Il paradosso di un referendum che mira a ridurre l’indennizzo massimo per i licenziamenti nelle imprese medie e grandi e a rendere illimitato l’indennizzo in quelle più piccole
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Intervista a cura di Antonio Troise, pubblicata sul quotidiano L’altra voce il 1° maggio 2025 – In argomento v. anche l’intervista pubblicata il giorno prima sul quotidiano Italia Oggi
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Professor Ichino, perché lei sostiene che bisogna dire no ai referendum sul lavoro?
Su qualche aspetto marginale si può anche discutere se la vittoria dei sì porti qualche vantaggio a una parte dei lavoratori. Ma il dato più importante, che balza immediatamente all’occhio, è che se prevalessero i sì all’abrogazione si tornerebbe per tutte le imprese sopra i 15 dipendenti alla disciplina prevista dalla legge Fornero del 2012: tutti i dipendenti delle imprese sopra i 15 vedrebbero il proprio indennizzo massimo, in caso di licenziamento ingiustificato, ridursi da 36 a 24 mensilità. Mi chiedo se la Cgil, che ha promosso questo referendum, se ne sia accorta.
Però, almeno per i dipendenti delle piccole imprese, un vantaggio ci sarebbe.
Questo è l’aspetto più paradossale e irragionevole dei referendum: i dipendenti delle imprese sopra i 15 vedrebbero il proprio indennizzo massimo ridursi da 36 a 24 mensilità, mentre per il licenziamento nelle piccole imprese verrebbe previsto un indennizzo illimitato! Sarebbe un risultato totalmente insensato.
Il quarto quesito referendario sul lavoro riguarda la corresponsabilità tra imprese negli appalti. Almeno questo la convince?
Questo quesito referendario avrebbe un senso se fosse mirato a estendere la corresponsabilità solidale ai casi in cui tra impresa committente e appaltatrice o impresa terzista c’è un rapporto di dipendenza economica: cioè quando la seconda lavora solo o quasi soltanto per la prima. Oppure quando la seconda opera all’interno del perimetro aziendale della prima. Altrimenti la cosa non ha molto senso: perché mai la piccola o media impresa committente dovrebbe rispondere per un difetto di organizzazione di una appaltatrice totalmente indipendente sul piano economico ed operativo, che fornisce i propri servizi a centinaia di altre imprese?
Il Presidente Mattarella ha lanciato un grido d’allarme per il lavoro povero, i salari troppo bassi. Come si può affrontare questo problema?
Penso che il problema del “lavoro povero” vada distinto da quello del ristagnare delle retribuzioni medie nel nostro Paese, anche se i due problemi sono ovviamente tra loro collegati. Il fatto che, secondo Eurostat, il 9 per cento dei lavoratori italiani abbiano un reddito inferiore alla soglia di povertà, fenomeno che per metà coincide con quello del part-time involontario, va affrontato persona per persona, offrendo a ciascuna l’informazione e le opportunità di formazione necessarie per trasferirsi dove il suo lavoro può essere meglio valorizzato.
La segretaria del PD Schlein insiste sull’importanza del salario minimo orario fissato per legge come strumento per la lotta contro il lavoro povero
Di un minimum wage di fonte legislativa c’è sicuramente bisogno, tanto più ora, dopo la svolta giurisprudenziale dell’ottobre 2023, che ha disattivato la presunzione di corrispondenza tra minimi fissati dalla contrattazione collettiva e “retribuzione sufficiente” a norma dell’articolo 36 della Costituzione. Ma uno standard minimo orario non risolve il problema del lavoro povero, quando la povertà deriva dall’orario di lavoro ridotto involontario.
Veniamo al problema generale del ristagnare delle retribuzioni.
La retribuzione media non può crescere, finchè la produttività media del lavoro ristagna. Per farle crescere entrambe sono indispensabili due cose: smettere di tenere in vita a tutti i costi le aziende marginali e persino quelle sub-marginali, magari tenendole in Cig a zero ore per anni, chiudere le imprese cosiddette in house tenute in vita inutilmente da Comuni, Regioni e Stato nonostante livelli di produttività vicini allo zero, e creare i percorsi di formazione e addestramento per portare i loro dipendenti a occupare le centinaia di migliaia di posti che restano permanentemente vacanti nelle imprese più produttive, le quali, come mostrano i dati Unioncamere, in metà dei casi non trovano il personale di cui hanno bisogno.
Lei vede dunque come centrale il tema delle politiche attive del lavoro. A che punto siamo su questo terreno?
Sulle politiche attive siamo ancora all’anno zero, o quasi: l’Italia spende per questo capitolo un centesimo di quello che spende per le politiche passive, cioè per trattamenti di disoccupazione e di integrazione salariale. L’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro-ANPAL, cui il Jobs Act affidava la funzione di controllare il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni da parte delle Regioni e di intervenire in via sussidiaria nei casi di inefficienza più grave, l’anno scroso è stata soppressa; ma nessuno ha chiarito chi e come dovrebbe svolgere, ora, la sua funzione: certo non è in grado di farlo l’apparato ministeriale.
Poi c’è la piaga dei morti sul lavoro. Come si dovrebbe fare, secondo lei, per sanarla?
Denunciare l’ipocrisia di tutti coloro che a ogni infortunio mortale si stracciano le vesti, chiedendo un rafforzamento delle misure preventive e punitive. Sono gli stessi che hanno affossato la misura più seria ed efficace, in questo campo: quella contenuta nel decreto legislativo n. 149/2015, uno degli otto decreti attuativi del Jobs Act, che prevedeva la riorganizzazione unitaria degli ispettorati del lavoro, attualmente ripartiti in quattro organici distinti e tra loro scollegati: quello del ministero, quello dell’Inps, quello dell’Inail e quello delle Aziende sanitarie locali. I sindacati di categoria si sono opposti strenuamente alla sua attuazione. E alla fine il governo li ha accontentati, con un minuscolo comma nascosto nell’articolo 31 del decreto legge n. 19/2024, che ha cancellato il decreto n. 149/2015. Con buona pace dei morti sul lavoro e – soprattutto – dei vivi la cui sicurezza sul lavoro potrebbe essere controllata in modo molto più puntuale ed efficace.
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