PERCHÉ IL DECRETO POLETTI SEGNA UNA SVOLTA IMPORTANTE NEL NOSTRO DIRITTO DEL LAVORO

IL MUTAMENTO PROFONDO NELLA DISCIPLINA DEL CONTRATTO A TERMINE E DELL’APPARATO SANZIONATORIO – COME SUPERARE I DIFETTI DI CHIAREZZA DEL TESTO LEGISLATIVO

Intervista a cura di Matteo Rigamonti, in corso di pubblicazione sul mensile Tempi, maggio 2014 – In argomento v. anche I difetti del decreto sul lavoro

 


Il  decreto Poletti segna una svolta importante nell’evoluzione del nostro diritto del lavorto. Così il senatore Pietro Ichino (Scelta Civica) ha scritto in una lettera al Corriere della Sera, I difetti del decreto sul lavoro, riferendosi alla semplificazione del contratto a tempo determinato, che non sarà più considerato «cattivo» e potrà essere stipulato senza indicare la causale, per un periodo massimo di tre anni, con un limite di cinque rinnovi. Ma il decreto presenta anche limiti e difetti, soprattutto perché, «oltre ad essere scritto in modo illeggibile, contiene diverse disposizioni scritte in modo difettoso: dei veri e propri errori tecnici» che comportano un grande «rischio di contenzioso, per la gioia dei soli avvocati». A tempi.it Ichino spiega i pro e i contro del decreto legge sul lavoro.

Professore, che cosa fa del decreto Poletti un testo di legge “storico” in Italia, come lei lo ha definito?
Per la prima volta da più di mezzo secolo, cioè da quando la legge n. 230 del 1962 vietò drasticamente il contratto a termine salvo poche e circoscritte eccezioni, l’ordinamento italiano stabilisce che questo tipo di contratto non è in sé socialmente dannoso o pericoloso; e che, anzi, esso può svolgere una funzione molto positiva nella prima fase di inserimento di una persona in azienda.

Però lo stesso decreto istituisce un limite massimo, quello del 20 per cento rispetto all’organico aziendale stabile, che prima la legge non aveva previsto.
E’ vero. Questo limite viene istituito per rispettare la direttiva europea n. 1999/70, che impone agli Stati membri di adottare almeno una misura limitativa fra le tre ivi indicate: controllo giudiziale sulla motivazione del contratto, limite massimo di durata complessiva del contratto, oppure limite massimo di numero dei contratti a termine rispetto all’organico aziendale. In sostanza, il decreto Poletti sostituisce la prima delle tre tecniche possibili di limitazione con la terza. Ma è proprio questa scelta che assume il significato che dicevo: cioè quello di un mutamento profondo nel modo in cui il contratto a termine è considerato dal nostro ordinamento.

Può spiegarci meglio in che cosa consiste questo mutamento profondo?
Vede, fino a ieri la legge diceva: “il contratto a termine è, in linea generale, vietato; lo si può stipulare soltanto in presenza di una particolare esigenza che eccezionalmente lo giustifichi”. Questo significava, in altre parole: “In assenza di un giustificato motivo, l’apposizione del termine è una clausola di per sé cattiva, che dunque l’ordinamento non riconosce come valida”. Con la conseguenza che, se la motivazione non era considerata adeguata dal giudice, la clausola stessa veniva dichiarata nulla e il contratto veniva convertito in contratto a tempo indeterminato.

Ora non è più così?
No: ora l’ordinamento riconosce che, nella situazione di gravissima incertezza circa il futuro, anche a breve termine, le imprese hanno una diffusa esigenza di poter fare affidamento sulla cessazione del nuovo rapporto anche entro un anno o due, o tre, se le cose andranno male. E, soprattutto, l’ordinamento riconosce che oggi, nella maggior parte dei casi di stipulazione di un nuovo contratto a tempo determinato, l’apposizione del termine costituisce elemento essenziale del negozio: nel senso che senza di essa l’impresa non avrebbe stipulato il contratto. Per questo il legislatore ha deciso che la sanzione per la stipulazione irregolare, cioè per il contratto stipulato in eccesso rispetto al limite del 20 per cento, non può più essere costituita dalla conversione in contratto a tempo indeterminato: perché questa vecchia sanzione, elaborata e applicata in precedenza dalla giurisprudenza, si basava sul presupposto che il termine non fosse elemento essenziale del negozio. Cioè sul presupposto che il contratto sarebbe stato stipulato comunque, anche senza il termine, essendo quest’ultimo apposto soltanto per eludere la normativa sui licenziamenti.

Questo però ora vale soltanto entro il limite del 20 per cento dell’organico. È così sicuro che non valga anche per il restante 80 per cento?
È già un grosso passo avanti così. Diamo tempo al tempo. Sono convinto anch’io che la sicurezza economica e professionale del lavoratore non vada più costruita sull’ingessatura del rapporto di lavoro, ma sul sostegno del reddito e l’assistenza intensiva e qualificata nel mercato, quando il rapporto di lavoro per qualsiasi motivo cessa; e questo riguarda tutti. Per questo abbiamo inserito nel preambolo del decreto il preannuncio della riforma organica, costituita dal Codice semplificato del lavoro che prevederà come contratto normale a tempo indeterminato quello “a protezione crescente”. In altre parole: a fianco di un triennio facile con contratto a termine, ci sarà la possibilità di un triennio facile anche con il contratto a tempo indeterminato. Il cantiere di questa riforma è già aperto in Commissione Lavoro del Senato, con il disegno di legge-delega n. 1428/2014.
Ci sono evidenze che dimostrino che il contratto a termine così come è stato semplificato possa contribuire a nuove assunzioni soprattutto per i più giovani?
Più che aumentare le nuove assunzioni, questa nuova norma consente che aumenti il numero dei rapporti di lavoro che proseguono, che non si interrompono dopo un anno. Perché il contratto a termine libero per il primo anno lo aveva già previsto la legge Fornero del giugno 2012. La speranza, poi, è che la prospettiva più ampia, cioè la possibilità di proroga fino ai 36 mesi, incoraggi le imprese ad assumere, senza lo spauracchio dell’ingessatura del rapporto che scatta dopo il primo anno.

Non c’è il rischio che l’apprendistato, ancora imbrigliato negli obblighi della formazione pubblica e del vincolo del 20 per cento degli apprendisti da stabilizzare, cada in disuso?
La regola che impone l’onere della stabilizzazione del 20 per cento degli apprendisti, per poterne assumere di nuovi, a carico delle imprese con più di 50 dipendenti, costituisce una drastica riduzione del vincolo rispetto a quello previsto dalla disciplina precedente. Quanto all’obbligo relativo al contenuto formativo del rapporto di apprendistato, esso non può essere eliminato: altrimenti non si giustificherebbe il forte sgravio contributivo. L’UE ci ha già condannati, nel recente passato, per gli sgravi contributivi che incentivavano i contratti di formazione e lavoro, nei quali di formazione effettiva c’era poco o nulla. D’altra parte, il forte sgravio contributivo serve proprio a compensare l’obbligo formativo.

Quando l’apprendistato diventerà anche in Italia lo strumento principe dell’inserimento per i più giovani?
Quando avremo imparato a imitare il sistema “duale” tedesco, che realizza una felice complementarietà tra formazione scolastica media secondaria e formazione in azienda. A Trento e a Bolzano lo stanno già praticando: tutte le altre Regioni devono imparare a farlo. E il decreto Poletti contiene una disposizione che indica esattamente questa direzione di marcia.

Lei ha lamentato i limiti di come è stata scritta la legge sostenendo che darà materia di lavoro agli avvocati. Nulla di nuovo, purtroppo, in Italia. Ma ci sono le premesse perché con la delega sul lavoro qualcosa possa cambiare in positivo in questo senso?
L’idea del Codice semplificato del lavoro è proprio questa: rendere la norma legislativa più semplice e chiara, quindi meno suscettibile di produrre contenzioso giudiziale. Per questo, però, sono necessarie almeno due cose: la prima è che si riduca al minimo la legislazione d’urgenza. I tempi stretti della conversione in legge dei decreti-legge mal si conciliano con l’elaborazione di una buona disciplina dei rapporti contrattuali. La seconda esigenza è che il Governo affidi il compito di coordinamento del lavoro di elaborazione legislativa a un bravo giuslavorista, che sia in piena sintonia con il ministro circa gli obiettivi della riforma e che abbia la capacità di coniugare le scelte, e i compromessi politici destinati a maturare in Parlamento sui singoli punti, con l’esigenza della chiarezza e della buona tecnica normativa.

 

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