CULTURA E ISTRUZIONE NELLA TERZA REPUBBLICA

LE PAROLE D’ORDINE: MERITO, SEMPLIFICAZIONE, AUTONOMIA E RESPONSABILITÀ, PARI OPPORTUNITÀ DI ACCESSO (PER MEZZO DEI PRESTITI D’ONORE)

Intervento di Stefania Giannini, Rettore dell’Università degli Studi di Perugia, svolto il 17 novembre 2012 a Roma nel corso della convention Verso la Terza Repubblica – In argomento v. anche Dieci domande e dieci risposte su Università e Ricerca

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Il nostro progetto politico per il nostro Paese mette al centro dell’agenda l’istruzione, la cultura e la ricerca, perché la speranza non diventi utopia. Sembrerà paradossale per un paese come l’Italia, ma nessuna forza politica l’ha fatto finora.
Cultura e istruzione sono parte integrante dello sviluppo umano e civile di ciascun cittadino e concorrono in maniera decisiva alla crescita (anche economica) della comunità.
Cultura e istruzione creano le condizioni per lo sviluppo di quei sentimenti diffusi e condivisi di consapevolezza e rispetto per la nostra identità, quella che sentiamo noi, dall’interno del nostro Paese, e quella che ci attribuiscono gli altri, da fuori.
Il patrimonio tangibile (dal paesaggio rurale a quello urbano, i monumenti, i palazzi, le chiese e i musei) e il patrimonio intangibile (le nostre capacità creative e le nostre intelligenze, umanistiche e scientifiche) sono la nostra storia e il nostro futuro. La vera innovazione non può che ripartire da lì.
Si tratta di una visione etica della bellezza che dobbiamo recuperare e affermare.
E allora la cultura potrà tornare ad essere centrale e non periferica, popolare e non elitaria, produttiva e non assistita.
Per dare concretezza a questi princìpi, dobbiamo definire un progetto potente e ambizioso, e fondarlo su una premessa irrinunciabile. Il nostro modello di università e di formazione dovrà insegnare, praticare e sancire il principio che non è la posizione che garantisce la competenza, ma la competenza che legittima la posizione.
Veniamo da una lunga stagione in cui la tutela della posizione, in tutti i campi e in tutti i sensi, è stata linea-guida. Ciò ha generato un Paese statico, bloccato, con conseguenze devastanti per giovani e adulti, per chi dovrebbe entrare e chi vorrebbe uscire dal mondo del lavoro e non ha certezze, per chi vorrebbe trasformare la passione per la ricerca scientifica in un mestiere e trova un muro. E potrei continuare.
Introdurre e applicare con coerenza questo principio a partire dalla scuola e dall’università, da tutti quei luoghi in cui la conoscenza serve a formare le coscienze, significa scegliere la cultura del merito e generare dinamismo. E ne abbiamo un bisogno drammatico.
Le conseguenze non sono petizioni di principio, sono scelte concrete, di metodo e di risultato.
Merito, prima parola d’ordine, significa prima di tutto valorizzare il talento e l’impegno di chi impara e di chi insegna con sistemi di valutazione semplici e trasparenti, per l’accesso, il reclutamento e la progressione in carriera.
Vent’anni di acrobazie normative hanno cambiato di continuo le regole del gioco, senza incidere significativamente sui risultati. Oggi, le procedure spesso soffocano i processi e i sistemi di controllo spesso sostituiscono quelli di valutazione.
Un’altra parola d’ordine è semplificazione.
Non entro qui in tecnicismi incomprensibili. Qualunque strumento di misurazione della qualità del nostro lavoro, anche il più trasparente può diventare un trucco. Dipende dall’onestà e dalla cautela di chi lo usa, certamente. Dipende soprattutto da se e in che misura chi lo usa è riconosciuto come responsabile. Assumere un somaro al posto di uno bravo è più imbarazzante mettendoci la faccia, piuttosto che delegando ad altri. Riaffermare in tutti i ruoli di governo il principio di responsabilità è una priorità politica.
La cultura del merito è nemica della retorica del merito, quella che confonde il diritto allo studio (sacrosanto, inviolabile e sancito dalla Costituzione) con il diritto alla laurea, sogno antico di mamme moderne, e che rischia di far confondere a quelle mamme e a tutta quanta la società italiana il pezzo di carta con le competenze che esso dovrebbe garantire. Se un ragazzino sale su una Ferrari, la mia prima preoccupazione (e anche quella del Presidente Montezemolo, credo) è che la sappia guidare non che abbia la patente.
Il titolo di studio, perché non resti un semplice pezzo di carta, deve tornare a riempirsi di sostanza, cioè di dottrina e competenze. Una generazione di maestri l’ha fatto con noi e noi dobbiamo farlo con i nostri studenti.
Anche qui forse è d’obbligo parlare senza veli: ai “capaci e meritevoli” un Paese avanzato e genuinamente orientato al futuro deve garantire non solo di raggiungere i più alti gradi dell’istruzione (art. 33), ma anche di poter sviluppare al meglio il proprio talento dopo gli studi.
Siamo onesti: dare l’università a tutti indipendentemente dal merito, ma dargliela svalutata è come inflazionare la moneta per far tutti milionari. Cioè una truffa.
Smontare il mito dell’università dell’obbligo è un atto politico coraggioso. Creare al tempo stesso una cultura dell’apprendistato e della formazione professionale qualificata è un atto politico necessario e significa ridare dignità al lavoro e riaffermare la cultura del lavoro.
Ma ciò potrà avvenire solo ad alcune condizioni.
Primo: una buona università che generi e trasmetta conoscenza e competenze multidisciplinari senza condizionamenti dall’esterno (la vera autonomia), ma che sappia anche trasferire contenuti e metodi verso il mondo dell’impresa, delle professioni e delle istituzioni (la vera professionalizzazione).
Secondo: un sistema di orientamento che apra precocemente ai ragazzi altri orizzonti e altre opportunità concrete di formazione qualificata e che finalmente colleghi scuola e istruzione post-secondaria in un progetto unico e articolato.
La sfida moderna dell’istruzione e della formazione professionale è necessariamente polifonica.
Ci sono settori produttivi, arti e mestieri che ci hanno resi famosi nel mondo e in cui l’offerta continua a superare di gran lunga la domanda. In tutti questi settori, cui si deve una fetta non trascurabile della nostra ricchezza (turismo e beni culturali, moda, artigianato e alimentare, e potrei continuare in un elenco a voi noto), l’improvvisazione diventa dilettantismo e la frammentazione produce spreco. Non possiamo più permettercelo.
Gli Istituti Tecnici Superiori sono nati su ispirazione di altre esperienze europee nel gennaio del 2008, allo scopo di riequilibrare il rapporto fra domanda e offerta e di stimolare l’occupazione (D.P.C.M. 25 gennaio 2008, 220 ml.), ma allo scopo andranno ricondotti con scelte coordinate e di sistema, guidandone obiettivi e vocazioni in sintonia con gli obiettivi e le vocazioni imprenditoriali dei territori.
Qualche esempio concreto. Trovo naturale e incoraggiante vedere che dei 59 Istituti esistenti ad oggi sul territorio nazionale, ben 28 formino nuovi professionisti per il made in Italy. Sorprendente che solo 6 siano orientati al turismo culturale e fra questi appena 2 in Italia centrale (Lazio ed Emilia Romagna).
Anche gli ultimi dati Censis (-6.5% di immatricolazioni fra negli ultimi cinque anni, a fronte di un incremento rapido del tasso di iscrizione negli ITS, +1.9%) vanno letti e interpretati in questo quadro più complesso.
Gli obiettivi si raggiungono con strumenti efficaci, alcuni li abbiamo citati, e con risorse economiche adeguate.
Aumentare le risorse per cultura, istruzione e ricerca è un obbligo politico urgente, basta fare un paragone col resto del mondo per capire l’imbarazzo: 11.000 dollari per studente in USA, 8.000 euro la media dei paesi OECD, 6.000 euro in Italia.
Ma non basta. Oggi il costo degli studi universitari, anche quello degli studenti più ricchi, viene scaricato sulla fiscalità generale. Servono meccanismi di vera equità (borse di studio e prestiti d’onore) e criteri premiali per la distribuzione dei fondi nazionali (ormai ridotti all’osso) e dei fondi europei (80 miliardi di euro stanziati). Siamo onesti: non tutti gli istituti di ricerca hanno gli stessi risultati brillanti, né tutti devono essere incoraggiati a fare tutto dappertutto. Serve più specializzazione per riequilibrare le funzioni del sistema.
Allora anche gli investimenti privati, ancora occasionali e timidi in Italia, vanno incoraggiati e incentivati sul piano fiscale e della mentalità. Il credito d’imposta strutturale è uno strumento già sperimentato con successo in molti paesi.
Questo progetto ambizioso va inserito nel contesto europeo e internazionale, perché non muoia sul nascere di quello stesso male che affligge il nostro Paese in molti altri settori e che si chiama provincialismo.
Ci aiutano due parole chiave: competizione e cooperazione.
La competizione stimola condizioni di concorrenza fra atenei nel libero mercato internazionale, le migliori università per i migliori studenti, ma soprattutto per ricchi (Harvard è il paradigma noto), la cultura della cooperazione mira all’inclusione sociale: università di massa con libero accesso per tutti, ma spesso svalutate.
I paesi che hanno privilegiato l’uno o l’altro stanno consumando il loro futuro, perché lasciare l’istruzione superiore a chi se la può permettere indipendentemente dal merito è contro la storia e l’idea stessa di progresso. Così come dare l’università a tutti, ma dargliela svalutata è come inflazionare la moneta per far tutti milionari. Cioè una truffa. Per lo sviluppo di una società globale e mobile, con tassi elevati di immigrazione (+15% nel Sud d’Europa dal 2005) e tassi drammaticamente elevati di disoccupazione giovanile (oltre il 20% in tutta l’eurozona), educazione e cultura devono rispondere ad entrambe le missioni (inclusiva e competitiva) con equilibrio di strumenti, metodi e risorse. Partendo dalla scuola.
Nelle nostre scuole primarie e secondarie, la percentuale di bambini stranieri sfiora il 10%. Spesso sono nati qui e sono frutto di una mobilità forzata, di fughe per disperazione da paesi vicini nello spazio ma lontanissimi nelle condizioni e nelle opportunità di una vita decente presente e futura. Ci chiedono soprattutto istruzione oggi, in lingua e cultura italiana, perché sia lavoro (lavoro qualificato) domani e perché possano loro stessi diventare parte integrante della società italiana. Cittadini italiani, nella forma e nella sostanza.
A questo tipo di mobilità, che non si arresta per decreto, dobbiamo rispondere col dovere educativo di una scuola aggiornata e preparata ad un nuovo esercizio. Prima di aumentare le ore di lezione, si dia l’opportunità concreta ai nostri insegnanti di crescere professionalmente in questo nuovo esercizio e di andare in classe con competenze adeguate. Non credo manchi la loro disponibilità, finora sono mancate le occasioni.
Ma c’è un’altra mobilità fisica e intellettuale, che è libera circolazione di idee e di persone che scelgono di muoversi e che dobbiamo impegnarci a sostenere in entrata e in uscita. Il 3% di studenti stranieri nelle università italiane è meglio di ieri, ma già non basta per l’oggi, figuriamoci domani.
Questa mobilità è esplosa con la generazione Erasmus (anno di nascita 1986) grazie a un progetto rivoluzionario figlio di un’Europa ottimista e lungimirante. Erasmus ha messo in moto 2 milioni di ragazzi europei e ne coinvolgerà 5 milioni entro il 2020. Non possiamo accettare che col taglio annunciato in questi giorni (a Bruxelles già mancano 90 milioni in bilancio) si tradisca una generazione e l’idea stessa di Europa. La crisi economica può dettare misure necessarie e dolorose, ma non deve diventare un alibi alla miopia della politica.

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