IL CAPITALE SOCIALE CHE MANCA ALL’EX-ILVA

Per un piano industriale complesso e impegnativo quale quello necessario per rilanciare l’acciaieria di Taranto, il problema maggiore è il difetto della fiducia reciproca che nasce da un senso civico diffuso, senza il quale qualsiasi paese è condannato a languire nell’arretratezza

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Articolo pubblicato sul sito lavoce.info il 29 novembre 2019 – In argomento v. anche i due editoriali telegrafici del 18 novembre, Ilva – 1. Il costo del difetto diffuso di senso civico, e  Ilva – 2. Il costo della volatilità delle norme; inoltre l’articolo di Giuliano Cazzola del settembre 2018, Ilva: chi ha vinto e chi ha perso

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Mezzo secolo di disinteresse per il futuro

All’inizio degli anni ’60 lo Stato insedia un’acciaieria nel territorio comunale di Taranto, senza una zona di rispetto per la protezione dell’abitato. Negli anni successivi Comune e Regione – abdicando ai propri poteri di governo urbanistico – consentono uno sviluppo insensato degli insediamenti residenziali intorno allo stabilimento, ignorandone del tutto le emissioni inquinanti. Nel 1995 l’acciaieria viene ceduta a una famiglia di industriali, i quali per un verso fanno propria l’incuria per l’impatto ambientale della produzione che ha caratterizzato la gestione precedente, per altro verso considerano come normale costo di produzione la distribuzione di prebende e sovvenzioni a istituzioni pubbliche e a privati, ivi compresi i partiti e la Diocesi, atte a anestetizzare tutti quanti di fronte ai danni causati dallo stabilimento. E per quindici anni i destinatari di quelle regalie si lasciano volentieri anestetizzare.

Le radici profonde del dramma attuale del centro siderurgico pugliese vanno cercate nell’accordo tacito che per quasi mezzo secolo ha unito tutti nel disinteresse per il futuro.

Nel 2012 la magistratura manda in prigione per disastro ambientale e altri reati connessi i titolari dello stabilimento, che l’anno dopo viene commissariato. Da allora viene avviato un nuovo piano di riduzione drastica delle emissioni inquinanti, che incomincia pian piano ma tangibilmente a produrre risultati apprezzabili. Nel 2016-2017 una gara controllata dall’Unione Europea porta a individuare nell’offerta del grande gruppo franco-indiano ArcelorMittal la soluzione più vantaggiosa per il rilancio dell’acciarieria; nel contratto di affitto dello stabilimento si prevede anche come condizione essenziale, il permanere dell’esenzione da responsabilità penale per reati ambientali – il cosiddetto “scudo penale” – già in vigore, fermo restando l’obbligo civile di proseguire il piano di bonifica e abbattimento delle emissioni nocive. La norma contenente lo “scudo”, emanata in precedenza per dare copertura alla gestione commissariale dello stabilimento, si giustifica anche in considerazione dell’incertezza dei confini dell’illecito penale in una situazione nella quale gli effetti dell’inquinamento ambientale sono in gran parte dovuti al comportamento delle gestioni precedenti.

La linea dello smantellamento dell’impianto

In seguito all’intervento giudiziale del 2012, intorno allo stabilimento vengono formandosi due correnti di opinione: una favorevole a proseguire nell’opera di bonifica e di modernizzazione della struttura produttiva, sulla scorta dei molti esempi di acciaierie con impatto ambientale accettabile, e una rinunciataria, tendente alla chiusura dello stabilimento, considerato irrimediabilmente incompatibile con la tutela ambientale. Quest’ultima è la corrente che ultimamente sembra avere la meglio: l’idea della chiusura dello stabilimento finisce col diventare la parola d’ordine sulla quale nel marzo 2018 il Movimento 5 Stelle stravince le elezioni in Puglia, e a Taranto in particolare. Nel corso della nuova legislatura saranno poi ministri e deputati di questo partito a operare più o meno apertamente per provocare la chiusura dello stabilimento, facendo leva anche su alcuni provvedimenti giudiziari ulteriori, nonché su alcuni comportamenti poco trasparenti del nuovo imprenditore.

Il forno 5

Incomincia a diffondersi la notizia secondo cui questi sarebbe solito acquistare gli stabilimenti di imprese concorrenti in giro per il mondo per poi chiuderli; ma il costo per la multinazionale, se il progetto fosse davvero questo, è troppo alto perché la notizia sia credibile. La realtà è che negli ultimi mesi una forte flessione della domanda di acciaio riduce l’interesse di Arcelor Mittal a far funzionare a pieno volume lo stabilimento di Taranto. Su questo calo di interesse si innesta la gaffe – se tale può considerarsi – del Governo, che abolisce lo “scudo”, ripristinando con effetto dai primi di novembre la sanzione penale, così legittimando il recesso della multinazionale dal contratto di affitto. Poi il Governo se ne pente e prova a proporle il ripristino; ma ormai la frittata è fatta. Al pari dell’onorabilità delle persone, anche l’affidabilità di un ordinamento legislativo richiede molto tempo per essere costruita, ma basta un giorno per distruggerla.

Il deterioramento del capitale sociale indispensabile per il rilancio

Ora chiediamoci: perché a Taranto, e forse anche a Roma, sulla prospettiva della bonifica e rilancio dell’acciaieria sembra oggi prevalere l’idea della chiusura, che è in ultima analisi una applicazione concreta dell’utopia della “decrescita felice”? La risposta che coglie la parte maggiore della realtà è probabilmente questa: dopo decenni di incuria e collusione delle quali tutti sono stati in qualche misura partecipi, nessuno si fida più di nessuno.

Questo difetto drammatico di fiducia reciproca tra le parti interessate, che è l’altra faccia di un difetto endemico di civicness diffusa, è rovinoso per qualsiasi progetto ambizioso mirato a conciliare il grande insediamento produttivo con la tutela ambientale e la salute dei cittadini. Perché ci si possa collocare in questa prospettiva è indispensabile un clima fondato sul riconoscimento reciproco di affidabilità tra la cittadinanza, l’imprenditore, i sindacati dei lavoratori, il governo locale e quello centrale, la magistratura, i servizi ispettivi: affidamento sulla prospettiva che ciascuno farà lealmente e con scrupolo la sua parte. Ma come si fa ad avere fiducia nell’onestà e scrupolo dell’imprenditore, quando questo ruolo è stato svolto per oltre quindici anni dal vecchio imprenditore privato nel modo di cui si è detto? Viceversa, come fa il nuovo imprenditore ad avere fiducia nello Stato, se nel Governo e in Parlamento il partito di maggioranza relativa auspica più o meno apertamente la chiusura dello stabilimento e si comporta di conseguenza?

Per un piano industriale complesso e impegnativo quale quello necessario per rilanciare l’acciaieria di Taranto, il problema maggiore non è reperire il know-how e le ingenti risorse economiche indispensabili: il problema maggiore è il difetto del “capitale sociale”, cioè di quel senso civico diffuso, senza il quale qualsiasi paese è condannato a languire nell’arretratezza.

Ricostruire la fiducia reciproca indispensabile per una ambiziosa scommessa comune

Nella vicenda dello stabilimento pugliese i soli soggetti che oggi forse potrebbero, mediante una forte e limpida intesa tra loro, proporsi di rompere il circolo vizioso della sfiducia reciproca di tutti verso tutti sono il sindacato e il Governo centrale. Sarebbe indispensabile, però, che quest’ultimo fosse capace mettere a tacere in modo netto i sostenitori della chiusura dello stabilimento in funzione della decrescita felice. Occorrerebbe, dunque, un Governo in grado di assicurare la stabilità del quadro normativo, ivi compreso il vincolo di un preciso crono-programma di risanamento ambientalistico dello stabilimento e il ragionevolissimo “scudo penale” collegato a quel programma; in grado altresì di attivare le garanzie sociali necessarie per i lavoratori che dovessero perdere il posto in conseguenza di riduzioni strutturali di organico. Occorrerebbe, poi, un sindacato capace di rappresentare i lavoratori dello stabilimento, ma in qualche misura anche la cittadinanza tarantina, nella negoziazione di una scommessa comune con il nuovo imprenditore su di un piano industriale credibile e ambizioso, centrato sul vincolo del risanamento ambientalistico secondo i migliori modelli disponibili nel panorama mondiale della produzione di acciaio, e su forme penetranti di controllo dei lavoratori stessi sul suo rispetto; ma caratterizzato anche dalla disponibilità dei lavoratori a farsi carico della flessibilità produttiva che le oscillazioni del mercato dell’acciaio impongono; e dalla predeterminazione di premi congrui che matureranno a credito dei lavoratori stessi via via che gli obiettivi del piano verranno realizzati.

Il punto è che, per svolgere efficacemente questo ruolo di ricostruttore di un clima di fiducia reciproca tra l’imprenditore, le istituzioni e tutti gli stakeholder, il sindacato deve esso per primo saper costruire con l’imprenditore un rapporto di fiducia reciproca. Il che implica, certo, l’attivazione di adeguati strumenti di controllo sulla gestione e l’andamento aziendale, ma implica anche, in qualche misura, la capacità del sindacato stesso di attivare nel proprio cervello i neuroni-specchio che gli consentano di… gioire e soffrire per gli stessi eventi per i quali gioisce e soffre l’imprenditore. E quest’ultimo deve a sua volta saper fare lo stesso nei confronti dei lavoratori dipendenti. Senza un po’ più di neuroni-specchio, da una parte e dall’altra, non è pensabile alcuna scommessa comune tra lavoratori e imprenditore. Tanto meno fra quest’ultimo e la città circostante. Qualcuno dirà che questa è un’affermazione “buonista”; lo sarà anche, ma è la sola via per risolvere il problema.

Utopia? Certo. Ma non c’è progresso senza qualche utopia condivisa, intorno alla quale attivare un gioco a somma positiva. Per altro verso, l’alternativa al proporsi di realizzare questa utopia è solo una decrescita pochissimo felice.

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