DONNE E LAVORO: UN’ANOMALIA TUTTA ITALIANA

IL TASSO DI OCCUPAZIONE FEMMINILE NEL NOSTRO PAESE (46%) RESTA MOLTO LONTANO DALLA MEDIA EUROPEA E DALL'”OBIETTIVO DI LISBONA” DEL 60% – TUTTI I DATI CONFERMANO CHE L’AUMENTO DELL’OFFERTA DI ASILI NIDO FA CRESCERE IL LAVORO PROFESSIONALE DELLE DONNE E LA NATALITA’

Articolo di Maurizio Ferrera pubblicato sul Corriere della Sera del 12 marzo 2010

Ormai da qualche tempo il tasso di disoccupazione maschile è più elevato di quello femminile. Secondo gli ultimi dati Eurostat, nella Ue sono senza occupazione il 9,7% degli uomini contro il 9,3% delle donne. Il fenomeno è in larga misura un effetto della crisi, che ha colpito in maniera molto intensa settori come l’edilizia e l’industria manifatturiera, caratterizzati da forza lavoro soprattutto maschile. Negli Stati Uniti la crisi è spesso chiamata man-cession, ossia una recessione che distrugge posti di lavoro tipicamente occupati dagli uomini. L’Italia si trova in una posizione anomala: la disoccupazione fra le donne (9,8%) continua infatti a essere più alta di quella fra gli uomini (7,7%).
L’effetto man-cession è di certo all’opera anche da noi, ma il divario fra i due tassi era storicamente così alto che il sorpasso (se così si può chiamare) non è ancora avvenuto e non è detto che arrivi mai. Da Eurostat proviene inoltre una triste conferma. Il nostro Paese registra il più basso tasso di occupazione femminile: 46,1% di contro a una media Ue del 58,7%. Il segnale è molto sconfortante perché interrompe un timido trend di crescita che durava da qualche anno. Nel 2009 è anzi aumentata la distanza che ci separa dagli altri Paesi, evocando preoccupanti scenari da «passo del gambero». La crisi rischia di riattivare le tradizionali dinamiche di scoraggiamento delle donne in cerca di lavoro. A dispetto di bisogni e aspirazioni, ci si rassegna all’inattività, tornando all’esclusivo svolgimento di mansioni domestiche. Si ripete spesso che il problema dell’occupazione femminile riguarda soprattutto il Sud. E’ in parte vero: nelle regioni meridionali i tassi scendono sotto al 40% e in alcuni casi (ad esempio la Campania) sotto al 30%. Ma anche nelle regioni settentrionali c’è un divario da colmare rispetto alla cosiddetta «Europa». L’Emilia Romagna o la Lombardia non devono infatti paragonare i propri dati (62% e 57% rispettivamente) con la media Ue (58%), mettendosi così la coscienza a posto rispetto agli obiettivi di Lisbona. Il confronto corretto andrebbe fatto con le regioni Ue più sviluppate, che hanno livelli di ricchezza economica simili a quelli lombardo o emiliano. Nello Yorkshire e nell’Olanda settentrionale i tassi di occupazione femminile sono vicini al 75%, in Baviera e nella regione di Salisburgo si attestano intorno al 70%. Rispetto a queste realtà, Emilia e Lombardia sono indietro di dieci o quindici punti, e hanno dunque ancora molto da imparare e da fare. Va peraltro notato che le differenze si attenuano, ma restano visibili anche se isoliamo le generazioni di donne più giovani. Nell’Italia più ricca le donne continuano ad avere insomma meno opportunità di inserimento lavorativo rispetto a quanto avviene in molte regioni centro europee.
La crisi prima o poi finirà e i posti di lavoro torneranno a crescere, persino nel nostro Paese. Che fare perché a trarne vantaggio possano essere anche le donne? ll nodo cruciale restano le politiche di conciliazione, e in particolare i servizi per la prima infanzia. Come hanno recentemente mostrato alcuni lavori di Del Boca e Rosina, negli ultimi quindici anni la partecipazione femminile al mercato del lavoro è cresciuta di più nelle regioni dove è aumentata l’offerta di nidi. In queste stesse regioni è cresciuto il tasso di fecondità: prova che è davvero possibile spezzare il circolo vizioso «donne a casa, culle vuote» che caratterizza ormai da troppo tempo il nostro modello sociale. L’Emilia-Romagna e la Lombardia costituiscono, di nuovo, l’esempio più emblematico di successo anche sotto quest’ultimo versante: il loro tasso di fecondità è aumentato da l a 1,5 circa negli ultimi dieci anni. Ma attenzione: siamo ancora lontani da regioni come Borgogna o Lancashire, ormai stabilmente attestate sopra il 2.
Fra i dati resi noti da Eurostat per la festa della donna, l’Italia si distingue per un primato (uno dei pochi) in positivo. Da qualche anno la speranza di vita alla nascita delle nostre bambine è fra le più alte d’Europa: 84,2 anni rispetto a una media Ue di 82,2 (dato 2008). Speriamo che oltre a un’esistenza longeva le nuove coorti femminili di questo Paese possano godere anche di più ampie (e più “pari”) opportunità di realizzare le proprie aspirazioni di autonomia economica e di carriera lavorativa. Nel Sud, innanzitutto, dove è necessario un grosso investimento nazionale di sostegno all’occupazione femminile. Ma anche nelle regioni ricche del Centro-Nord, che non possono ancora permettersi di dormire sugli allori.

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