È “GIUSTO” O NO LICENZIARE IL CENTRALINISTA MONOGLOTTA?

PERCHÉ È BENE CHE IL GIUDICE NON SI INGERISCA NEI MOTIVI ECONOMICI OD ORGANIZZATIVI DEL LICENZIAMENTO E CHE LA SICUREZZA ECONOMICA E PROFESSIONALE DEI LAVORATORI, IN QUESTO CASO, SIA PROTETTA IN UN ALTRO MODO

Nota per la Nwsl n. 313, 28 settembre 2014 – Per una trattazione giuridica approfondita della questione, leggi Appunti sulla nozione di giustificato motivo di licenziamento.

I difensori dell’articolo 18 obiettano al Jobs Act: se il licenziamento è ingiusto, perché mai lo Stato non dovrebbe azzerarne gli effetti reintegrando il lavoratore nel suo posto? La risposta a questa obiezione sta in un’altra domanda: in quali casi si può dire che il licenziamento è “ingiusto”? Se l’ingiustizia sta nel suo essere dettato da motivi discriminatori, non si discute: rientra pienamente nella competenza tecnica del giudice accertarlo e dichiarare la nullità del licenziamento. Ma ha senso affidare al giudice – come facciamo oggi – di stabilire se è “giusto” o no un licenziamento anche quando la questione è di natura esclusivamente economica od organizzativa? I giuslavoristi che vorrebbero mantenere l’ordinamento attuale sostengono che il giudice non entra nel merito della scelta imprenditoriale, limitandosi a verificare che sia veramente quella la causa del licenziamento; in realtà non è quasi mai così.

Per capire come vanno, in realtà, le cose consideriamo il caso di una imprenditrice che licenzi il proprio centralinista monoglotta per sostituirlo con uno che sa l’inglese (ma lo stesso discorso si può fare per la sostituzione di un fattorino senza patente con uno patentato, oppure di una redattrice esperta di moda con una esperta di giardinaggio). Oggi il giudice, investito della questione, se è di orientamento pro-labour, decide  che il licenziamento è “ingiusto” perché il centralinista può essere sottoposto a un rapido corso di inglese elementare, oppure perché egli può essere riutilizzato come addetto alle fotocopie, o per rafforzare la reception, o in altri reparti dell’azienda dove il giudice stesso accerta che una qualche utilizzazione è possibile. Se invece è di orientamento un po’ più pro-business, il giudice svolge un’istruttoria per accertare se sia vero che arrivano delle chiamate telefoniche da persone che parlano solo inglese, determinarne la frequenza (non si licenzia una persona per un paio di telefonate al mese in inglese!), valutare la prospettiva che esse aumentino oppure no nel prossimo futuro, e sulla base di questi dati decidere se la sostituzione del centralinista può essere “giustificata” oppure no. In ognuno di questi casi, il giudice con tutta evidenza si sostituisce all’imprenditore nella gestione aziendale. I criteri della decisione sono comunque largamente imprevedibili nel momento in cui il licenziamento viene deciso.

A me sembra, comunque, che in entrambi i casi – sia quello del giudice pro-labour sia in quello del giudice pro-business – la soluzione sia in qualche modo sbagliata: se il giudice reintegra il lavoratore, per un verso lo conferma in un rapporto nel quale questi è meno produttivo di quanto potrebbe essere spostandosi in un’altra azienda con esigenze diverse e meno stimolato ad accrescere la propria formazione, per altro verso riduce la competitività dell’azienda soccombente; se invece il licenziamento viene convalidato, come pure talvolta avviene, il lavoratore si trova per strada abbandonato a se stesso senza un euro di indennizzo. Meglio lasciare che il giudice si occupi soltanto di accertare le discriminazioni e rappresaglie (sa farlo perfettamente, come dimostra l’esperienza ultra-quarantennale della giurisprudenza in materia di comportamenti antisindacali); e affidare la protezione della sicurezza economica e professionale del nostro centralinista, invece che alla roulette russa del giudizio, che può anche vedere lui stesso soccombente, a un sistema efficace di assistenza economica e professionale nel mercato, fatta di sostegno del reddito, di un servizio efficiente di outplacement e di riqualificazione mirata agli sbocchi effettivamente esistenti.

 

 

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