LA LOTTA AL PRECARIATO E LE BUONE INTENZIONI CHE LASTRICANO LE VIE DELL’INFERNO

I contratti a termine in Italia sono in media con l’Area Euro – Sarebbe un bel guaio se il risultato dell’intervento restrittivo preannunciato dal Governo su questo segmento delle nuove assunzioni, invece che essere un aumento delle assunzioni stabili, fosse soltanto una perdita di occupazione

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Numero 31 di Mercato del Lavoro News, bollettino della Fondazione Anna Kuliscioff, a cura di Claudio NegroV. in argomento anche il numero precedente del bollettino ripreso su questo sito
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Di Maio annuncia l’agognata revisione del Jobs Act tramite un “Decreto di Dignità” il cui obiettivo  principale sarà “la fine della precarietà infinita”: un colpo duro ai Contratti a termine. Peccato che i contratti a temine non siano normati dal Jobs Act, ma il merito della questione è terribilmente serio.

Come abbiamo già osservato, se si vuole ridurre  i Contratti a Termine (per un attimo tralasciamo se sia opportuno farlo) gli strumenti per disincentivarli ci sono, sia rendendoli più costosi (ad esempio. elevando la contribuzione a carico dell’azienda per compensare i   periodi  di non contribuzione)  o stabilendo limiti quantitativi stringenti. Tuttavia il Ministro sembra accontentarsi di molto meno, almeno se i giornali riportano correttamente le sue intenzioni: primo, il divieto di splafonare i 36 mesi, cosa che attualmente può essere fatta con accordo sindacale. Pochissimi concretamente gli interessati: ma il proponimento chiarisce quale sia la considerazione del Ministro del Lavoro per l’autonomia negoziale delle Parti Sociali. Secondo: ripristinare l’obbligo di dichiarare le causali del contratto a termine. E’ un esercizio un po’ complesso: esiste sempre una causale accettabile (l’italiano è lingua dalle molteplici sfumature, e Consulenti del Lavoro e Uffici del Personale sanno usarla benissimo!). 

Ma soprattutto non è detto che gli effetti prodotti siano quelle desiderati:  lobiettivo (perseguito) della riduzione dei contratti a termine potrebbe non coincidere con  laumento (auspicato) dei contratti a tempo indeterminato.  Sarebbe un bel guaio se il risultato finale di tanto ingegno fosse proprio il contrario di quello voluto!

Vale la pena fare un attimo il punto sulla realtà dei Contratti a Termine, utilizzando, per poter fare un paragone utile, il Database di Eurostat.

In primo luogo quanti sono: in Italia, pur essendo cresciuti considerevolmente dal 2008, quando rappresentavano il 12,8% del totale dell’impiego, sono arrivati al 15,1% del 2017, pari sostanzialmente alla media dell’Area Euro (15%); per un raffronto più preciso, in Francia sono il 15,5%, in Olanda il 18%, in Spagna il 26,4%, in Finlandia il 14,6%, in Germania il 13%. Quindi, come già detto, il “boom” dei Contratti a Termine resta del tutto all’interno della media dei Paesi Europei.

Seconda questione, che attiene alla durata “infinita” dei contratti a termine: in Italia nel 2016 i contratti con durata inferiore al mese erano 79.000 (in Francia 531.000). Quelli con durata tra 1 mese e 3 mesi sono stati 463.000 (in Francia 576.000) con un incremento significativo dal 2008, quando erano 330.600, ma esattamente in linea con l’incremento dell’area euro. Nella fascia tra i 4 e 6 mesi sono stati 613.100, in aumento lineare con la fascia precedente, ma in questo caso in controtendenza con l’area euro, che è calata lievemente. Nella fascia tra i 7 e i 12 mesi viceversa i contratti a termine italiani diminuiscono: 681.000 contro i 791.000 del 2008. Anche rispetto all’area euro il dato italiano è in controtendenza. Nella fascia tra i 12 e 18 mesi abbiamo un drastico calo del numero dei contratti (21.500) gli anni 2016 e 2017 sono inferiori della metà al 2008. Identica tendenza per la fascia 18-24 mesi; addirittura qui il numero dei contratti è poco più di 1/3 del 2001 e i numeri sono esigui:poco più di 60.000 contro i 337.000 della Francia e i 603.000 della Germania. La fascia tra i 24 e i 36 mesi (quella “limite”) registra 201.000 contratti, molto superiori ai 74.000 del 2001 ma anche ai 145.800 del 2008; da notare che in questa fascia di durata la Francia fa registrare 191.700 contratti, e la Germania 1.215.000 (!) Veniamo infine alla fascia over 36 mesi, quella che in Italia è accessibile solo con accordo sindacale: i contratti in questa fascia nel 2016 erano 89.400, in netto calo rispetto al 2008 (erano oltre 185.000) e agli anni successivi; tanto per fare un raffronto in Francia erano 118.800 e in Germania 583.900.

Tirando le somme in Italia i contratti a termine pari o inferiori a 1 anno sono oltre 1.850.000, quelli superiori meno di 370.000, e in particolare quelli che superano i 36 mesi sono meno di 90.000. Blindare i 36 mesi, ma anche i 24 o i 12, produrrebbe esiti davvero marginali!

Un altro parametro interessante è la percentuale di trasformazione, ossia la percentuale di contratti a termine che nel corso dell’anno si trasformano in contratti definitivi: nel 2017 in Italia era il 7% (più o meno costante dal 2011, quando è iniziata questa rilevazione), esattamente pari al dato francese e spagnolo (manca il  dato tedesco). E’ facile notare che il tasso di trasformazione basso per questi tre Paesi coincide con un lavoro a termine che si concentra sui tempi molto brevi; quando il lavoro a termine funziona come “periodo di prova” per l’assunzione definitiva ha durate più lunghe, che in Italia, come abbiamo visto, non sono molte.

Ma val la pena anche indagare il perché i lavoratori a termine hanno acconsentito a questo tipo di contratto.

Coloro che lo hanno accettato per mancanza di alternative sono in Italia sono 11,2%: più della media UE (poco sotto il 9) e comunque in continua salita dal 2001. Se lo rapportiamo al numero totale di contratti a termine la percentuale è del 72,4%, e ben superiore alla media europea che si aggira comunque attorno al 53%. Soltanto il 2,3% dei lavoratori temporanei afferma che si è trattato di una propria scelta, contro una media europea del 9-10%. Invece il 16,4% ha accettato perché è inserito in un percorso formativo (media perfettamente in linea con quella europea). Infine, l’8,5% dichiara che lo ha accettato perché rappresentava esplicitamente un periodo di prova in funzione dell’assunzione definitiva (media europea 7,9%). Esiste in sostanza un’area frizionale che corrisponde al lavoro a termine involontario, comune a tutte le economie, che può ridursi ma non scomparire.

Concludendo:

  • l’aumento delle assunzioni a termine nel periodo della crisi è una realtà: oltre il 20% in più rispetto al 2008. Tuttavia il lavoro a termine in Italia ha le stesse dimensioni che ha in Europa e grosso modo nei Paesi a noi paragonabili (Francia e Germania).
  • I contratti a termine successivi al 2008 (ultimo anno prima della crisi) sono in grandissima maggioranza di breve durata (meno di un anno, prolungamenti e rinnovi compresi). Il contratto a termine “eterno” non esiste. Apporre un limite alla sua durata non ha effetti concreti.
  • Il tasso di trasformazione in contratti definitivi è piuttosto basso, segno che l’utilizzo del contratto a termine come periodo di prova è abbastanza marginale, più che altro riscontrabile nei contratti di maggior durata (che sono appunto una minoranza). Da notare che il tasso di trasformazione nel 2017 era del 7%, e la percentuale di coloro che dichiaravano di avere accettato un contratto a termine in funzione di una assunzione definitiva era di poco più dell’8%: sostanzialmente coincidente.

La stragrande maggioranza di chi ha accettato un contratto a termine in Italia lo ha fatto perché non aveva alternativa. Questo dato mette in luce il mismatch che esiste tra domanda e offerta di lavoro e che, ovviamente, non può essere sanato in via normativa ma deve essere oggetto di interventi sul versante della formazione del capitale umano e sull’efficienza del matching tramite investimenti sui servizi al lavoro che si traduca in crescita economica.

Perciò la gran parte dell’aumento dei contratti a termine si concentra in periodi brevi presumibilmente di basso profilo professionale. Il che si riconduce ad un quadro economico in cui la maggioranza delle imprese (fanno eccezione quelle digitalizzate, che creano occupazione stabile crescente) preferisce non immobilizzare investimenti in capitale variabile (o umano, se preferite) se non nei profili indispensabili, in attesa di verificare se la crescita continua o no. D’altra parte è noto che nelle fasi positive del ciclo economico all’inizio si determina l’assunzione i lavoratori non specializzati e che soltanto nei tempi medio-lunghi l’occupazione tende a stabilizzarsi. Forzare questo iter è difficile: non bastano gli incentivi fiscali, come dimostra (purtroppo) l’esito modesto della decontribuzione 2018 prevista per le assunzioni a tempo indeterminato.

Tanto più inutili sarebbero interventi che pongano limiti alla durata dei contratti, a meno di apporre limiti inverosimili (tre mesi, due?).

Più fastidiosi, efficaci forse, sarebbero interventi che restaurino l’obbligo di una causale rigorosamente restrittiva, ma sarebbe comunque illusorio pensare che in questo caso i contratti a termine resi impossibili si trasformerebbero in contratti stabili. L’occupazione non si crea per decreto!

Il governo DiMaio-Salvini, che si accinge a correggere un clamoroso infortunio sui vouchers del governo Gentiloni, rischia di ricadere negli stessi errori?

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