RISPOSTA A BOMBASSEI SUL COSTO DEL LICENZIAMENTO NEL SISTEMA DI FLEXSECURITY

REPLICA AL VICEPRESIDENTE DI CONFINDUSTRIA, CHE HA PRESO LE DISTANZE DAL DISEGNO DI LEGGE, SOSTENENDO CHE ESSO GENEREREBBE SOLO RIGIDITA’ E COSTI TROPPO ALTI PER LE IMPRESE
Articolo pubblicato su Il Riformista del 15 maggio 2009

     In un’intervista al Corriere della Sera del 9 maggio Alberto Bombassei dichiara, per un verso, il suo pieno consenso al Libro bianco del ministro Sacconi e, per converso, un netto dissenso dal disegno di legge n. 1481/2009 per la transizione a un regime di flexsecurity, che i visitatori di questo sito ben conoscono. La critica al progetto è espressa in questo modo: “[esso] toglie ogni forma di flessibilità e rende costosissima ogni ipotesi di risoluzione del rapporto di lavoro”.

     1. Flessibilità. In sostanza, se ben comprendo, al Vice-Presidente di Confindustria sta bene il sistema attuale, che consente alle aziende di attingere tutta la flessibilità di cui hanno bisogno dai dipendenti che hanno la (s)ventura di essere assunti con contratto a termine, o di lavoro “a progetto”, opppure di vedersi imporre il regime della “partita Iva”. Capisco la preferenza per questo sistema – che chiamiamo “regime duale” del mercato del lavoro – espressa da molti imprenditori; ma esso non sta bene, invece, ai molti lavoratori che in queste forme di bad jobs sono rimasti impigliati da anni, agli appartenenti alle nuove generazioni che incontrano difficoltà sempre maggiori a entrare nella parte protetta del sistema, perché è impedito loro di competere con gli appartenenti alle generazioni precedenti. A me sembra che non dovrebbe star bene neppure al Vice-Presidente di Confindustria, se egli – come credo – appartiene al novero di coloro che attribuiscono un valore sostanziale al merito, nel mondo del lavoro.
     Il disegno di legge n. 1481/2009 mira a redistribuire la flessibilità necessaria al sistema su tutti i rapporti di lavoro dipendente che verranno costituiti d’ora in poi. Ne risulterà non una riduzione, bensì al contrario un aumento della flessibilità complessiva del sistema, perché nessuno dei nuovi rapporti di lavoro garantirà più a chi ne è titolare l’inamovibilità. Ma questo aumento della flessibilità sarà compensato dalla riduzione dei rapporti di lavoro a termine, dall’eliminazione di quelli di falso lavoro autonomo e dall’obbligo per le imprese di prendersi cura della sicurezza nel mercato del lavoro dei propri dipendenti a tempo indeterminato che perdono il posto.

     2. Costo del licenziamento per le imprese. Dove si applica il nuovo regime delineato nel disegno di legge, nella peggiore delle ipotesi, quando cioè nell’intero periodo massimo di quattro anni non si riesca a ricollocare il lavoratore licenziato, il costo del suo trattamento di disoccupazione per l’impresa è pari al (90 + 80 + 70 + 60 =) 300% dell’ultima retribuzione annua, meno il trattamento di disoccupazione ordinaria (60% per i primi sei mesi = 30% del primo anno) o del trattamento speciale (80% per i primi dodici mesi = 80% del primo anno). Il costo massimo del trattamento complementare di disoccupazione, dunque, varia dal 270 al 220% dell’ultima retribuzione annua. Poiché il disegno di legge non prevede oneri contributivi a carico dell’impresa sul trattamento complementare di disoccupazione, il suo costo massimo è in realtà, rispettivamente, pari all’incirca al 180% del costo aziendale di un anno di prosecuzione del rapporto, dove si applichi il trattamento di disoccupazione ordinaria, al 150% dove si applichi il trattamento di disoccupazione speciale. A questo si aggiunge l’indennità di licenziamento (una mensilità di retribuzione per anno di anzianità di servizio), che aumenta il costo del licenziamento in misura diversa da caso a caso; nel caso di anzianità di sei anni, il costo massimo complessivo sarà del (180 + 50 =) 230% del costo annuale dove si applica il trattamento ordinario, mentre sarà soltanto del (150 + 50 =) 200% dove si applica il trattamento speciale. Non sono molto diversi gli importi medi che le aziende spendono oggi per i piani di “incentivazione all’esodo”.
     Quelli indicati, però, sono i costi massimi, conseguenti a una grave difficoltà di ricollocazione del lavoratore. Occorre invece considerare l’ipotesi normale, nella quale è possibile ricollocare il lavoratore nel giro di pochi mesi. In questo caso, il sostegno del reddito è dovuto soltanto per quei pochi mesi, durante i quali il costo del trattamento complementare è limitato al 30% dell’ultima retribuzione (se si applica il trattamento ordinario di disoccupazione) o al 10% (se si applica il trattamento speciale). Nell’ipotesi di licenziamento cui segue un periodo di disoccupazione di sei mesi, in situazione in cui si applica il trattamento di disoccupazione ordinario, il costo per l’azienda dell’indennità complementare ammonta a meno di due mensilità di retribuzione; se l’anzianità di servizio del lavoratore è di sei anni, l’indennità di licenziamento ammonta ad altre sei mensilità; il costo complessivo dell’operazione ammonta a meno del 50% del costo annuo di prosecuzione del rapporto.

     3. Costo occulto per le imprese del regime attuale. Quelli indicati, dunque, sono in via approssimativa il costo massimo e il costo normale del licenziamento nel regime di flexsecurity delineato nel disegno di legge. Quello che Alberto Bombassei non considera, e che invece deve essere attentamente considerato, è il costo dell’impossibilità di licenziare, in una situazione in cui il rapporto di lavoro prosegue sostanzialmente in perdita per l’impresa. Questa situazione si verifica di fatto, nel sistema attuale, in tutti i casi in cui il rapporto che si svolge in perdita è soggetto al regime dell’articolo 18 St. lav.: l’orientamento giurisprudenziale con cui generalmente le imprese devono fare i conti è infatti quello secondo cui il licenziamento non disciplinare si giustifica soltanto se l’impresa è attualmente in crisi, se il bilancio è già in rosso (mentre in un tessuto produttivo ben funzionante l’aggiustamento dovrebbe prevenire la crisi). Questo spiega perché sia molto diffusa la situazione dell’azienda che mantiene un cinque o un dieci per cento – ma talvolta anche il quindici o il venti – di personale in più di quanto le sarebbe davvero necessario, pur senza alcuna prospettiva di riportare “in attivo” il bilancio di quei rapporti di lavoro.
     Se il Vice-Presidente di Confindustria concorda sull’esistenza e diffusione di questa situazione, egli deve riconoscere che il regime attuale dei licenziamenti impone alle imprese un costo non contabilizzato, pari alla perdita prodotta dalla parte di rapporti di lavoro “con bilancio in rosso” che – mancando adeguati servizi nel mercato del lavoro – non possono essere risolti finché non va in rosso il bilancio dell’intera azienda. Egli – credo – concorderà con me sul punto che questo costo non contabilizzato è, in generale, nettamente superiore rispetto al costo del licenziamento nel regime delineato nel disegno di legge n. 1481/2009 (v. sopra, § 2).
     D’altra parte, anche i lavoratori hanno interesse a non restare aggrappati a rapporti nei quali il loro lavoro è male valorizzato:  la maggiore fluidità del tessuto produttivo consentirà, con la migliore allocazione delle risorse umane e valorizzazione del lavoro, un aumento generale delle retribuzioni.

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