APPUNTI SULLO SCARSO RENDIMENTO NEL RAPPORTO PRIVATO E IN QUELLO PUBBLICO

IL LICENZIAMENTO PER SCARSO RENDIMENTO COME MOTIVO SIA DISCIPLINARE SIA OGGETTIVO, GIÀ OGGI AMMESSO DA GIURISPRUDENZA E DOTTRINA, È STATO RESO IMPRATICABILE DALL’ARTICOLO 18 (E NEL SETTORE PUBBLICO DA MECCANISMI CHE FAVORISCONO LA RINUNCIA DEI DIRIGENTI A ESERCITARE LE PROPRIE PREROGATIVE)

Nota tecnica per la Nwsl n. 327, 3 gennaio 2015 – Su questa e altre questioni relative allo schema di decreto sul contratto a tutele crescenti approvato dal Governo il 24 dicembre 2014, v. Storia segreta, articolo per articolo, del decreto sul contratto a tutele crescenti

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Si discute molto, in questi giorni, di licenziamento per scarso rendimento. Sia perché il Presidente del Consiglio ha ipotizzato di un intervento legislativo per attivarlo nel settore pubblico, sia perché nello schema di decreto sul contratto a tutele crescenti è stato invece omesso il chiarimento esplicito sul punto che lo scarso rendimento può giustificare il licenziamento non solo sul piano disciplinare, quando il datore di lavoro imputi alla persona interessata negligenza, ma anche sul piano economico-organizzativo, come giustificato motivo oggettivo.

Va detto subito che la Cassazione si è pronunciata almeno due volte anche molto recentemente, in modo molto netto, nel senso della possibilità che lo scarso rendimento costituisca (oltre che eventualmente motivo disciplinare) anche motivo oggettivo di licenziamento: Cass. 5 marzo 2003 n. 3250 (in Riv. it dir. lav. 2003, I, p. 689); Cass. 4 settembre 2014 n.18678, per ora inedita; e non si è pronunciata mai in senso contrario. Nello stesso senso della Cassazione è da sempre orientata anche la dottrina nettamente prevalente. Dove sta dunque il problema?

La difficoltà nasce sul piano pratico, come conseguenza dell’applicazione dell’articolo 18 dello Statuto. Se, in una situazione di evidente grave difetto quantitativo o qualitativo della prestazione, il licenziamento viene intimato per motivo disciplinare, è molto difficile dimostrare che lo scarso rendimento sia dovuto davvero a colpa del lavoratore e non a una sua incapacità oggettiva; anche perché il confine tra le due cause è molto labile e suscettibile di valutazioni divergenti. Donde un alto rischio di soccombenza giudiziale del datore; e con l’articolo 18 per il datore basta perdere anche una sola delle manches del giudizio perché il costo sia molto alto. Se invece il licenziamento viene intimato per scarso rendimento come motivo oggettivo, è alta la probabilità che in almeno una delle manches del giudizio si incontri un giudice orientato a ritenere che in realtà si tratti di un licenziamento “ontologicamente disciplinare”: quindi invalido perché intimato senza la preventiva contestazione al lavoratore. Questo è, in estrema sintesi, il motivo per cui il licenziamento per scarso rendimento ha avuto fin qui scarsissimo corso nelle imprese italiane, a differenza di quanto accade negli ordinamenti di tutti i maggiori Paesi d’oltralpe: un fattore, questo, che insieme ad altri ha presumibilmente contribuito in qualche misura alla bassa produttività media del lavoro nel nostro Paese.

Nel settore pubblico, poi, all’ostacolo di cui si è detto si è aggiunta l’inerzia dei dirigenti, favorita dalle pastoie procedurali interne alle amministrazioni e motivata altresì dal rischio di vedersi addebitare, nel caso di soccombenza in giudizio, il “danno erariale” conseguente alla condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno subito dal lavoratore.

In questo contesto si inserisce il decreto sul contratto a tutele crescenti, con il quale il Governo-legislatore delegato si propone di voltar pagina in modo deciso e inequivoco rispetto al regime fondato sul principio della job property, per instaurare un regime fondato su di una responsabilità indennitaria predefinita (liability rule) dell’imprenditore in caso di licenziamento. L’intendimento del legislatore è nel senso che nel nuovo ordinamento, essendo escluso che il difetto di prova circa il giustificato motivo oggettivo (sempre difficilissimo da dimostrare in giudizio) possa determinare la reintegrazione, l’imprenditore possa procedere allo scioglimento del rapporto potendo fare affidamento sul fatto che il costo di separazione non supererà comunque il limite predefinito dell’indennizzo, crescente col crescere dell’affidamento reciproco delle parti. E poiché – come si è visto all’inizio – dottrina e giurisprudenza prevalente concordano nell’affermare che lo scarso rendimento può costituire anche giustificato motivo oggettivo di licenziamento, l’intendimento del legislatore delegato è nel senso di consentire che l’imprenditore proceda al licenziamento in tutti i casi in cui si attenda dalla prosecuzione del rapporto di lavoro, a causa appunto di un difetto della prestazione, una perdita superiore al costo di separazione predeterminato: valutazione e scelta imprenditoriale di cui si vuole assicurare una vera insindacabilità (non garantita nel regime attuale). Salvi, ovviamente, il divieto di licenziamento del lavoratore malato prima della scadenza del periodo di comporto, e il divieto di licenziamento discriminatorio nei confronti del lavoratore disabile in quanto tale.

Quest’ultima precisazione, relativa al divieto di discriminazione nei confronti del lavoratore disabile, è esplicitata nel testo del decreto approvato dal Governo con una disposizione poco chiara nel contenuto testuale, collocata nel comma 3 dell’articolo 1: “La disciplina di cui al comma 2 [reintegrazione] trova applicazione anche nelle ipotesi in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione per motivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68”, cioè della legge sul collocamento obbligatorio dei disabili. Questa disposizione deve essere certamente interpretata come una specificazione del divieto di discriminazione dei disabili: la legge-delega, infatti, è molto netta nell’escludere la sanzione reintegratoria in tutti i casi di licenziamento per motivo oggettivo (se la disposizione venisse invece interpretata come comminatoria della reintegrazione in un caso di licenziamento per motivo economico-organizzativo, essa sarebbe incostituzionale per eccesso di delega). Ma il divieto di discriminazione dei disabili tutela, appunto, le persone qualificate come tali. Non può dunque applicarsi dove il lavoratore in questione non sia portatore di alcuna menomazione fisica o psichica qualificabile come “disabilità” ai fini del divieto di discriminazione.

In conclusione, il licenziamento per scarso rendimento come giustificato motivo oggettivo, fin qui ammesso da giurisprudenza e dottrina ma difficilmente praticabile principalmente a causa degli effetti peculiari dell’apparato sanzionatorio fondato sull’articolo 18, nel nuovo ordinamento diventerà effettivamente praticabile, sia nel settore privato, sia nel settore pubblico (se si lascerà che il nuovo ordinamento si applichi anche in questo: sulla questione v. FAQ sull’applicabilità del contratto a tutele crescenti nelle amministrazioni pubbliche). Altra è la questione che riguarda l’attitudine dei dirigenti pubblici a esercitare le prerogative che loro competono in questo campo e i meccanismi interni di governance delle amministrazioni pubbliche che possono al tempo stesso incentivarne l’esercizio incisivo e prevenirne un uso clientelare o persecutorio nei confronti dei singoli impiegati (in proposito v. ancora le FAQ testé citate).

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