COLLEGATO-LAVORO:UNA BRUTTA LEGGE, CHE NON RAGGIUNGERA’ NEPPURE I SUOI OBIETTIVI SBAGLIATI

CONTINUA LA PRODUZIONE, CON SCARSA TECNICA LEGISLATIVA E MODESTA CONOSCENZA DEL DIRITTO, DI LEGGI LUNGHISSIME E DI DIFFICILE LETTURA E INTERPRETAZIONE: SI PUO SOLO SPERARE CHE SI TRATTI, ANCHE IN QUESTO CASO, DI UNA LEGGE INUTILE

Nota tecnica redatta da Mario Fezzi, avvocato giuslavorista, per la Camera del Lavoro di Milano

 

 

Dopo un percorso parlamentare di un paio di anni, nella totale indifferenza della sinistra, è stato approvato il Collegato Lavoro che rimodella pesantemente il processo del lavoro e modifica in modo sensibile anche il diritto sostanziale (del lavoro). E’ bene dire subito che la riforma è pessima, ma non è detto che, alla prova dei fatti, raggiunga gli obiettivi che il legislatore si poneva.
Il legislatore in primo luogo intendeva limitare il potere della magistratura in materia di lavoro: e cerca di raggiungere questo obiettivo da un lato cercando di ridurre al massimo il ricorso ai giudici della Repubblica, sollecitando i datori di lavoro a privilegiare la giustizia privata, cioè gli arbitrati; dall’altro lato interviene riducendo sensibilmente i poteri del giudice del lavoro, introducendo una serie di paletti nell’ambito dei quali il magistrato deve destreggiarsi e oltre i quali non può andare.
La giustizia privata (gli arbitrati) viene indicata come unico rimedio possibile alla lentezza dei giudizi delle cause di lavoro (che in alcune realtà sono di diversi anni).
Ma il legislatore sembra non sapere che non è il processo in sé che non funziona (il modello processuale del 1973 è un modello esemplare, tanto da essere spesso richiamato come esempio per la riforma dell’intero processo civile). Nelle sedi in cui il processo non funziona, le cause non sono determinate dalle regole processuali, ma da motivi pratici molto diversi: disorganizzazione, mancata copertura degli organici, carenza di strutture, piante organiche inadeguate, ritardi nella sostituzione dei giudici trasferiti, prassi difformi dal modello processuale,  in alcuni casi anche scarsa produttività e scarsa professionalità di giudici ed avvocati, limitata diffusione dell’informatizzazione, etc. Prova ne sia che dove queste storture pratiche non esistono (vedi ad es. Torino) i processi di lavoro vengono definiti nel giro di pochi mesi (mesi, non anni).
Si trattava quindi non tanto di invitare a seguire la via privata alla giustizia del lavoro, ma di mettere mano a una riforma delle strutture e degli organici che consentisse la completa copertura dove serve, e la liberazione di sedi dove i processi scarseggiano. Oltre a percorsi di formazione di giudici ed avvocati e a ricorso a moderne strutture informatiche.
Un’altra causa determinante dei ritardi del processo in molte sedi è il numero strabiliante di giudizi previdenziali: in molte sedi la stragrande maggioranza dei processi riguarda il pagamento di pensioni, il riconoscimento di pensioni di invalidità, la richiesta di pagamento di interessi sulle pensioni pagate in ritardo, etc. Andava dunque semmai presa in considerazione l’ipotesi di prevedere una gestione processuale separata (sia in termini di organi decisori, sia in termini di procedura) per le questioni previdenziali, quando non siano coinvolte necessità di accertamento di diritti sostanziali, ma sia prevalente l’aspetto tecnico-acclaratorio (questioni mediche, differenze di interessi e simili). In tal modo verrebbe sollevata la magistratura dal peso di tanti processi, liberando risorse per i  processi del lavoro in senso proprio.
I poteri dei giudici vengono poi comunque limitati con l’introduzione di alcuni paletti.
In primo luogo il giudice non potrà più entrare nel merito delle decisioni aziendali, contestando le scelte operate dall’impresa, ma dovrà limitarsi all’accertamento del presupposto di legittimità dei singoli atti posti in essere. Poi non potrà discostarsi dalle valutazioni delle parti, espresse in sede di certificazione dei contratti di lavoro. E infine, nel valutare le motivazioni poste a base di un licenziamento, il giudice è vincolato dalle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo presenti nei contratti collettivi, ovvero nei contratti individuali, se stipulati avanti la apposita commissione di certificazione.
Nell’ansia di contenere i poteri dei giudici il legislatore sembra aver fatto anche uno scivolone, laddove prevede che il giudice debba comunque tener conto anche dell’oggettivo interesse dell’organizzazione. Questo inciso, come ha osservato Pietro Ichino, potrebbe forse aprire le porte a interpretazioni giudiziali creative, per determinare se l’atto posto in essere corrispondesse davvero all’interesse aziendale o fosse invece dannoso.
Ancora, si prevede che nel definire le conseguenze da riconnettere al licenziamento il giudice debba tener conto di elementi e parametri fissati dai contratti (collettivi, ma anche individuali certificati) oltre a una serie di altri elementi.
Insomma si cerca in tutti i modi di depotenziare l’operato dei giudici, se proprio non si può fare a meno di farli decidere.
Ma la vera nefandezza di questa legge resta la introduzione dell’arbitrato obbligatorio, simulato tuttavia come volontario.
Si prevede infatti la possibilità di far decidere l’eventuale causa che dovesse sorgere tra lavoratore e impresa da un collegio arbitrale che potrà decidere anche secondo equità. La scelta, anche per rispettare la Costituzione, appare libera: il lavoratore anziché scegliere i tempi lunghi della magistratura del lavoro sceglie di ricorrere al collegio arbitrale. Tuttavia questa scelta diviene obbligatoria e definitiva se al momento dell’assunzione (ma anche in epoca successiva) il lavoratore venga chiamato a certificare il suo contratto di lavoro davanti alla Commissione di Certificazione, con inserimento nel contratto della c.d. clausola compromissoria, vale a dire della clausola con la quale il lavoratore si impegna a non ricorrere al giudice del lavoro nel caso debba litigare con il suo datore di lavoro, ma a scegliere, ora per allora,  il collegio arbitrale.  Il mandato al collegio arbitrale può essere anche nel senso di decidere non secondo legge, ma secondo equità.
Appare chiaro a tutti che al momento dell’assunzione, a maggior ragione in momenti di crisi economica, il lavoratore non ha alcun potere di contrattazione, e meno che mai su un punto del genere. Se il lavoratore rifiuta di certificare il contratto con la clausola compromissoria, rifiuta anche, di fatto, il posto di lavoro; l’offerta di lavoro gli verrà infatti revocata e l’impresa cercherà (facilmente) un altro che accetti di sottoscrivere contratto e clausola.
Quindi, come dicevo, si tratta formalmente di una scelta libera, mentre nella realtà è una scelta coatta e niente affatto libera. La Costituzione è salva, e il lavoratore è fregato.
La gravità di questa normativa è poi ancora maggiore per la possibilità di far decidere al collegio arbitrale secondo equità, anziché secondo legge e contratto collettivo.
L’equità è un concetto soggettivo e sfuggente: rischia di prestarsi a ogni tipo di abuso.  Il restare agganciati a leggi e norme contrattuali nella decisione di una controversia in materia di lavoro, cioè in una materia delicatissima, portatrice di diritti primari, appare imprescindibile. Infatti un diritto primario per la vita delle persone, come è il diritto del lavoro, non può essere regolato dall’equità, ma solo da norme legali e contrattuali. Solo in presenza di diritti affievoliti o comunque secondari è possibile pensare di risolvere le questioni secondo equità.
Da non trascurare poi è anche il fatto che l’arbitrato ha un costo che può diventare anche abbastanza rilevante (3% del valore della controversia); mentre era stata considerata una conquista di civiltà l’introduzione, con il processo del 1973, della gratuità del giudizio, consentendo a tutti di poter accedere alla giustizia del lavoro.
L’arbitrato volontario, secondo legge e contratto, invece può essere un’opzione più che legittima. Può piacere o meno (a me non piace) ma è una scelta legittima delle parti, a condizione appunto che la scelta sia veramente  volontaria e non coatta.
C’è però da rilevare che nei fatti nel nostro paese l’arbitrato in materia di lavoro non ha mai avuto molta fortuna. L’esempio più evidente è l’arbitrato per il licenziamento dei dirigenti: è previsto da tutti i CCNL dei dirigenti (industria, commercio, credito, etc.) ma non è praticamente utilizzato da anni. Ma anche il Collegio arbitrale di cui all’art. 7 St.lav. è sostanzialmente scomparso.
In ogni caso questo arbitrato coatto non è detto che possa avere davvero la fortuna che il legislatore sembra volergli attribuire. Potrebbe capitare che le commissioni di certificazione si impuntassero e impedissero la coartazione di volontà del lavoratore per fargli sottoscrivere la clausola compromissoria. Potrebbe capitare che i giudici del lavoro venissero investiti ugualmente delle controversie dei lavoratori che hanno sottoscritto la clausola arbitrale, con la richiesta –in via preliminare – di accertare la coartazione della volontà, al momento della firma del contratto, e quindi la nullità della clausola arbitrale.
Ma soprattutto potrebbe capitare che le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sottoscrivessero, come consente la norma, accordi collettivi o interconfederali che prevedano le modalità di espletamento dell’arbitrato; stabilendo in tal caso che il ricorso alla giustizia arbitrale possa avvenire non in via preventiva al momento della sottoscrizione della lettera di assunzione, ma solo al momento in cui dovesse concretamente sorgere una controversia. In tal modo il lavoratore sarebbe davvero libero di scegliere tra magistratura del lavoro e giustizia arbitrale.
La legge interviene anche su diverse altre questioni.
Viene innanzitutto abolito il tentativo obbligatorio di conciliazione, introducendone un altro facoltativo, complesso e farraginoso, che è destinato a scomparire rapidamente o a cadere in desuetudine (resterà solo per chi ha necessità di allungare i termini di impugnazione).
Viene stabilito poi che l’impugnazione del licenziamento, da fare come sempre nei sessanta giorni, è inefficace se entro i successivi 180 giorni non viene depositato il ricorso ex art. 414 CPC o non viene fatta la comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato. Viene in sostanza introdotto un termine di decadenza che in alcuni casi può danneggiare gravemente il lavoratore, se la ricerca di atti, documenti, testi o altre attività istruttorie necessiti di molto tempo.
Questo termine di decadenza viene poi esteso a una lunga serie di altri atti: dal trasferimento ai sensi dell’art. 2103 c.c., alla cessione del contratto di lavoro ex art. 2112 c.c., al recesso del committente nei cococo e nei contratti a progetto,  a ogni forma di interruzione di un contratto che si assuma subordinato, all’azione di nullità del termine apposto al contratto (appunto, a termine).
Infine viene predeterminata  la penale (da 2,5 a 12 mesi dell’ultima retribuzione globale di fatto) nei casi di conversione del contratto a tempo determinato.
Si tratta davvero di una brutta legge. Brutta nei contenuti, brutta nella forma. La semplificazione (e la chiarezza)  normativa si raggiunge solo con la riduzione delle norme; il nostro legislatore invece continua a produrre leggi lunghissime, di complicata lettura e interpretazione, scritte con modesta tecnica legislativa e moderata conoscenza del diritto.
Resta solo da augurarsi che si tratti alla fine solo, ancora una volta, di una legge inutile.

  

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