IL DIBATTITO TRA I GIUSLAVORISTI SULLA JOB PROPERTY

Nonostante la critica di Luca Nogler, è corretto classificare il vecchio articolo 18 come una property rule, secondo la tripartizione proposta da Calabresi e Melamed, anche se esso regolava un diritto di credito – Il problema è come costruire la sicurezza del lavoratore con materiali nuovi, adatti all’era della quarta rivoluzione industriale

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Risposta su lavoce.info del 10 giugno 2019 a un commento, apparso il 7 giugno sullo stesso sito
, al mio articolo La Cassazione e il Jobs Act, del  24 maggio precedente
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IL COMMENTO AL MIO ARTICOLO

Massimiliano D.

Perché lei insiste nel qualificare l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (versione originaria del 1970) come una property rule, in contrapposizione alla categoria delle liability rules, quando i suoi stessi colleghi giuslavoristi le hanno ricordato (per primo Luca Nogler, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2012) che questa norma si limita a disporre una sanzione di “esecuzione dell’obbligo in forma specifica”, applicabile a molti altri diritti di credito, quindi del tutto al di fuori dell’area dei diritti di proprietà? Perché dunque insistere nel parlare di job property?

LA MIA RISPOSTA

Tra i commenti al mio articolo su La Cassazione e il Jobs Act, richiede una risposta quello di Massimiliano D., il quale richiama un’obiezione rivoltami sette anni fa da un collega giuslavorista (Luca Nogler, sul Giornale di diritto del lavoro e delle relazioni industriali, 2012, pp. 661-688) sul concetto giuridico di job property: un’obiezione che riemerge spesso nel dibattito sulla riforma dei licenziamenti attuata in Italia tra il 2012 e il 2015.

Per comprendere la questione occorre avere presente la tripartizione delle norme giuridiche, proposta mezzo secolo fa da Guido Calabresi e Douglas Melamed, fra inalienability, property e liability rules, che costituisce oggi uno dei pilastri della teoria generale del diritto e dell’approccio di Law & Economics al diritto privato. Le norme del primo tipo istituiscono un diritto al quale non si può rinunciare in alcun modo: per esempio il diritto all’integrità del proprio corpo. Le property rules, invece, istituiscono un diritto del quale il titolare può disporre, fissandone liberamente il prezzo: per esempio un qualsiasi diritto di proprietà, oppure il diritto alla propria immagine, o alla propria sfera di riserbo personale. Le liability rules, infine, sono quelle che consentono ad altri soggetti di sacrificare l’interesse del titolare del diritto, pagandogli un risarcimento di entità prestabilita: si pensi, per esempio, alla penale pagando la quale ci si può liberare da un vincolo contrattuale.

Sulla base di questa tripartizione, fin dalla metà degli anni ’90 avevo sostenuto che la protezione della stabilità del posto di lavoro contenuta nell’articolo 18 St. lav. configurava sostanzialmente una property rule. Quella norma, infatti, istituiva un apparato sanzionatorio che poteva generare risarcimenti pressoché illimitati, in quanto proporzionali alla durata di un processo che poteva articolarsi in tre, cinque e persino sei o sette gradi. Osservavo, in proposito, che quei costi elevatissimi potevano derivare dal licenziamento anche nel caso in cui alla fine l’impresa risultasse vincente, se nel primo grado essa era risultata soccombente, stante la provvisoria esecutività della sentenza del primo giudice. Osservavo, infine, come la minaccia di costi elevatissimi anche per licenziamenti determinati da motivi assai ragionevoli derivasse dalla notevole frequenza di sentenze gravemente irragionevoli, come quelle citate nel mio articolo del mese scorso. Ho proposto una rassegna dei casi di questo genere più clamorosi, ma niente affatto rari, nel primo capitolo de Il lavoro ritrovato (2015).

A questa applicazione da me proposta della tripartizione di Calabresi e Malamed alla materia della disciplina dei licenziamenti è stata mossa un’obiezione che a me sembra travisare quella tripartizione. L’articolo 18 nella sua versione originaria – sostiene il giuslavorista Luca Nogler, nell’articolo ora citato da Massimiliano D. – non è altro che una garanzia di “esecuzione in forma specifica” dell’obbligazione del datore di lavoro, prevista dal Codice civile anche per numerosi altri casi di diritto di credito. Perché dunque parlare di property rule, e quindi di un regime di job property, quando invece si tratta di un apparato sanzionatorio sostanzialmente analogo a quello vigente per molti altri diritti di credito?

Il travisamento della tripartizione inalienability/property/liability, se non sono io a prendere un abbaglio, sta in questo: che nella categoria delle property rules, come proposta da Calabresi e Malamed, rientrano non soltanto norme istitutive di diritti assoluti, e in particolare di diritti di proprietà, bensì anche norme mirate alla protezione di diritti di credito. In particolare, proprio le norme che prevedono l’“esecuzione in forma specifica” di una obbligazione attribuiscono al creditore il potere di stabilire liberamente il prezzo della rinuncia al proprio diritto: sono, cioè, secondo quella classificazione, delle property rules.

L’idea della job property, beninteso, non nasce con l’articolo 18 dello Statuto del ’70: prima ancora che l’effetto di una norma giuridica, la j.p. è il portato di una cultura del lavoro radicata nel nostro continente da almeno un secolo. L’articolo 18 non ne è stato certo la causa, quanto piuttosto una conseguenza. Il problema è come sostituire questa idea con quella di una sicurezza economica e professionale della persona che lavora costruita con materiali più adatti all’era della globalizzazione e della quarta rivoluzione industriale.

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