suoi impatti organizzativi quanto in quelli giuslavoristici con riferimento al modello economico e non con riguardo a sue specifiche espressioni (penso, in particolare, ai rider o al caso Uber). Questo ti porta a sostenere un impatto sulle strutture del diritto del lavoro non esauribile nella “questione classificatoria” che molto ha impegnato dottrina e tribunali e che risulta essere centrale sia nell’azione legislativa italiana che in quella euro-unitaria. L’attenzione al mondo del nuovo lavoro autonomo, ma che necessita di tutele, emerge in questi interventi solo funzionalmente ad una disciplina speciale e di default per i ciclo-fattorini nel caso italiano e, in maniera più ampia e rilevante sul piano sistematico, per la gestione dell’algorithmic management all’interno della Direttiva UE sul lavoro da piattaforma. Cosa pensi di questi interventi normativi? Ritieni che siano in grado di rispondere alle sollecitazioni che ponevi all’interno del saggio?
R.: Devo dire che né il legislatore nazionale né quello europeo – qui mi riferisco soprattutto alla c.d. direttiva piattaforme – mi sembrano avere le idee molto chiare circa la direzione in cui muoversi per un adeguamento ambizioso dell’ordinamento alla nuova realtà: entrambi mi sembrano ancora troppo ancorati alla summa divisio novecentesca tra autonomia e subordinazione e incapaci di ragionare se non in termini di collocazione delle nuove fattispecie nell’una o nell’altra vecchia categoria. Collocazione per la quale si tende, peraltro, sempre di più ad applicare un metodo tipologico (quello basato sulla prevalenza degli elementi descrittivi propri di un prototipo piuttosto che dell’altro: scelta evidentissima nella direttiva piattaforme) invece che il metodo sillogistico (quello, cioè, fondato sulla sussunzione della fattispecie concreta nel concetto che definisce il tipo legale, sul presupposto della sussistenza di tutti gli elementi essenziali del tipo stesso). Slittamento, questo, a ben vedere inevitabile, dal momento che nella prestazione lavorativa del platform worker è assai difficile riconoscere chiaramente la presenza o l’assenza dei tratti essenziali della subordinazione come li abbiamo definiti nel secolo scorso; mentre un’analogia tra la figura del platform worker, nella sua versione più debole qual è quella dei ciclofattorini, e la figura del lavoratore subordinato tradizionale la vedo piuttosto nell’essere entrambi in una posizione di dipendenza economica dall’impresa per cui lavorano. Questo è il motivo per cui sarei favorevole a ricostruire la fattispecie di riferimento del sistema protettivo assumendo la dipendenza economica, invece che la subordinazione, come tratto distintivo essenziale. Potrebbe essere proprio il legislatore europeo ad adottare questo nuovo criterio per la delimitazione del campo di applicazione dell’insieme delle tutele più intense, stimolando così i legislatori degli Stati membri ad adottare nei rispettivi ordinamenti nazionali lo stesso criterio, più adatto alle nuove caratteristiche del tessuto produttivo.
D.: Puoi spiegare meglio in che cosa dovrebbe consistere questa ricostruzione o ridefinizione della fattispecie di riferimento?
R.: Quando il lavoro è organizzato per mezzo del pc collegato a distanza con un cervello elettronico aziendale, l’elemento essenziale della subordinazione come l’abbiamo definita nel secolo scorso, cioè l’assoggettamento pieno della prestazione a eterodirezione, perde gran parte della propria valenza distintiva, cioè della propria capacità di costituire il tratto essenziale su cui si fonda la distinzione tra prestazione subordinata e autonoma. Tanto è vero che nella maggior parte dei casi lo smart working come segmento di una prestazione svolta nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato non è distinguibile, nella sua manifestazione concreta, dal lavoro di un qualsiasi collaboratore autonomo. Invece il concetto di dipendenza economica ha una sua rilevante valenza distintiva anche in riferimento al nuovo contesto, dominato dall’informatica, dalla telematica e ora dall’intelligenza artificiale. I tratti che definiscono la posizione di dipendenza economica dall’utilizzatore della prestazione (monocommittenza, durata e livello professionale medio-basso), dunque, ben si presterebbero per essere assunti dal legislatore come elementi essenziali per la delimitazione dell’area di applicazione della disciplina protettiva forte. Intorno a questa si potrebbero poi definire delle aree di non dipendenza, nelle quali si applicheranno soltanto alcune protezioni essenziali.
D.: Un sistema a cerchi concentrici?
R.: Lo si può presentare anche così. Mi sembra proponibile, cioè, un’area più esterna, che comprende tutte le persone fisiche, nella quale la protezione dei diritti fondamentali (contro le discriminazioni e le violazioni della sua dignità, integrità psico-fisica e riservatezza) sarà opportunamente declinata anche in relazione ai rischi dell’interazione con l’intelligenza artificiale ed estesa a tutte le collaborazioni, indipendentemente dalla durata e dalla eventuale dipendenza; poi si può pensare a un’area comprendente le collaborazioni autonome personali a carattere continuativo in regime di pluricommittenza, che – a mio modo di vedere – necessita sicuramente di un ordinamento pensionistico obbligatorio e merita di rientrare nell’area di applicazione del processo del lavoro; un’area più ristretta può ricomprendere invece l’insieme di coloro che lavorano in una condizione di dipendenza economica, individuata da una durevole monocommittenza e da un reddito di lavoro non superiore a quello attuale dei quadri, alla quale potrebbe essere estesa la disciplina limitativa del recesso insieme al resto delle protezioni tradizionalmente previste dal diritto del lavoro e sindacale; infine, alla contrattazione collettiva potrebbe essere lasciato il compito di integrare le protezioni generali in relazione alle caratteristiche e all’esigenze dei singoli settori in cui essa si attiva efficacemente.
D.: Con riferimento alla realtà del lavoro dipendente, nel saggio osservavi un impatto complesso dell’innovazione tecnologica che poteva essere fonte di maggiore subordinazione, soprattutto con riferimento all’esercizio del potere di controllo, ma al contempo fonte di una rinnovata autonomia nel lavoro subordinato. Rispetto al primo profilo che sottolineavi, gli anni successivi hanno visto l’ingresso nel mondo del lavoro del management tramite algoritmi e, quindi, di una tecnologia che dal momento del controllo si sposta ai processi decisionali. Quanto al secondo profilo, il lavoro agile che muoveva allora i primi passi sul fronte normativo è oggi una realtà consolidata e in un certo senso normalizzata. Partendo dal primo aspetto come valuti i primi interventi in ambito italiano e sovranazionale (Direttiva piattaforme e Regolamento IA) che hanno optato per l’introduzione di un diritto di informazione in favore dei lavoratori e dei loro rappresentanti? Ti sembrano strumenti sufficienti per la gestione di questa nuova forma di subordinazione?
R.: Della direttiva piattaforme ho detto poc’anzi quello che a me appare come il suo difetto principale: ovvero l’incapacità di superare la summa divisio tradizionale fra lavoro subordinato e autonomo e di adottare una nuova fattispecie di riferimento del sistema delle protezioni forti, quale può essere la fattispecie del lavoro in posizione di dipendenza economica. Per quel che riguarda invece la trasparenza e il diritto di informazione sul funzionamento dell’algoritmo, il contenuto di questa nuova direttiva mi sembra molto apprezzabile. Mi paiono altrettanto apprezzabili i primi passi compiuti dal legislatore europeo con il regolamento sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale nel tessuto produttivo, anche se non abbiamo ancora sperimentato l’efficacia di queste nuove norme; significativamente, però, queste mirano a proteggere qualsiasi persona che si trovi a interagire con l’IA nell’ambito del processo produttivo e non soltanto i collaboratori dipendenti.
D.: Passando ora all’autonomia nella subordinazione, dopo una prima fase di espansione graduale, il lavoro agile è stato al centro della risposta alla pandemia da Covid-19, trovando così – benché con modalità e ragioni distanti dalla sua introduzione nel 2017 – una capillare diffusione nei contesti aziendali. Nel quadro post-pandemico si è forse raggiunta una prima maturità dello strumento, che sempre più è fatto oggetto di accordi aziendali e di discipline di settore. Da una analisi della contrattazione collettiva in materia emerge un quadro molto variegato, con un rilevante numero di accordi che definiscono dei modelli di lavoro agile molto tradizionali e un numero più contenuto, anche se crescente, di accordi che cerca di puntare su una marcata flessibilità e una organizzazione del lavoro veramente per obiettivi. Ritieni che nella sua implementazione in azienda questa modalità di lavoro stia effettivamente esprimendo il suo portato di innovatività in termini di maggiore autonomia e responsabilizzazione dei lavoratori? A che livello si deve operare per fare in modo che effettivamente il lavoro agile possa essere uno dei veicoli del lavoro del futuro?
R.: Ho accennato prima al fatto che il lavoro agile nella sua espressione più piena – cioè in quella che vede la persona interessata libera non solo dal vincolo del coordinamento spaziale della prestazione, ma anche da quello del coordinamento temporale – ben può essere visto come una enclave di autonomia sostanziale della prestazione nell’area del lavoro subordinato. Perché possa verificarsi questa “autonomia nella subordinazione” – come la hai chiamata – sono necessari, però, quattro presupposti: che la persona disponga degli spazi adatti per lo svolgimento della prestazione; che essa disponga dell’attrezzatura informatica e della connessione adatte; che il data-base e il gestionale aziendale sia facilmente accessibile da remoto; e che – last but not least – il rapporto di lavoro sia strutturato in modo da consentire che nel segmento svolto in questa modalità la prestazione sia valutabile in ragione della quantità e qualità del prodotto, non essendo misurabile in ragione dell’estensione temporale. Saranno sempre più diffuse le situazioni nelle quali tutti e quattro questi requisiti potranno considerarsi soddisfatti e dunque il lavoro agile potrà espandersi con successo; oggi, però, in molte situazioni uno o più di questi requisiti fa difetto. E vi sono settori, in particolare molte pubbliche amministrazioni, dove fanno difetto entrambi gli ultimi requisiti, quando non anche i primi due. Soprattutto nel settore pubblico resta ancora molto da fare su questo terreno; qui gran parte di quello che viene chiamato smart working in realtà non è affatto smart (e in molti casi non è neanche working).
D.: Nella parte conclusiva del tuo saggio prospetti una nuova dinamica rispetto al mercato del lavoro: quella del lavoratore che, singolarmente o all’interno del collettivo aziendale, può scegliersi il datore di lavoro grazie alla maggiore possibilità di valorizzare le proprie competenze e di conoscere le realtà imprenditoriali con cui collaborare. Una tesi che hai ampiamente sviluppato nel tuo successivo libro L’intelligenza del lavoro. Quando sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore, Rizzoli, 2020. Pensi che questa dinamica sia connessa al recente fenomeno delle “Grandi Dimissioni” che ha caratterizzato le economie avanzate, compresa l’Italia, negli ultimi anni?
R.: Il libro che citi è uscito all’inizio del 2020, quando la pandemia del Covid era appena scoppiata e del fenomeno della Great Resignation nessuno ancora parlava. Già da molti anni, però, agli osservatori attenti non sfuggivano due dati di grande rilievo, che si registravano in tutti i grandi Paesi dell’Occidente sviluppato: l’aumento tendenziale della mobilità spontanea delle persone nel mercato del lavoro (per l’Italia il riferimento principale era costituito dagli studi su questo tema dell’economista Bruno Contini) e un forte riequilibrio quantitativo tra domanda e offerta di manodopera, quando non addirittura un incipiente squilibrio a vantaggio dell’offerta, in netta controtendenza rispetto al monopsonio strutturale caratteristico della prima rivoluzione industriale (per l’Italia il riferimento principale, a questo proposito, era già allora costituito dall’indagine permanente Excelsior, svolta da Unioncamere e Anpal, sul fabbisogno di personale e la relativa ricerca da parte delle imprese). Quest’ultimo dato non veniva, però, messo a fuoco dai giuslavoristi, i quali continuavano a fondare la ragion d’essere della loro materia su di una insufficienza strutturale della domanda di lavoro, che in realtà già allora non costituiva più il tratto dominante del tessuto produttivo, se non in aree molto circoscritte. Uno degli intendimenti che mi spinsero a scrivere quel libro fu proprio quello di avvertire che occorreva ridiscutere dalle fondamenta la ragion d’essere socio-economica essenziale del diritto del lavoro.
D.: La pandemia, poi, nel 2021-22 provocò su entrambe le sponde dell’Atlantico un incremento sensibile della mobilità spontanea sia da una occupazione a un’altra, sia da occupazione a inattività almeno temporanea: la Great Resignation, appunto.
R.: Sì: incremento del tutto inatteso, perché in periodi di grave recessione, come quella causata dalla pandemia, siamo abituati a pensare che aumentino semmai le cessazioni dei rapporti per licenziamento, non per dimissioni. Ma la Great Resignation non era altro che una accentuazione del fenomeno già osservabile e osservato prima della pandemia, dal quale il libro prende le mosse: una conferma, cioè, del fatto che il mercato del lavoro oggi non è più soltanto il luogo dove gli imprenditori cercano e trovano i collaboratori di cui hanno bisogno, ma anche e sempre di più il luogo dove le persone che vivono del proprio lavoro cercano e trovano l’azienda che meglio soddisfa le loro esigenze e che è più capace di valorizzare le loro capacità. È un vero e proprio rovesciamento del paradigma del mercato del lavoro, rispetto al modo in cui lo abbiamo considerato per tutto il secolo passato. La necessità di questo rovesciamento del paradigma è destinata a essere accentuata dall’evoluzione tecnologica, che consente sempre più diffusamente alle persone di conoscere le imprese potenzialmente interessate ad ingaggiarle; consente, inoltre, sempre più diffusamente alle persone di svolgere la loro prestazione lavorativa a distanza, ampliando così enormemente la platea delle imprese che possono esservi interessate. Si assisterà dunque a un rafforzamento nel mercato della posizione delle persone capaci di avvalersi delle nuove tecnologie informatiche e telematiche; e a un allargamento del gap di reddito e di sicurezza tra queste e le persone che non ne saranno capaci o che continueranno a svolgere un lavoro non suscettibile di essere svolto da remoto.
D.: Ritieni che il quadro giuridico-istituzionale italiano supporti questo tipo di empowerment del lavoratore rispetto alla sua posizione nel rapporto e nel mercato del lavoro?
R.: Compito dell’ordinamento dovrebbe essere di favorire questo rafforzamento della posizione delle persone nel mercato del lavoro, eliminando il più possibile gli ostacoli alla loro mobilità spontanea: occorrerebbe, per esempio, un giro di vite del tipo di quello disposto dall’Antitrust statunitense contro gli abusi del patto di non concorrenza o di altre clausole limitative della facoltà di recesso del dipendente, che – secondo una ricerca recente di Tito Boeri, Andrea Garnero e Lorenzo Luisetto – in Italia sono arrivate a coprire circa il 20 per cento della forza-lavoro, riguardando anche i livelli più bassi di professionalità e di retribuzione. Compito della rete dei servizi al mercato del lavoro dovrebbe essere invece di incrementare il più possibile la capacità delle persone di avvalersi dei nuovi strumenti di comunicazione delle informazioni e favorire il più possibile il loro accesso ai “percorsi attrezzati” che consentono la transizione verso le nuove occupazioni disponibili: ciò che per un verso rafforza il potere contrattuale delle persone stesse nei confronti dei datori di lavoro, per altro verso consente loro di incrementare la produttività del proprio lavoro e dunque il reddito che possono trarne.
D.: Infine, rispetto a questi lavoratori, molto orientati da scelte di costruzione di una carriera individuale, ritieni ancora possibile uno spazio di azione di livello collettivo?
R.: Nel libro che hai citato il quarto capitolo è dedicato interamente al ruolo che, nel nuovo contesto descritto, potrebbe e dovrebbe essere svolto da un’associazione sindacale confederale che intenda porsi al servizio non solo dei già occupati, ma anche di chi entra per la prima volta nel mercato del lavoro e di chi, già entrato, intende cambiare la propria occupazione. Compito dell’associazione sindacale dovrebbe essere innanzitutto quello di promuovere nella cultura delle persone cui essa si rivolge il rovesciamento del paradigma del mercato del lavoro di cui si è detto, di insegnare loro a “usare” il mercato stesso; inoltre quello di rivendicare dalle amministrazioni pubbliche competenti l’attivazione di una rete moderna di servizi di orientamento, informazione, assistenza alla mobilità e formazione specificamente mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti; infine quello di attrezzarsi essa stessa per fornire in qualche misura ai propri associati i servizi necessari per favorirne la mobilità. Questo nella consapevolezza che non esiste modo migliore di proteggere la libertà, la dignità e la sicurezza economica e professionale delle persone nel mercato del lavoro, che quello di porle in grado di andarsene dall’azienda dove sono trattate meno bene di quel che sarebbe possibile, potendo trasferirsi in una capace di valorizzare meglio le loro capacità.
D.: Nel libro del 2020 accenni anche a un ruolo del sindacato nella “mobilità collettiva” dei lavoratori, cioè per incrementare la capacità dei lavoratori dipendenti di un’azienda di scegliersi un nuovo imprenditore.
R.: Nel libro mi propongo di mostrare che il collettivo dei dipendenti di un’impresa, quando questa entra in una crisi grave, ha più frequentemente di quanto non si pensi la possibilità di “ingaggiare” un nuovo imprenditore. Perché nel mondo globalizzato gli imprenditori e i capitali sono in generale molto più mobili di quanto non lo siano le persone che vivono solo del proprio lavoro; inoltre le nuove tecnologie consentono ai lavoratori di un’impresa in crisi di entrare in contatto con una platea amplissima di imprenditori potenzialmente interessati a rilevare l’azienda: nel terzo capitolo del libro esamino diversi casi in cui questo è accaduto, che mi paiono paradigmatici. Il questo ordine di idee, i dipendenti dell’azienda in crisi hanno bisogno di una sorta di “intelligenza collettiva” che consenta loro di individuare l’imprenditore migliore, valutare il piano industriale da lui/lei proposto, e nel caso di valutazione positiva negoziare con lui/lei la scommessa comune sull’attuazione di quel piano. Anche investendo essi stessi qualche cosa, come per esempio la trasformazione di una parte della retribuzione fissa in premio variabile che scatterà a scommessa vinta. Questa “intelligenza collettiva” non può che essere fornita da un sindacato moderno, capace di parlare in inglese, di servirsi delle nuove tecnologie nella ricerca e selezione del nuovo imprenditore, di valutare con competenza un piano industriale sia sotto il profilo tecnico sia sotto quello economico-finanziario, di guidare le persone rappresentate nella negoziazione della scommessa comune su quel piano, infine di controllarne l’attuazione attraverso adeguati strumenti di partecipazione in azienda.
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