AFFARITALIANI: CHE COSA SI NASCONDE SOTTO L’ACCORDO PER LA PRODUTTIVITA’

E PERCHE’ LA CGIL NON LO FIRMA

Intervista a cura di Paolo Fiore pubblicata da Affaritaliani il 23 novembre 2012 – In argomento v. anche l’intervista a LIbero dello stesso giorno

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Professor Ichino, qual è il suo giudizio sull’accordo raggiunto tra imprese, governo e sindacati?
Il giudizio è senz’altro positivo, poiché l’accordo va nella direzione giusta: quella del decentramento della contrattazione collettiva e di un maggiore collegamento tra retribuzione e produttività. Ma con una osservazione critica.

Osservi pure.
Il decentramento della contrattazione collettiva era già ampiamente legittimato dall’articolo 8 del decreto legge n. 138 del 2011. Da un punto di vista tecnico-giuridico, dunque, questo accordo non sarebbe stato necessario. Esso diventa necessario solo perché le confederazioni sindacali hanno deciso di cancellare politicamente la norma del 2011.

E perché hanno deciso di cancellarla?
Perché è stata voluta dal governo Berlusconi: è stato uno degli ultimi suoi atti. Ma il sistema delle relazioni industriali, se vuole difendere la propria autonomia e la propria funzione di governo indipendente delle condizioni di lavoro, dovrebbe funzionare etsi politica non daretur, cioè mantenendosi totalmente indipendente dagli interessi di questa o di quella parte politica, utilizzando gli spazi disponibili per scelta propria e prescindendo totalmente dalle scelte di questa o quella parte politica. Intendiamoci: l’articolo 8 del decreto legge n. 138/2011 ha molti e gravi difetti; però apre degli spazi che la contrattazione aziendale, magari sulla base di guidelines dettate dalle confederazioni al livello nazionale, avrebbe potuto benissimo occupare già dall’anno scorso.

Il governo che cosa avrebbe dovuto fare, secondo lei?
Avrebbe potuto limitarsi a disporre lo sgravio fiscale, entro limiti massimi predeterminati, per la parte della retribuzione che sia collegata al margine operativo lordo – cioè a un indice disponibile in qualsiasi impresa, anche di minime dimensioni – o ad altro indice di redditività o produttività individuato dalla contrattazione collettiva aziendale. L’incentivo, così, avrebbe funzionato indipendentemente dall’accordo, ma avrebbe fortemente incentivato l’accordo stesso, e in particolare la disposizione più importante che esso contiene.

Cioè quale?
Quella per cui i contratti nazionali dovranno affidare alla contrattazione aziendale la gestione di una parte almeno dell’adeguamento retributivo all’inflazione, attuandolo attraverso premi legati a redditività o produttività aziendale.

È un accordo fondamentale per ridare respiro all’economia italiana?
Condizione necessaria, sì. Sufficiente, no.

Come giudica la decisione della Cgil di non firmare?
In questa scelta, per come è stata motivata, vedo la manifestazione di un ritardo grave, anzi di una vera e propria sclerosi culturale della Cgil. In Germania, che è stata in passato la “patria” del centralismo contrattuale, la sinistra politica e il sindacato sono arrivati già dieci anni fa a un decentramento della contrattazione collettiva persino più spinto rispetto a quanto previsto in questo nostro accordo. Con due aggravanti, a carico della Cgil: l’incoerenza rispetto alla scelta dell’anno scorso di firmare l’accordo interconfederale del 28 giugno, che andava esattamente nella stessa direzione dell’accordo di oggi; e la motivazione tutta politica e non sindacale di questa scelta: una sostanziale ostilità al governo attuale.

Quali ripercussioni avrà il fatto che l’accordo sia stato separato e non condiviso? �
Ne deriva un indebolimento del sistema italiano delle relazioni industriali. Una sua minore indipendenza dalla politica.

Produttività e non solo: la legge di Stabilità (e il governo Monti) hanno fatto troppo poco per la crescita?�
Si poteva e doveva fare di più sul terreno del recupero di efficienza delle amministrazioni pubbliche. Per esempio con l’introduzione obbligatoria del nuovo meccanismo di attribuzione degli incarichi dirigenziali sulla base di obiettivi specifici, misurabili, realistici, collegati a scadenze temporali precise. E del principio della trasparenza totale, attuato mediante regole incisive modellate su quelle dei Freedom of Information Acts  statunitensi e britannici. Quando ci renderemo conto che la full disclosure e la pubblicazione on line di ciascun mandato di pagamento producono da sole effetti straordinari di riduzione e riqualificazione della spesa pubblica, non sarà mai troppo

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