PARTECIPAZIONE IN AZIENDA E RAPPRESENTANZA SINDACALE

UN DISEGNO DI LEGGE DELLA MAGGIORANZA E UNO DELL’OPPOSIZIONE SU DI UN TEMA IMPORTANTE, CHE PERO’ DA SEMPRE TENIAMO IN FREEZER. DOBBIAMO CHIEDERCI PERCHE NON VIENE MAI IL MOMENTO GIUSTO PER SERVIRLO IN TAVOLA
Relazione di Pietro Ichino alle Commissioni riunite  Finanze e Tesoro (VI) e Lavoro (XI) del Senato sui disegni di legge n. 803 e 964/2008, svolta nella seduta del 30 ottobre 2008. Segue la relazione aggiuntiva sui disegni di legge n. 1307/2008 e n. 1531/2009, svolta nella seduta del 20 maggio 2009. V. anche il testo unificato presentato nella stessa seduta del 20 maggio 2009.

Signor Presidente, Colleghi,

Entrambi i progetti oggi al nostro esame si collocano nell’area tematica della partecipazione dei lavoratori nell’impresa; essi però si differenziano profondamente per l’approc­cio alla materia:

Þ    nel primo, quello presentato il 19 giugno 2008 dai Senatori Castro, De Eccher, Collino, Saia e Longo, lo “statuto di partecipazione” adottato dall’impresa (ovvero un accordo aziendale che introduca nell’impresa stessa prassi partecipative) viene considerato come requisito affinché l’impresa stessa possa stipulare validamente contratti aziendali in deroga rispetto a contratti collettivi di rango superiore, o contratti aziendali derogatori rispetto alla disciplina legislativa in materie sulle quali la disciplina stessa consenta oggi la deroga soltanto ad opera di contratti collettivi nazionali;

Þ    il secondo, quello presentato il 30 luglio 2008 dai Senatori Treu, Roilo, Adragna, Biondelli, Ghedini, Nerozzi, Passoni e Blazina, intende invece incentivare o promuovere direttamente la negoziazione collettiva in sede aziendale di alcune forme di partecipazione nell’impresa, secondo le linee indicate dalla disciplina comunitaria sulla materia, con l’aggiunta di un capitolo sulla partecipazione azionaria: la materia disciplinata si estende pertanto dalle forme minimali dell’informazione e consultazione a quelle più impegnative dell’azionariato dei lavoratori per mezzo di fondi gestori delle loro partecipazioni, nonché a quelle dell’inserimento dei lavoratori stessi in organi di controllo sull’amministrazione della società.

            L’obiettivo del primo disegno di legge consiste dunque nell’allargamento degli spazi della contrattazione aziendale, essendo qui utilizzato lo “statuto partecipativo” come filtro per il controllo di tale allargamento; nel secondo disegno di legge, invece, la partecipazione costituisce l’obiettivo, mentre la contrattazione aziendale è considerata soltanto quale strumento per il suo sviluppo.

            In altre parole, i due disegni di legge, pur presentando numerosi punti di sovrapposizione, divergono nell’impostazione e nelle finalità che rispettivamente si prefiggono in via prioritaria; per questo è necessario un loro esame separato, almeno in fase di primo approccio al loro contenuto. Gli stessi due disegni di legge, tuttavia, non sono affatto tra loro logicamente incompatibili; nella parte finale di questa relazione tenterò pertanto di proporre una possibile soluzione capace di condurli a sintesi.

 

Il progetto n. 803

            Articolo 1. ‑ Il progetto n. 803/2008 si caratterizza, come si è detto, per l’obiettivo che esso fondamentalmente si propone di conseguire: quello dell’ampliamento del ruolo della contrattazione collettiva al livello aziendale, anche mediante un ampliamento controllato della possibilità che l’accordo aziendale deroghi al contratto nazionale o alla legge (nelle materie nelle quali oggi la deroga è consentita soltanto al contratto nazionale).

            Va osservato, a questo proposito, che la possibilità di contrattazione collettiva aziendale in deroga al contratto collettivo nazionale è già oggi consentita nel nostro ordinamento: concorda su questo punto tutta la migliore dottrina giuslavoristica (v. in proposito ultimamente A. Tursi, La riforma della contrattazione e i modelli europei, in “Arel-Europa Lavoro Economia”, settembre 2008, pp. 38-40), con la quale converge la giurisprudenza nettamente prevalente (gli orientamenti giurisprudenziali divergono soltanto sui limiti di applicazione del contratto aziendale derogatorio rispetto a quello nazionale, ma è comunque pacifica almeno la sua applicabilità ai lavoratori iscritti al sindacato stipulante). L’inderogabilità del contratto collettivo è infatti disposta dalla legge soltanto come limite all’autonomia individuale ‑ come si può argomentare dall’art. 2113 c.c. ‑, non come limite all’autonomia collettiva. Se oggi il contratto collettivo nazionale può considerarsi inderogabile di fatto, ciò è dovuto soltanto a un dato di cultura sindacale diffusa, che si concreta nelle disposizioni dei protocolli interconfederali coi quali i sindacati confederali maggiori e le imprese rappresentate dalle associazioni firmatarie si vincolano reciprocamente a questa regola. Ma si tratta di un vincolo di natura obbligatoria e non di natura reale: onde il contratto aziendale stipulato in deroga al contratto nazionale è di per sé valido e produttivo di effetti, potendosi discutere soltanto ‑ come si è già osservato ‑ circa i limiti di efficacia soggettiva degli effetti stessi: se, cioè, questi siano limitati ai soli iscritti al sindacato stipulante, o possano considerarsi estesi all’intera platea aziendale.

 

            Se concordiamo su questo dato di contesto, dobbiamo convenire che un intervento legislativo modellato sul disegno di legge n. 803 ora al nostro esame rischierebbe paradossalmente di produrre un effetto contrario all’intendimento fondamentale del disegno stesso: ovvero l’effetto di sancire implicitamente un principio di inderogabilità del contratto collettivo nazionale che l’ordinamento attuale non dispone.

 

            Vero è che l’autonomia collettiva al livello aziendale è comunque fortemente limitata dal fatto che ‑ nel perdurante regime di “diritto sindacale transitorio” in cui ci troviamo da oltre 60 anni, in conseguenza della non attuazione dell’art. 39 Cost. ‑ nel nostro ordinamento manca una regola di democrazia sindacale che consenta di selezionare la coalizione sindacale abilitata a discostarsi dal contratto collettivo nazionale con effetti estesi a tutta la platea dei dipendenti dell’impresa. È soprattutto dal superamento di questa lacuna che può derivare un allargamento degli spazi della contrattazione aziendale. E su questo terreno vedo una possibile integrazione di questo primo disegno di legge, utile anche per i fini che si propone l’altro disegno al nostro esame.

 

            Articolo 2. ‑ Per la parte in cui il disegno di legge definisce lo “statuto di partecipazione”, il disegno di legge n. 803 presenta una gamma di buone prassi di trasparenza, informazione e consultazione, partecipazione dei lavoratori agli utili dell’impresa, partecipazione azionaria dei lavoratori stessi, anche per mezzo di fondi gestori delle loro partecipazioni, che appaiono largamente convergenti rispetto a quelle che intende promuovere il disegno di legge n. 964.

 

Il progetto n. 964

            Questo secondo progetto si caratterizza, rispetto al primo, per il fatto che esso punta direttamente a incentivare, o (a seconda dei casi) imporre direttamente le buone prassi partecipative, su di un’area più ampia rispetto a quella cui si riferisce la normativa europea in materia; a delineare, inoltre, una disciplina compiuta della partecipazione azionaria dei lavoratori all’impresa mediante fondi collettivi (materia sulla quale la normativa comunitaria non interviene).

            Il testo si articola in quattro capi dedicati rispettivamente:

        I.      all’informazione e consultazione dei lavoratori, in conformità a quanto disposto dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 11 marzo 2002 n. 2002/14/CE e dall’art. 27 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Nizza, 2000); qui anche l’espressa qualificazione in termini segreto professionale dell’obbligo gravante sui soggetti che ricevono dall’impresa informazioni riservate;

     II.      alla partecipazione dei lavoratori nei consigli di sorveglianza di cui agli artt. 2409-octiesquaterdecies c.c., che viene disciplinata in modo dettagliato; qui si prevede inoltre, per le imprese in forma societaria con meno di 300 dipendenti, di un comitato consultivo composto da rappresentanti dei lavoratori, titolare di determinati diritti di informazione e consultazione;

   III.      all’obbligo di “rendiconto aziendale” gravante su tutte le società con più di 300 dipendenti di redigere e comunicare annualmente alle rappresentanze sindacali e al comitato consultivo di cui al capo II, avente per oggetto la descrizione veritiera della situazione economia, finanziaria e sociale dell’impresa;

  IV.      alla partecipazione azionaria dei lavoratori, mediante apposito fondo comune, e alle relative forme di incentivazione fiscale.

 

Le disposizioni di cui ai capi I, II e IV del d.d.l. n. 964 ‑ pur nella loro formulazione molto più articolata ‑ a tratti forse persino sovrabbondante nella disciplina di dettaglio ‑ e nella loro tendenza ad ampliare il contenuto e l’area di applicazione delle procedure di informazione e controllo rispetto a quanto disposto dall’ordinamento comunitario ‑ corrispondono sostanzialmente alle forme dello “statuto partecipativo” previste dall’art. 2 del d.d.l. n. 803, indicando per questo aspetto una comune ispirazione dei due progetti, favorevole alla promozione del modello partecipativo di relazioni industriali, secondo un principio che appare sotteso all’art. 46 della Costituzione, anche se non nella forma specifica che quella norma costituzionale menziona (quella dei “consigli di gestione”).

Per quel che riguarda specificamente la parte (capo IV) relativa alla partecipazione azionaria dei lavoratori nell’impresa societaria, il disegno di legge fa apertamente riferimento al modello notoriamente elaborato e propugnato dalla Cisl: quello che affida a un fondo comune aziendale il compito della gestione delle azioni di proprietà dei lavoratori. Ma questo deve considerarsi soltanto come “tipo normativo” cui il disegno di legge si riferisce, senza che per questo debbano considerarsi escluse altre forme di partecipazione azionaria che i lavoratori possono preferire, con o senza rappresentanza degli stessi negli organi di amministrazione della società. E’, per altro verso, notissimo in proposito l’orientamento della Cgil tradizionalmente diffidente nei confronti di questa forma di partecipazione dei lavoratori nell’impresa.

Questa considerazione evidenzia non soltanto come le prassi partecipative siano molteplici, tra loro alternative e al tempo stesso liberamente cumulabili; ma anche come possano individuarsi modalità diverse di attuazione di ciascuna di esse. E, quando la scelta tra queste richieda un atto di autonomia collettiva, ancora una volta può porsi la questione della selezione della coalizione sindacale abilitata a stipularlo con effetti generali. Non può escludersi che tra le cause del ritardo di sviluppo delle prassi partecipative nel nostro Paese debba annoverarsi anche l’assenza di un sistema di regole di democrazia sindacale che consenta il compiersi agevole di quella selezione.

 

Necessità di combinazione del principio di partecipazione dei lavoratori nell’impresa con quello di una moderna democrazia sindacale

            Nel titolo III della Costituzione vi è spazio per due tipi normativi contrapposti di rapporto di lavoro: quello tradizionale caratterizzato essenzialmente dallo scambio lavoro/retribuzione, con garanzia a priori del diritto alla retribuzione (“modello assicurativo” del rapporto di lavoro) ma esclusione totale del lavoratore dalla gestione dell’impresa; e quello della partecipazione del lavoratore al rischio d’impresa e quindi, in qualche misura, anche al controllo sul suo andamento (“modello partecipativo”, rapporto di lavoro strutturato come “scommessa comune” del lavoratore e dell’imprenditore sulla bontà del programma contrattuale).

            Ciascuno di questi modelli si pone come alternativo all’altro, se attuato in modo integrale; ma ciascuno di essi può invece, nell’assetto effettivo dei rapporti, coniugarsi con l’altro in una serie continua di possibili combinazioni, che vanno da quelle in cui prevale nettamente il primo a quelle in cui prevale nettamente il secondo. Fra il primo tipo e il secondo sta l’infinita gamma dei rapporti nei quali il contenuto assicurativo va via via decrescendo, fino ad azzerarsi del tutto, mentre corrispondentemente cresce la partecipazione dei lavoratori al rischio e quindi il loro interesse al controllo sulla gestione aziendale.

Come si è detto, quell’intera gamma, compresi entrambi gli estremi, è compatibile con il titolo III della Costituzione. L’art. 46 è lì a sancire che – quando un contenuto assicurativo minimo ex art. 36 sia salvaguardato – modello assicurativo e modello partecipativo possono combinarsi tra loro in vario modo. E in questa visione bipolare dell’ordinamento costituzionale l’art. 39 sembra posto in mezzo, quasi in una posizione arbitrale, fra il 36 e il 46, a sancire il ruolo decisivo della libertà sindacale e dell’autonomia collettiva nella scelta della combinazione tra i due modelli.

 

Il discorso si sposta così sul piano collettivo, dove ai due prototipi di rapporto corrispondono due prototipi di sindacato.

Da una parte abbiamo il sindacato che persegue prioritariamente la sicurezza dei lavoratori, si propone di acquisire per loro dei diritti in senso tecnico-giuridico (il “sindacato dei diritti”); all’estremo opposto abbiamo il sindacato che si propone dovunque possibile di guidare e rappresentare i lavoratori nella stipulazione e nella gestione di una scommessa comune con l’imprenditore, un sindacato che trasforma i suoi rappresentati in “imprenditore collettivo” impegnandoli in una sorta di joint venture con il titolare del capitale di rischio.

Nella determinazione della struttura della retribuzione, il sindacato del primo tipo preferisce nettamente la retribuzione fissa, tende al conglobamento in essa delle parti variabili in relazione ai risultati. Questo sindacato, riluttante per cultura radicata a compromettersi in una valutazione circa l’affidabilità del management, rifiuta le lusinghe del coinvolgimento nella gestione dell’impresa, preferendo perseguire la sicurezza e il benessere dei propri rappresentati mediante standard legislativi e collettivi predeterminati; preferisce, cioè, le garanzie offerte da una polizza assicurativa ad alta copertura, anche a costo di far pagare ai lavoratori per questa polizza un “premio assicurativo” implicito assai elevato.

Viceversa, il sindacato del secondo tipo è disponibile per la negoziazione di una parte rilevante di retribuzione variabile in relazione ai risultati aziendali, siano essi misurati su parametri di produttività o di redditività; tende a proporre o ad accettare la scommessa con il management, quando lo considera affidabile, sul raggiungimento di determinati risultati, attrezzandosi per il controllo rigoroso sulla corretta spartizione della posta quando la scommessa sia stata vinta; ed è naturalmente disponibile al coinvolgimento nella gestione o quanto meno nel controllo dell’andamento dell’impresa, della quale i lavoratori sono stakeholders a tutti gli effetti e non solo indirettamente.

Quelli ora proposti sono solo due modelli di sindacato puramente teorici: nessuno dei due esiste, allo stato puro, nella nostra realtà attuale. Va inoltre detto chiaramente che non si può stabilire in astratto quale dei due modelli di sindacato sia più vantaggioso per i lavoratori. Il primo consente il perseguimento di un alto grado di eguaglianza e sicurezza nei trattamenti dei lavoratori regolari, al costo di un corrispondente alto premio assicurativo (effetto depressivo sui redditi dei lavoratori) e di una riduzione della “torta” da spartire corrispondente alla perdita di produttività causata dal difetto di incentivi. Il secondo modello presenta il vantaggio di stimolare l’impegno individuale e collettivo, consentendo così margini maggiori di intrapresa e di guadagno per i lavoratori; ma esso regge solo se il management è efficiente e, soprattutto, affidabile sul piano dell’etica imprenditoriale; e comporta comunque il costo di una minore sicurezza del reddito e di un aumento delle disuguaglianze tra i lavoratori.

 

Come si è detto all’inizio, questi due modelli ‑ sia di rapporto individuale di lavoro, sia di sindacato ‑ hanno entrambi pieno diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento costituzionale; e, nel campo specifico del lavoro subordinato, hanno pieno diritto di cittadinanza quasi tutte le possibili forme di ibridazione fra di essi (dove il “quasi” indica la necessità di un minimo inderogabile di contenuto assicurativo del rapporto ex art. 36 Cost.), essendo l’art. 39 posto a garanzia della libertà di scelta collettiva in proposito dei lavoratori e delle imprese. Compete dunque all’autonomia collettiva, sia essa esercitata al livello nazionale, regionale, locale o aziendale, la determinazione: i) del contenuto assicurativo del rapporto di lavoro subordinato (al di sopra del minimo di cui si è appena detto), ii) della parte della retribuzione variabile in relazione alla quantità e qualità del lavoro individuale, iii) dei termini dell’eventuale “scommessa” comune tra lavoratori e imprenditore sui risultati dell’attività aziendale, iv) con tutto quanto ne consegue in materia di partecipazione alle scelte e/o di informazione e controllo sull’andamento aziendale.

Questo sul piano teorico. Sul piano pratico, però, assistiamo a una realtà molto diversa.

 

Per i motivi esposti all’inizio, non solo il trattamento retributivo minimo fissato nel contratto collettivo nazionale, ma anche l’assetto complessivo del rapporto di lavoro delineato in quel contratto – che in Italia nell’ultimo secolo è stato disegnato essenzialmente secondo il modello del rapporto a forte contenuto assicurativo ‑ assume di fatto il carattere di uno standard inderogabile, o derogabile soltanto al prezzo del superamento di rilevanti difficoltà. Ciò comporta, in contrasto con l’ampiezza della gamma di modelli consentita dalla Costituzione, l’inibizione o forte limitazione della sperimentazione contrattuale, al livello aziendale, di modelli di relazioni industriali e di assetto del rapporto di lavoro diversi rispetto a quello dominante.

Donde un parziale svuotamento di fatto del principio costituzionale del pluralismo sindacale: si possono, sì, costituire sindacati diversi, ma non per praticare una politica rivendicativa e modelli di relazioni industriali sensibilmente diversi da quello tradizionale dominante. non – ad esempio – per ridurre il contenuto assicurativo del rapporto di lavoro in funzione della sperimentazione di un modello marcatamente partecipativo.

Tutto induce a pensare, invece, che il nostro Paese possa trarre grande beneficio da una correzione dell’assetto istituzionale che consenta la libera scelta di lavoratori e imprese nell’ampia gamma delle possibili combinazioni tra il modello del contratto-polizza assicurativa e quello del contratto-scommessa comune, tra il principio di sicurezza e il principio di partecipazione; una correzione che consenta quindi la competizione aperta tra i vari modelli, dalla quale possano trarsi esperienze e indicazioni utili circa l’assetto migliore in relazione alle diverse circostanze, alla diversa qualità dei protagonisti del gioco.

Nessuno – giova ripeterlo ancora una volta ‑ può affermare a priori che uno dei due modelli sia intrinsecamente migliore rispetto all’altro; anche perché la bontà del secondo dipende in larga parte dalla qualità del management col quale la scommessa viene stipulata. La questione va risolta consentendosi tra di essi una competizione aperta e, per così dire, politicamente serena, resa possibile dal riconoscimento reciproco di piena dignità politico-sindacale e da un regolamento condiviso, che consenta la selezione dell’agente negoziale sulla base del principio democratico maggioritario.

Già il protocollo Giugni del luglio 1993 – firmato da tutte le organizzazioni sindacali e imprenditoriali ‑ prevedeva un intervento legislativo che risolvesse al tempo stesso la questione della misura della rappresentatività sindacale e quella dell’estensione degli effetti dei contratti collettivi. Oggi è probabilmente più difficile di quanto fosse allora pervenire a un accordo così ampio su di un intervento legislativo di questo genere, che richiederebbe tra l’altro una modifica dell’art. 39 della Costituzione; ci sono però le condizioni per puntare, meno ambiziosamente, a una normativa che promuova e sostenga l’evoluzione del sistema di relazioni industriali nella direzione di un ordinamento intersindacale che favorisca il confrontarsi e competere di modelli diversi. È chiaro, per altro verso, che se mai un modello di sindacalismo partecipativo arriverà ad affermarsi in Italia in contrapposizione al modello del sindacalismo oggi dominante, questo accadrà attraverso una fase in cui il nuovo modello sarà sperimentato, sulla base di accordi aziendali, al livello di singola impresa.

 

Una possibile fusione tra i due disegni di legge

            Se le considerazioni proposte hanno qualche fondamento, si può pensare a una fusione tra i due disegni di legge secondo le linee-guida seguenti:

   ‑ rovesciamento dell’impostazione del d.d.l. n. 803, nel senso che non è lo “statuto partecipativo” a costituire requisito per il potenziamento funzionale della contrattazione collettiva aziendale, bensì è quest’ultimo (già possibile nell’ordinamento attuale, ma suscettibile di utile incentivazione e sostegno) a creare gli spazi per la sperimentazione del modello partecipativo, nelle aziende nelle quali i protagonisti lo vorranno;

   ‑ contenimento delle “prassi partecipative vincolate” entro i limiti del dettato comunitario; rispettato quel vincolo, la scelta in proposito è lasciata all’autonomia collettiva al livello aziendale, con gli incentivi e un impianto regolativo del tipo di quello previsto dal d.d.l. 964, forse con qualche opportuna semplificazione;

   ‑ sostegno legislativo allo sviluppo dell’autonomia collettiva sul terreno del “modello partecipativo”, mediante una snella disciplina che consenta una agevole individuazione dell’agente contrattuale abilitato a negoziare con efficacia estesa all’intera platea aziendale: una disciplina “di default“, destinata cioè a operare soltanto là dove il sistema di relazioni industriali non sia riuscito a darsi da sé una disciplina della materia; una disciplina modellabile, per esempio, sulle linee generali delineate nella “piattaforma” presentata dalle tre confederazioni sindacali maggiori a Confindustria nel maggio scorso.

 

            Questa linea di intervento presuppone, ovviamente, che sul punto si consultino le organizzazioni sindacali maggiori; anche con l’idea che tale consultazione possa stimolarle a tradurre sollecitamente la piattaforma del maggio scorso in accordo interconfederale con le controparti imprenditoriali, anche indipendentemente dall’accordo sulla struttura della contrattazione collettiva: col che si potrebbe anche fare a meno della disciplina “di default” della quale ho fatto cenno. Ma, qualora anche questa occasione di autoregolazione del sistema delle relazioni industriali venisse perduta, il principio di sussidiarietà imporrebbe che il legislatore intervenisse ‑ con prudenza e mano molto leggera ‑ a colmare la lacuna.

 RELAZIONE ALLE COMMISSIONI RIUNITE VI E XI, NELLA SESSIONE DEL 20 MAGGIO 2009

 

 

            Onorevoli Colleghi, ho esaminato i due disegni di legge ulteriori in materia di partecipazione dei lavoratori nell’impresa, che mi sono stati trasmessi dalla Presidenza della Commissione, presentati rispettivamente dai Senatori Bonfrisco e Casoli, n. 1307/2008 e dal Senatore Adragna, n. 1531/2009.

             In merito al contenuto dei due testi legislativi rilevo quanto segue.

   1. Il disegno di legge Bonfrisco-Casoli n. 1307/2008 prevede la delega legislativa al Governo sulla materia; poiché mi sembra che abbiamo già raggiunto un buon livello di elaborazione tecnica del testo legislativo, sarei dell’idea di proporre alle Commissioni riunite di mantenere la forma della formazione diretta, disattendendo per questo aspetto il d.d.l. n. 1307/2008.

   2. I disegni di legge Bonfrisco-Casoli n. 1307/2008 e Adragna n. 1531/2009 contengono entrambi una disciplina dei piani di azionariato dei lavoratori, il primo prevedendo la costituzione di apposite società di gestione delle partecipazioni azionarie in forma di società di investimento a capitale variabile, il secondo prevedendo invece la costituzione di apposite fondazioni. La mia proposta è di recepire entrambe queste forme di holding come possibilità alternative rispetto a quella già prevista nel disegno di legge Treu n. 964/2008 e recepita nel primo testo unificato trasmessovi nei giorni scorsi. Vi sottopongo pertanto una nuova versione del testo unificato contenente questa aggiunta all’articolo 1, lettera l) e all’articolo 4, comma 1°. L’idea – qui come in ogni altra parte del testo unificato e in riferimento anche agli altri capitoli della nuova normativa – è di consentire che sia l’autonomia collettiva al livello aziendale a scegliere la forma della partecipazione; cioè consentire che modelli in tutto o in parte diversi sperimentati in aziende diverse possano confrontarsi tra loro.

   3. Il disegno di legge Adragna n. 1531/2009 contiene inoltre una disposizione relativa alla possibilità di negoziazione collettiva di diritti di informazione e consultazione, che corrisponde integralmente a quanto già inserito nella prima versione del testo unificato: non mi sembra dunque necessaria alcuna integrazione per quel che riguarda questo punto.

 

 

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