I RISCHI DEL DECRETO PER LE “STABILIZZAZIONI”

OCCORRE EVITARE CHE IL TESTO LEGISLATIVO PRODUCA EFFETTI OPPOSTI AGLI INTENDIMENTI DEL GOVERNO, CON UNA SANATORIA PER LA GESTIONE SCORRETTA DEGLI ORGANICI DA PARTE DEL MANAGEMENT PUBBLICO E UN DEPOTENZIAMENTO DELLE DISPOSIZIONI SULLA MOBILITÀ INTERNA ED ESTERNA DEL PERSONALE

Relazione svolta l’11 settembre 2013 alla Commissione Lavoro del Senato sul decreto-legge 31 agosto 2013 n. 101 – In argomento v. anche la lettera inviata da Mario Monti al ministro della Funzione pubblica Gianpiero D’Alia il 4 settembre 2013

RELAZIONE DI PIETRO ICHINO ALL’UNDICESIMA COMMISSIONE SUL D.L. N. 101/2013, RECANTE DISPOSIZIONI URGENTI PER IL PERSEGUIMENTO DI OBIETTIVI DI RAZIONALIZZAZIONE NELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE (A.S. N. 1015)

Premessa e sintesi dei contenuti essenziali della relazione

Il decreto-legge in esame reca numerose norme che interessano l’area di competenza della nostra Commissione, e ancor più l’area destinata a rientrare nella competenza della nostra Commissione quando il relativo perimetro sarà allineato rispetto a quello della Commissione Lavoro della Camera dei Deputati, con l’allargamento alla materia dell’impiego pubblico.
Il provvedimento legislativo urgente si giustifica con esigenze di razionalizzazione dell’organizzazione e della spesa corrente delle amministrazioni pubbliche e in particolare di superamento delle situazioni improprie di lavoro temporaneo in posizioni che dovrebbero essere coperte con personale di ruolo, nonché di prevenzione del ripetersi di comportamenti indebiti da parte dei dirigenti pubblici in materia di gestione degli organici. Esigenze, queste, tutte ampiamente condivisibili. Vi è tuttavia il rischio che alcune disposizioni possano condurre a interpretazioni e/o effetti pratici contraddittori rispetto agli intendimenti dello stesso Governo-legislatore. Nella parte di questa relazione non consistente nella mera esposizione del contenuto delle norme rientranti nella competenza della nostra Commissione, mi propongo di sottolineare essenzialmente questo: occorre evitare che le nuove norme possano avere l’effetto, o anche soltanto l’immagine, di
a)    una sanatoria di comportamenti e scelte scorrette da parte del management pubblico nella gestione del personale e in particolare dei reclutamenti con contratto a termine;
b)    un aggiramento del principio costituzionale dell’accesso alla funzione pubblica mediante concorso aperto a tutte le persone dotate dei requisiti necessari e potenzialmente interessate;
c)    un depotenziamento della norma in materia di mobilità del personale, in seno al settore pubblico, tra uffici in situazione di overstaffing a uffici in situazione di carenza di organici (art. 33 del T.U. in materia di impiego pubblico, d.lgs. n. 165/2001);
d)    una deroga al principio programmatico della spending review e in particolare alla regola della eliminazione di qualsiasi voce di spesa corrente che non sia strettamente e congruamente correlata con una esigenza pubblica essenziale.

La necessità di non depotenziare la norma sulla mobilità del personale pubblico
A proposito del punto c), osservo fin d’ora che l’obbligo imposto dall’art. 33 T.U. ai dirigenti pubblici, di rilevare le eccedenze di organico e provvedere senza ritardo al loro superamento mediante la procedura di mobilità ivi definita, nell’arco dei dodici anni in cui è stato in vigore ha visto inasprire per ben tre volte le sanzioni per i trasgressori (l’ultimo inasprimento è del 2011), ma ha anche visto rimanere quelle sanzioni totalmente disapplicate, al centro e in periferia; più precisamente, – come è confermato dai dati forniti dall’ARAN e da altre rilevazioni – quell’obbligo è rimasto sostanzialmente inattuato. Ora, come vedremo, alcune disposizioni contenute in questo decreto rischiano di depotenziare questo obbligo, direttamente o indirettamente, finendo coll’operare di fatto come sanatorie surrettizie per le omissioni passate da parte del management pubblico; altre disposizioni – in particolare quelle sulla stabilizzazione dei titolari di contratti a termine – appaiono sostanzialmente derogarvi, consentendo che si proceda a immissioni in ruolo in situazioni nelle quali una scopertura di organico potrebbe essere invece risolta con la mobilità di personale già in ruolo, proveniente da uffici dove si registrano eccedenze.

La necessità di non alimentare aspettative occupazionali indebite nei confronti delle p.a.
Quanto al punto d), va osservato (e, dal punto di vista degli equilibri di bilancio, riconosciuto come cosa dovuta) che il decreto pone alcuni requisiti destinati a limitare notevolmente la possibilità di nuove immissioni in ruolo di lavoratori precari, in attuazione delle misure in esso contenute: in particolare il requisito della sussistenza effettiva di una scopertura di organico e quello della sussistenza delle disponibilità finanziarie necessarie. Ora. l’applicazione di queste due regole induce a prevedere che le immissioni in ruolo effettive saranno in numero assai limitato, rispetto alla platea attuale dei lavoratori assunti a termine o impegnati in lavori socialmente utili. Se questo è vero, a maggior ragione occorre evitare il rischio che le nuove misure, senza produrre l’effetto voluto della riduzione del lavoro precario indebito, né quello di alleviare in misura apprezzabile la disoccupazione giovanile, producano invece l’effetto di alimentare tre idee profondamente sbagliate:
–    quella secondo cui il fatto di avere svolto per un certo tempo una prestazione lavorativa a termine in una amministrazione pubblica, o anche soltanto un lavoro di pubblica utilità, conferisca un diritto soggettivo all’immissione in ruolo; come se fosse sufficiente “entrare nel giro” del settore pubblico per acquisire il diritto a restarvi per sempre;
–    l’idea, inoltre, che ogni prospettiva di assorbimento dei fruitori delle misure di job creation fuori mercato si collochi nell’area pubblica, invece che nel tessuto produttivo generale;
–    l’idea, infine, secondo cui un diritto all’immissione in ruolo nasca dal fatto di essere stati inseriti in una graduatoria di “idonei” in un concorso, ancorché questo sia stato celebrato molti anni prima (convinzione che può generare comportamenti dei giovani interessati gravemente inopportuni anche dal punto di vista del loro stesso interesse professionale e occupazionale).

I rischi connessi alla proroga di validità delle graduatorie concorsuali

In tema di graduatorie che ipotecano il futuro delle amministrazioni e delle persone interessate, ricordo il caso-limite dei conservatori musicali, dove l’ultimo concorso si è svolto nel 1990: da allora nessuna immissione in ruolo di insegnanti è avvenuta se non per trasferimento da un conservatorio all’altro, o per chiamata dalla graduatoria degli “idonei” formata all’esito di quel concorso. Poiché per partecipare a quel concorso occorreva essere nati prima del 1967, si può affermare che dal 1967 l’ipotetico Paganini o Verdi che fosse nato in Italia non avrebbe avuto e non avrebbe alcuna possibilità di accedere ai nostri conservatori: gli verrebbe immancabilmente preferito un “idoneo” del concorso del 1990, che magari non ha messo le mani sullo strumento per dieci o anche vent’anni. Questo, certo, è un caso limite: nel decreto-legge al nostro esame si parla soltanto di proroga di tre anni del vincolo di attingere da graduatorie vecchie al massimo di sei anni. Ma anche (sei più tre =) nove anni sono tanti. Comunque, lo schema tende a essere sempre lo stesso; e, come mi propongo di mostrare tra breve (in riferimento ai commi 3 e 4 dell’articolo 4), è uno schema sbagliato.

Il difetto di chiarezza del testo legislativo
Un altro rilievo di carattere generale riguarda la forma in cui questo decreto è scritto: un linguaggio per iniziati, quasi esclusivamente intessuto di riferimenti a date e numeri di norme legislative in vigore, delle quali viene modificato il contenuto con formule comprensibili per lo più soltanto da parte di un numero ristretto di addetti ai sacri misteri. Queste norme sono illeggibili non soltanto per i milioni di persone chiamate ad applicarle, ma anche per la maggior parte dei giuslavoristi e consulenti del lavoro, i quali hanno bisogno di pubblicazioni che le “traducano in italiano” e della frequenza a corsi assai costosi in tempo e denaro; sono illeggibili per i funzionari dell’Unione Europea, i quali considerano la nostra legislazione sostanzialmente non utilmente traducibile. E sono illeggibili per i ministri stessi che hanno sottoscritto il decreto e per noi parlamentari; con la conseguenza di un grave rischio che passino – a nostra insaputa – disposizioni di notevole rilievo, la cui portata, nel corso dell’iter parlamentare, è nota soltanto ai loro ignoti estensori.
Questo carattere del testo legislativo al nostro esame ha ovviamente reso difficile la sua lettura anche a me, nonostante il pregevolissimo lavoro di assistenza svolto dagli uffici della Commissione, ai quali va il mio più vivo ringraziamento. Per quanto impegno io abbia messo nella decifrazione della parte del decreto che in qualche modo rientra nella nostra competenza, non escludo affatto – anche per la ristrettezza del tempo che mi è stato dato – la possibilità di qualche errore di lettura e/o di interpretazione: ne chiedo preventivamente scusa ai Colleghi, pronto a correggere e rivedere mie affermazioni o valutazioni che da quell’eventuale errore siano derivate.

Contenuti specifici del decreto-legge rilevanti in riferimento alle competenze della Commissione

Articolo 2 – Trattamento delle eccedenze di personale

Questo articolo ha per oggetto l’accesso alle amministrazioni pubbliche, l’assorbimento delle eccedenze e la revisione della spesa in materia di personale.
In particolare, i commi da 1 a 3 recano disposizioni in tema di organico eccedentario delle amministrazioni pubbliche e di accesso al pensionamento dei lavoratori in soprannumero, prevedendo, tra l’altro, la proroga o il differimento di alcuni termini temporali in materia. Più precisamente:
– in base alla novella di cui al comma 1, lettera a, numero 4, l’individuazione dei lavoratori eccedentari è operata con riferimento a quelli non riassorbibili – con il pensionamento, la mobilità o il ricorso a forme contrattuali a tempo parziale – entro il termine del 1° gennaio 2016, anziché entro il termine del 1° gennaio 2015; in questo modo potrebbe profilarsi il rischio di una sovrapposizione di personale neo-assunto in posizioni fungibili con quelle di personale eccedentario, e ciò per la durata di tre anni invece che di due (occorrerà che la discussione parlamentare chiarisca la ratio e e consenta di delimitare gli effetti di questa nuova norma);
– la novella di cui al successivo numero 5 sposta dal 30 giugno 2013 al 31 dicembre 2013 il termine entro il quale, qualora il personale non sia riassorbibile entro il suddetto nuovo termine del 1° gennaio 2016, l’amministrazione ne dichiara l’esubero: la disposizione appare finalizzata a sanare omissioni e ritardi registratisi nell’attuazione della normativa in materia di mobilità del personale eccedentario.

Riguardo ai profili pensionistici, la novella di cui al comma 1, lettera a, numero 2), prevede che, per i dipendenti pubblici in soprannumero, trovi applicazione la disciplina pensionistica (relativa ai requisiti per il trattamento e ai termini di decorrenza del medesimo) previgente rispetto alla riforma introdotta dall’articolo 24 del decreto-legge n. 201/2011, e successive modificazioni, qualora, in base a tale disciplina previgente, essi possano conseguire la decorrenza del trattamento entro il 31 dicembre 2015 – anziché entro il 31 dicembre 2014, come previsto dalle norme di “salvaguardia” fin qui emanate. Occorrerà valutare l’opportunità dello scostamento che in questo modo si determina tra i criteri applicati nel settore privato e quelli che vengono introdotti nel settore pubblico.

Il successivo comma 6 dell’articolo 2, con norma di interpretazione autentica (avente, quindi, effetto retroattivo), stabilisce – incidendo, se ben comprendo, su quanto disposto dall’articolo 33 del T.U. sull’impiego pubblico, d.lgs. n. 165/2001 – che l’amministrazione, nel caso di personale in soprannumero, deve procedere al recesso unilaterale dal rapporto di lavoro nei confronti dei soli dipendenti che possano godere del pensionamento secondo la normativa previgente.
Nella relazione introduttiva al disegno di legge di conversione, questa disposizione viene spiegata con “l’esigenza di gestire il processo di assorbimento degli esuberi in maniera ordinata e senza costi di contenzioso per le amministrazioni”: spiegazione che non appare congrua rispetto alla portata effettiva della disposizione. Sarà necessario introdurre nella norma un chiarimento inequivoco.
In particolare, i rischi che devono essere evitati sono:
–    che la nuova norma possa essere letta come una sanatoria generale per tutte le omissioni di attivazione della procedura di mobilità verificatesi in passato;
–    che, per il futuro, la norma possa essere letta come una riduzione della portata della disposizione originaria contenuta nell’articolo 33 del T.U.

I commi 4 e 5 dello stesso articolo 2 recano due ulteriori norme di interpretazione autentica, relative ai limiti di permanenza in servizio per i dipendenti pubblici.
In particolare, il comma 4 chiarisce che il conseguimento, da parte di un dipendente pubblico, di un qualsiasi diritto a pensione entro il 31 dicembre 2011 comporta obbligatoriamente l’applicazione del regime di accesso e dei termini di decorrenza previgenti rispetto all’entrata in vigore del predetto articolo 24 del decreto-legge n. 201/2011.
Il comma 5 chiarisce che, per i dipendenti pubblici, il limite ordinamentale, previsto dai singoli settori di appartenenza per il collocamento a riposo d’ufficio e vigente alla data di entrata in vigore del citato decreto-legge n. 201/2011, non è modificato dall’elevazione dei requisiti anagrafici previsti per la pensione di vecchiaia e costituisce il limite non superabile, se non per il trattenimento in servizio o per consentire all’interessato di conseguire la prima decorrenza utile della pensione (ove essa non sia immediata); al raggiungimento del suddetto limite, l’amministrazione deve far cessare il rapporto di lavoro o di impiego (sempre che il lavoratore abbia conseguito, a qualsiasi titolo, i requisiti per il diritto a pensione).

Articolo 3 – Mobilità interna ed esterna del personale

Il comma 1 di questo articolo prevede esplicitamente che il passaggio da amministrazioni diverse a quella della giustizia, per coprire le note carenze di organico delle cancellerie degli uffici giudiziari, possa avvenire “a domanda dell’interessato”. Vedo il rischio che questa norma possa essere letta come un accantonamento formale e sostanziale della procedura di mobilità del personale tra amministrazioni diverse, di cui all’articolo 33 del T.U.: quest’ultima norma prevede infatti che, laddove si determini una situazione di overstaffing, il dirigente abbia l’obbligo di esperire quella procedura, suscettibile di concludersi anche con il trasferimento unilaterale del lavoratore da una qualsiasi amministrazione a un’altra, o con lo scioglimento del rapporto in caso di rifiuto da parte del lavoratore stesso.

Di questo articolo si segnalano i commi da 2 a 7, in materia di mobilità del personale delle società partecipate da un medesimo soggetto pubblico.

In particolare, il comma 2 autorizza la stipulazione di accordi tra le società suddette, per realizzare – senza necessità del consenso del lavoratore – processi di mobilità tra le stesse. Tali processi (a norma del comma 3) assumono carattere prioritario, rispetto a nuove assunzioni: il che parrebbe doversi interpretare nel senso che nessuna società partecipata possa d’ora in poi assumere nuovo personale senza che sia stata preventivamente verificata l’inesistenza di eccedenze di personale in altre società partecipate dallo stesso soggetto pubblico. Si vuole applicare qui la regola che dovrebbe operare (a norma dell’art. 33 T.U.) in tutto il settore pubblico (e alla quale però il decreto parrebbe derogare con la stabilizzazione dei titolari di contratti a termine, non condizionata all’impossibilità di copertura del posto mediante mobilità interna o tra amministrazioni). Se questa è la lettura corretta della nuova disposizione, occorrerebbe forse che venisse stabilita la necessità di rilascio di un nullaosta per le nuove assunzioni da parte del soggetto pubblico azionista.

Il comma 4 regola la procedura di consultazione sindacale che deve essere esperita ai fini del trasferimento di cui sopra. Stabilisce inoltre che le posizioni di lavoro “dichiarate eccedentarie” all’esito di tale procedura “non possono essere ripristinate nella dotazione di personale neanche mediante nuove assunzioni”: in altri termini, è fatto divieto alle società controllate di sostituire il personale trasferito.
A questo proposito rilevo che la prassi di avvalersi di società per azioni di diritto privato per lo svolgimento di funzioni di interesse pubblico si è affermata nei decenni passati come un modo per conseguire una maggiore flessibilità nell’utilizzazione delle risorse umane (oltre che di quelle finanziarie e materiali): più precisamente, per sostituire il controllo di legittimità sui singoli atti con un controllo circa l’economicità complessiva della gestione e il raggiungimento dei risultati voluti. Se, però, anche in riferimento alle società controllate si introducono nozioni, regole e vincoli propri dell’amministrazione pubblica, quali quelli relativi all’“organico”, questo significa che anche in riferimento alle società controllate si ritorna a un controllo (peraltro meno intenso e rigoroso rispetto a quello cui è soggetta l’amministrazione pubblica intesa in senso stretto) sul rispetto di regole predeterminate piuttosto che sull’economicità complessiva della gestione; sul processo invece che sul prodotto.

Va anche rilevato come il comma 7 autorizzi le società partecipate a farsi carico, per non più di tre anni, di una quota (non superiore al 30%) del trattamento economico del personale interessato dalla mobilità, da esse ceduto ad altre società partecipate. Disposizione, questa, che rischia di essere letta come una certificazione legislativa implicita dell’anti-economicità della gestione presente di alcune almeno delle società a partecipazione pubblica, in netto contrasto con il principio della spending review (se è vero che gli extra-costi operativi delle società partecipate da amministrazioni pubbliche finiscono coll’essere coperti dalle amministrazioni stesse che fruiscono dei servizi forniti da quelle società e ne pagano il corrispettivo).

A norma del comma 5, l’ente controllante provvede in tempi stretti a promuovere le misure necessarie per la riallocazione del personale in eccedenza, nell’ambito della stessa società, mediante il ricorso a forme flessibili di gestione del tempo di lavoro, oppure presso altre società controllate. La riallocazione può avvenire anche presso società controllate da enti diversi, purché (in quest’ultimo caso) nell’ambito regionale. Con specifici accordi, peraltro, si può procedere anche (comma 6) a trasferimenti al di fuori del territorio regionale.
La norma non chiarisce se il trasferimento da una società a un’altra richieda il consenso della persona interessata. Nel caso in cui il consenso sia richiesto, non è chiaro il contenuto pratico della nuova disposizione (poiché con il consento del lavoratore è ovvio che il trasferimento possa avvenire, anche a legislazione invariata: per esempio sotto forma di cessione del contratto di lavoro da una all’altra società controllata); nel caso in cui, invece, la norma andasse letta nel senso che il consenso non sia richiesto, si porrebbe una delicata questione di costituzionalità circa l’ammissibilità della costituzione autoritativa del nuovo contratto di lavoro tra una società di diritto privato e una persona non consenziente.

Articolo 4 – Stabilizzazione dei lavoratori precari e “idonei”

Questo articolo contiene numerose disposizioni, tese, tra l’altro, ad affrontare il problema del precariato nel pubblico impiego, con misure dirette a favorire l’immissione in servizio dei vincitori e degli idonei dei concorsi con graduatorie vigenti e a bandire nuovi concorsi per l’assunzione a tempo indeterminato di personale non dirigenziale, riservati a soggetti che, in virtù di contratti a termine, abbiano maturato un certo numero di anni di servizio alle dipendenze di una amministrazione pubblica.

Il comma 1 si propone di rafforzare il divieto di ovviare alle scoperture di organico con le assunzioni a termine. Il problema, qui, è che questo divieto è già in vigore da lungo tempo ed è già corredato da sanzioni assai rigorose; ciononostante, proprio questo divieto è stato diffusamente disatteso, con la costituzione delle posizioni di lavoro a termine a cui si riferiscono le misure contenute nei commi seguenti, volte a disporne la stabilizzazione. Queste ultime rischiano dunque fortemente di configurarsi, sostanzialmente, come una sanatoria per quegli abusi. È difficilmente superabile l’obiezione secondo cui non ha senso rafforzare sanzioni che non sono mai state applicate: se non sono state applicate quelle precedentemente previste, ancor meno ancor meno verranno applicate queste più severe.

I commi da 3 a 10 si propongono il duplice obiettivo di favorire, entro il 31 dicembre 2015,
a)    l’avvio di nuove procedure concorsuali per l’assunzione a tempo indeterminato, anche con contratti a tempo parziale, di personale non dirigenziale che abbia già svolto servizio con contratto a tempo determinato alle dipendenze dell’amministrazione banditrice;
b)     l’assunzione prioritaria nelle amministrazioni pubbliche di coloro che sono collocati in posizione utile nelle graduatorie approvate dal 1° gennaio 2008 (i cui termini di validità vengono prorogati al 31 dicembre 2015).
Tali obiettivi – precisa la norma – devono essere conseguiti tenendosi conto dell’effettivo fabbisogno di personale delle amministrazioni interessate.

In riferimento al punto a) si pone un problema di notevole rilievo. Il sistema dell’assunzione in ruolo in una amministrazione pubblica mediante concorso riservato a chi sia (o sia stato) titolare di un rapporto di lavoro a tempo determinato con la stessa amministrazione – come previsto dal comma 6 – fa sì che la selezione avvenga non tra tutti i potenziali candidati, ma soltanto tra coloro che sono riusciti ad avere l’assunzione a termine e poi hanno avuto la pazienza di attendere, di rinnovo in rinnovo, la legge di sanatoria. Su questo modo di procedere, che pure è già stato ripetutamente seguìto nel recente passato, può profilarsi una censura di incostituzionalità (art. 97 Cost.), oltre che di inopportunità sul piano politico-sociale. Il problema del superamento del precariato nelle amministrazioni pubbliche dovrebbe invece essere affrontato e risolto – nei limiti delle esigenze di organico effettive – mediante concorsi aperti a tutti, senza alcuna riserva, salva la possibilità di riconoscere a chi abbia svolto servizi con contratti flessibili nelle amministrazioni medesime maggiori punteggi in sede di valutazione dei titoli (opzione già esplicitamente prevista, del resto, dal comma 3-bis inserito nell’art. 35 del T.U. ad opera del comma  401 dell’art. 1 della  legge 24 dicembre 2012, n. 228, con effetto dal 1° gennaio 2013).

Nella relazione introduttiva al disegno di legge di conversione la misura in questione viene giustificata con l’esigenza di superare situazioni di scopertura di organico nelle amministrazioni statali. Può, però, obiettarsi che dove ci siano davvero situazioni di carenza di organico occorrerebbe prioritariamente provvedere al trasferimento di personale nell’ambito delle amministrazioni (cosa che potrebbe essere disposta dal dirigente d’autorità, nell’esercizio delle sue prerogative), oppure da un’amministrazione a un’altra, con la già menzionata procedura prevista dall’articolo 33 del T.U. dell’impiego pubblico, d.lgs. n. 165/2001. Questa norma – se si esclude un caso particolare dovuto a circostanze molto singolari – non è mai stata applicata nei dodici anni in cui è stata in vigore. Il principio della spending review dovrebbe escludere la possibilità che si proceda alla stabilizzazione in una determinata posizione di lavoro a termine prima che si sia verificata la possibilità di coprire il posto con un impiegato che risulti in soprannumero altrove.

Quanto al punto sopra evidenziato sub b, i commi 3 e 4 dispongono la proroga di tre anni dell’obbligo di attingere per le nuove assunzioni dalle graduatorie di concorsi celebrati negli anni passati. In alcuni casi questa disposizione può recare danno all’amministrazione, che viene costretta ad assumere persone che sono risultate anni fa in posizione non di eccellenza nella graduatoria concorsuale. In ogni caso questa disposizione rischia di pregiudicare l’interesse di tutte le coorti di giovani che in questo modo si vedono precludere per molti anni la possibilità di concorrere ai posti di ruolo nelle amministrazioni.
Si obietta che i concorsi pubblici costano e che la disposizione consente un risparmio di questi costi. Senonché il costo dei concorsi pubblici dipende in larga parte dal numero dei candidati che devono essere esaminati e selezionati: celebrare un maxi-concorso ogni sei anni per la selezione di sessanta impiegati non costa molto meno che celebrare sei concorsi, uno ogni anno, ciascuno per la selezione di dieci impiegati. Viceversa, l’amministrazione ha interesse a poter selezionare oggi i dieci migliori candidati in una platea di cui facciano parte anche le ultime coorti di giovani: ciò che evidentemente le viene impedito se le si impone di attingere da chi ha ottenuto un risultato sub-ottimale sei anni fa.

A un apposito D.P.C.M., previsto dal comma 5, è affidata la definizione dei criteri di distribuzione delle risorse finanziarie destinate all’attuazione delle misure contenute nei commi precedenti.
Inoltre, agli enti territoriali è consentito, nel rispetto dei predetti vincoli, di assumere a tempo indeterminato i soggetti compresi in un elenco regionale dei soggetti impiegati in lavori socialmente utili o di pubblica utilità (elenco redatto secondo criteri intesi a privilegiare l’anzianità anagrafica). Mi sembrano pertinenti, a questo proposito, le stesse osservazioni critiche svolte a proposito della previsione di concorsi riservati per i lavoratori che abbiano lavorato a termine per un’amministrazione per più di tre anni.

Sempre fino al 31 dicembre 2015 le amministrazioni che prevedono di svolgere procedure di reclutamento nel prossimo triennio possono prorogare i contratti a termine stipulati con lavoratori che abbiano almeno 3 anni di servizio alle loro dipendenze (disposizione, questa, che appare contraddittoria rispetto all’aggravio delle sanzioni per l’abuso dei contratti a termine, di cui al comma 1 dello stesso articolo 4). Il comma 10 detta disposizioni per l’attuazione delle predette misure da parte delle regioni, delle province autonome e degli enti locali; un apposito D.P.C.M. è previsto per gli enti del Servizio sanitario nazionale.

Il successivo comma 16 introduce un regime semplificato per l’avvio delle procedure concorsuali relative al personale degli enti di ricerca. Occorrerà chiarire la portata effettiva di questa disposizione, che a me non è immediatamente evidente.

Articolo 7 – Assunzioni obbligatorie di appartenenti alle categorie protette

Questo articolo contiene alcune disposizioni concernenti l’applicazione, per le amministrazioni pubbliche, della disciplina generale in materia di assunzioni obbligatorie di soggetti appartenenti alle categorie protette posta dalla legge 12 marzo 1999, n. 68, e dal relativo regolamento di esecuzione, di cui al D.P.R. 10 ottobre 2000, n. 333.
I commi 6 e 7 riguardano, in primo luogo, la definizione della base di computo ai fini della determinazione del numero di soggetti da assumere nell’àmbito delle categorie protette. In merito, si dispone che, per i datori di lavoro pubblici, la base di computo sia costituita – anziché dal numero effettivo dei dipendenti – dalla dotazione organica, qualora quest’ultima, come rideterminata secondo la legislazione vigente, contempli un organico inferiore rispetto al numero effettivo. Tuttavia, sempre in base alle nuove disposizioni in esame, ogni amministrazione, eseguito il ricalcolo suddetto, è obbligata ad assumere un numero di appartenenti alle categorie protette pari all’eventuale differenza tra il numero come ricalcolato dalla medesima amministrazione e quello allo stato esistente. Tali assunzioni devono essere operate in deroga ai divieti di nuove assunzioni posti dalla legislazione vigente, anche qualora l’amministrazione interessata sia in situazione di overstaffing.
Il dipartimento della Funzione pubblica e il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali devono controllare l’adempimento dell’obbligo suddetto.

Il comma 8 corregge alcuni errori materiali nella recente disciplina in materia di credito di imposta per le assunzioni di lavoratori detenuti o internati o per lo svolgimento di attività formative nei loro confronti, disciplina posta dalla novella di cui all’art. 3-bis, comma 2, del D.L. 1 luglio 2013, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 agosto 2013, n. 94. Questa disposizione ha concesso, in favore delle imprese, un credito di imposta mensile, nella misura massima di settecento euro per ogni lavoratore, per le assunzioni sopra menzionate, relative ad un periodo di tempo non inferiore a trenta giorni, o per lo svolgimento di effettive attività formative nei confronti dei soggetti in esame. La suddetta novella di cui all’art. 3-bis, comma 2, del D.L. n. 78 reca inoltre misure specifiche per i detenuti semiliberi.
Il credito di imposta si applica (sempre che, tempo per tempo, prosegua il rapporto di lavoro o l’attività formativa) anche per un periodo di ventiquattro mesi successivo alla cessazione dello stato di detenzione, oppure di diciotto mesi, qualora il detenuto o l’internato abbia beneficiato di misure alternative alla detenzione ovvero del lavoro all’esterno, disciplinato dall’art. 21 della L. 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni.

La riformulazione di cui al comma 8 chiarisce che i lavoratori in questione sono i soggetti “detenuti o internati” – anziché “detenuti e internati”, come nella versione letterale finora vigente – e che il credito di imposta non riguarda esclusivamente i casi di lavoro all’esterno (come poteva indurre a ritenere il capoverso 1 della novella di cui al citato art. 3-bis, in contrasto, peraltro, con il successivo capoverso 3).

Altre disposizioni rilevanti per la competenza della nostra Commissione

I commi 5 e seguenti dell’articolo 1 concernono la spesa per studi e incarichi di consulenza da parte di pubbliche amministrazioni.

L’articolo 10 contiene misure in materia di politiche di coesione. In particolare, si istituisce l’Agenzia per la coesione territoriale, sottoponendola alla vigilanza del Presidente del Consiglio dei Ministri o del Ministro delegato, e si definisce la ripartizione delle funzioni, relative alle politiche di coesione, tra la Presidenza del Consiglio dei Ministri e l’Agenzia medesima.

Conclusione

La mia proposta alla Commissione è dunque nel senso della elaborazione di un parere condizionato all’introduzione, in questo decreto, di tutte le correzioni necessarie per evitare i rischi che mi sono proposto di evidenziare.
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