ALESSANDRO BELLAVISTA: “LO STATUTO DEI LAVORATORI VA ADATTATO AL MODELLO DI SOCIETA’ POST-INDUSTRIALE”

NATO PER LA FABBRICA FORDISTA, LO STATUTO DEL 1970 VA AGGIORNATO CON L’ISTITUZIONE DI NUOVE FORME DI TUTELA GRADUATA PER TUTTI I LAVORATORI IN POSIZIONE DI DIPENDENZA ECONOMICA, ANCHE OLTRE I CONFINI TRADIZIONALI DELLA SUBORDINAZIONE

Articolo di Alessandro Bellavista, professore di diritto del lavoro nell’Università di Palermo, pubblicato sulla rivista telematica Asudeuropa, maggio 2010

Sono questi i giorni in cui ricorre il quarantesimo anniversario della promulgazione della legge 20 maggio 1970, n. 300, nota a tutti come “Statuto dei lavoratori”. La legge rappresenta il più importante intervento legislativo nella materia dei rapporti di lavoro della storia italiana, perché essa, diversamente da altre normative, s’è rivelata particolarmente effettiva. E cioè, lo Statuto ha in concreto avuto applicazione e ha modificato realmente determinati aspetti delle relazioni di lavoro.

Le ragioni di tale straordinario successo sono molteplici, ma soprattutto vanno rintracciate nell’acquisizione della consapevolezza, maturata nel corso della storia, che solo la presenza dell’organizzazione sindacale nel luogo di lavoro rende possibile evitare che i diritti individuali dei lavoratori siano destinati a restare sulla carta; e pertanto la legge crea le condizioni affinché in azienda si installi un soggetto collettivo capace di esercitare un contropotere in grado di bilanciare il potere del datore di lavoro. Il tutto è sublimato dalla  feconda intuizione del legislatore di attribuire al sindacato dei lavoratori lo strumento dell’azione giudiziaria per la repressione della condotta sindacale che ha consentito allo stesso soggetto collettivo di reclamare e ottenere la tutela di gran parte delle posizioni giuridiche riconosciute dalla legge.

Tuttavia, lo Statuto è stato modellato su una determinata realtà produttiva oggi sempre più in dissoluzione. Infatti, le disposizioni più pregnanti della legge (appunto quelle sul diritto all’insediamento del potere collettivo sul luogo di lavoro e sulla tutela reale di cui all’art. 18 nei confronti del licenziamento ingiustificato) trovano applicazione solo nelle imprese medio-grandi che superano la nota soglia dei quindici dipendenti occupati. Al di sotto di tale limite dimensionale, le tutele sono inevitabilmente meno forti ed effettive: non v’è il diritto alla costituzione della rappresentanza sindacale, non vi sono i diritti sindacali privilegiati, come l’assemblea, non si applica l’art. 18. In particolare, i processi di trasformazione delle imprese, tra cui il decentramento e le esternalizzazioni, tendono ad ampliare le possibilità di fuga dal raggio di luce dello Statuto. Ma i bisogni di protezione dei lavoratori restano inalterati, anzi aumentano in un contesto dove proliferano i rapporti temporanei e precari, che intensificano la debolezza dell’individuo che lavora, e dove non esiste ancora un sistema di ammortizzatori sociali degno del nome.

Inoltre, lo Statuto è una tipica legge basata sull’organizzazione fordista del lavoro e quindi il suo punto di riferimento è costituito dalla manodopera assunta con un contratto di lavoro subordinato, poiché si riteneva che la definizione legale della subordinazione riuscisse ad afferrare tutta l’area del lavoro economicamente e socialmente debole e appunto meritevole della speciale tutela del diritto del lavoro basata sulla considerazione del lavoratore quale contraente debole. Tuttavia, l’esperienza ha dimostrato che il lavoratore socialmente ed economicamente debole non è solo quello subordinato, bensì, molto spesso, anche quello autonomo che presta la propria opera al servizio di imprese cui è legato da condizioni capestro.

Così, è vero che lo Statuto rappresenta un passo veramente incisivo sulla via indicata dal fondamentale comma 2 dell’art. 3 della Costituzione: verso l’eliminazione degli ostacoli di ordine economico e sociale da cui sono di fatto limitate la libertà e l’eguaglianza dei cittadini. Però, è anche vero che il percorso va continuato, con la creazione di nuove tutele e strumenti di difesa per tutti i lavoratori, attraverso una distribuzione graduata delle protezioni dentro e anche oltre i confini della subordinazione.

Nel dibattito politico odierno si discute della necessità che bisogna passare dallo “Statuto dei lavoratori” allo “Statuto dei lavori”. Il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, pro tempore, ha annunciato che questo sarà il prossimo obiettivo dell’azione di governo. Il che può essere condivisibile se, come poc’anzi s’è messo in evidenza, l’innovazione prospettata tenderà ad estendere lo spirito protettivo della legge del 1970 nei territori da dove finora è stato escluso, seppure in forme più moderne ed adeguate alle relative specificità. Si tratta quindi di concedere tutele dignitose, sebbene articolate, ai lavoratori subordinati occupati nelle piccole e piccolissime imprese e ai lavoratori autonomi economicamente e socialmente dipendenti. Ma non può essere accettato, e va con forza contrastato, il progetto che sotto il nome di “Statuto dei lavori” nasconde l’obiettivo di distruggere le garanzie per i lavoratori al momento già esistenti e di diffondere in ogni luogo di lavoro quello che è stato definito “l’ordine dei cimiteri”.

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