ORA ANCHE IL CENTRODESTRA PENSA ALLE PRIMARIE

IL DOPO-BERLUSCONI SI APRE CON UNA POSSIBILE SVOLTA A “U” RISPETTO AGLI SFOTTÒ DI TUTTI QUESTI ANNI CONTRO IL METODO DI SCELTA DEI CANDIDATI A PREMIER E A SINDACO ADOTTATO DAL PARTITO DEMOCRATICO

Articolo di Antonio Mambrino pubblicato on line sul sito (di area centrodestra) l’Occidentale il 1° giugno 2011 – Lo propongo ai lettori di questo sito perché, se questa sarà la scelta anche dell’attuale maggioranza parlamentare, questo potrà costituire un importante passo avanti in direzione di una convergenza bi-partisan su di una riforma elettorale centrata sul collegio uninominale – In argomento v. anche il mio editoriale del 23 maggio scorso Vince il partito delle primarie

Dopo la batosta elettorale, dalle parti del centro destra si registra una new entry: le primarie. Le elezioni primarie come toccasana salvifico per guarire il grande malato (il PdL) e per ridare slancio ed intensità ad un partito illanguidito. Diciamo la verità: di primo acchito la cosa non ci ha convinto. Ai nostri occhi le primarie puzzavano troppo di buonismo sinistrorso e democraticista. Una spolveratina veltroniana di America alla politica arcaica ed antiamericana della sinistra ex comunista italiana. Insomma una roba che sa tanto dell’Alberto Sordi di “Un americano a Roma” o del Renato Carosone di “Tu vo’ fa l’americano”.

Ma ragionandoci un attimo ci siamo convinti. Probabilmente la definizione di una forma pubblica di selezione dei candidati per le cariche elettive e di governo potrebbe risultare il passo decisivo per stabilizzare definitivamente quel faticoso processo di superamento del vecchio modello del partito di integrazione di massa che ha caratterizzato la Prima Repubblica e che ancora periodicamente si riaffaccia, se non nelle dinamiche concrete del sistema, quanto meno nei sogni inconfessabili di alcuni dei protagonisti della nostra politica. Un partito fatto di una rete capillare  presente sul territorio in grado di veicolare e controllare tutte le dinamiche della società civile. Un partito costruito sulla potenza geometrica delle campagne di tesseramento. Un partito governato dal più rigido centralismo democratico ovvero dilaniato dalla feroce lotta fra le correnti. Un partito pesante e costoso è come tale generosamente sovvenzionato dallo Stato, attraverso il finanziamento pubblico legale ovvero attraverso quello illegale delle tangenti sui grandi appalti. Una forma partito novecentesca, inaugurata dalla socialdemocrazia tedesca, che in Italia aveva raggiunto il suo massimo splendore grazie alla politica del PCI che, dopo aver abbandonato Antonio Gramsci nelle carceri fasciste, ne aveva riesumato la teoria dell’egemonia, della rivoluzione socialista pensata non come sovvertimento violento dello stato borghese ma come progressiva conquista del controllo dell’intera società, casamatta dopo casamatta, da parte del moderno Principe, il Partito.

Ma quel modello di partito è stato superato dalla Storia, reso del tutto inservibile dal mutamento della società, dalla crisi delle ideologie totalizzanti del XX secolo, dalla fine della politica identitaria.

La prima e più felice intuizione politica di Berlusconi fu proprio la necessità di dar vita ad un nuovo  partito diverso dai precedenti sia dal punto di vista dei contenuti sia, e ancor più, dal punto di vista del modello organizzativo. Un partito non costruito intorno ad un’ideologia, ma aggregato su valori politici generali e raccolto intorno ad una leadership forte. Un partito con apparati esili ma strutturato a ridosso dei rappresentanti eletti in Parlamento o nelle assemblee locali e regionali. I suoi detrattori lo hanno da subito bollato come deriva plebiscitaria o come partito populista. In realtà, quello messo in piedi da Berlusconi è un partito che riprende né più né meno che quel modello di “partito degli elettori” verso il quale da diversi decenni si sono evoluti le principali democrazie del mondo.

E il partito di Berlusconi è riuscito ad essere partito degli elettori pur senza tenere elezioni primarie, perché naturalmente la leadership di Berlusconi era indiscussa. Che forse Casini o Fini avrebbero mai avuto il coraggio di sfidare Berlusconi in un’elezione primaria per il candidato premier? Dal loro punto di vista, meglio, molto meglio, insidiarlo con manovre di Palazzo dalla comoda e protetta poltrona di Presidente della Camera. Da un certo punto di vista il PdL (e prima Forza Italia) è il partito che più di tutti gli altri ingloba la logica delle primarie pur non avendone mai svolte.

Si potrebbe perciò ritenere che (almeno in questa fase storica) le primarie sono per il centro destra un inutile rito democraticistico. Eppure non è così. E non è così per due buone ragioni. Non è così perché nel frattempo il PdL è molto cresciuto e si è molto consolidato e crescendo, in assenza di classiche procedure di democrazia interna e di meccanismi di selezione che coinvolgessero anche gli elettori del centro destra, si è consolidato un ceto dirigente debole (perché cooptato dall’alto) ed arrogante (perché debole). Un ceto, cresciuto parassitariamente all’ombra del leader carismatico, che oggi rappresenta il principale problema del PdL nella comunicazione con il Paese. E questo ceto, presente anche a livello nazionale, in Parlamento o anche al Governo, è forte soprattutto in provincia dove da sempre sono maggiori i problemi del PdL.

Ma la seconda buona ragione riguarda anche la leadership del partito. E’ evidente che ad oggi la legittimazione di Berlusconi a guidare il PdL e ad essere il candidato premier del centro destra per il Paese non appare ragionevolmente contestabile. Eppure la formalizzazione di procedure per l’elezione primaria del candidato premier aiuterebbe proprio Berlusconi a tenere unita la classe dirigente del partito. Non c’è dubbio infatti che molti dei problemi che il PdL ed il Governo attraversano in questa fase derivano proprio dall’incertezza che regna sovrana sul problema del dopo Berlusconi. Molti dei leader del centro destra paiono avere la sola preoccupazione di posizionarsi nel modo più vantaggioso per affrontare la delicatissima fase che si aprirà quando Berlusconi deciderà di mollare. In questo quadro appare urgente definire una volta per tutte una procedura chiara e trasparente per disciplinare il confronto interno per la selezione del futuro leader, una procedura basata non sulle alchimie e sugli accordi sotterranei delle inesistenti correnti di un partito strutturalmente allergico alle correnti, ma sulla verifica del consenso di tutti gli aspiranti leader presso il proprio elettorato.

Se questa procedura fosse introdotta, immediati sarebbero i vantaggi. Il clima politico interno si svelenirebbe. Cesserebbero i giochi non cooperativi. Tutti sarebbero incentivati a dare il loro meglio, perché solo dando il meglio è possibile far cresce il proprio gradimento presso l’elettorato di riferimento e quindi aumentare le proprie chances di successo alle primarie. Probabilmente il tema della successione nella leadership del PdL non è attuale, ma a nostro avviso l’introduzione sin da subito delle primarie migliorerebbe immediatamente la resa del Governo e quindi le possibilità del centro destra di rivincere le prossime elezioni.

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