IN CHE COSA SI CONCRETA OGGI “L’INTELLIGENZA DEL LAVORO”

Finché la dinamica salariale resta affidata al contratto nazionale, è ben difficile che le retribuzioni crescano; sarebbe necessario che i ccnl e la legge incentivassero la presenza diffusa nelle imprese di un sindacato capace di negoziare forme nuove di collegamento tra aumenti di produttività e aumenti salariali

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Intervista a cura di Chiara Del Priore, pubblicata sul sito
Repubblicadeglistagisti.it,  7 luglio 2022 – Tutte le altre interviste e recensioni relative al libro L’intelligenza del lavoro sono agevolmente reperibili nella pagina web a esso dedicata

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Ripensare il ruolo del sindacato, far entrare a pieno regime un’ “anagrafe della formazione” per verificare l’effettiva utilità sul mercato del lavoro delle competenze acquisite. Ma soprattutto rovesciare il paradigma attuale per cui sono solo le aziende a “scegliere” i propri lavoratori. Sono solo alcuni dei principali spunti del libro «L’intelligenza del lavoro», pubblicato dal giuslavorista Pietro Ichino nel 2020 per Rizzoli. Ichino è stato docente di diritto del lavoro, sindacalista, deputato all’inizio degli anni Ottanta e poi senatore in tempi più recenti, tra il 2008 e il 2018; con questo libro si propone di analizzare le cause e mettere in discussione il tradizionale squilibrio contrattuale tra lavoratori e imprenditori.
La Repubblica degli Stagisti
lo ha intervistato per approfondire alcuni temi chiave del libro, percapire come queste proposte potrebbero migliorare il mondo del lavoro e aiutare anche i giovani ad affrontare il proprio percorso professionale.

Professor Ichino, il tema del sindacato come “intelligenza collettiva”, al centro del suo libro L’intelligenza del lavoro, del 2020, lo era già nel suo libro del 2005, A che cosa serve il sindacato. In una fase di crisi del sindacato, testimoniata dai dati delle iscrizioni di lavoratori attivi in calo, cosa si può fare per rivalutare il suo ruolo e ridare fiducia ai lavoratori?
Oggi il nostro Paese ha urgente necessità di un ritorno alla crescita della produttività del lavoro, che consenta un aumento delle retribuzioni e dei consumi oltre che un rafforzamento del tessuto produttivo. Per questo sarebbe necessaria la presenza diffusa nelle imprese di un sindacato capace di negoziare forme nuove di collegamento tra aumenti di produttività e aumenti salariali. Lo Stato può incentivare la diffusione di questo tipo di contrattazione collettiva decentrata detassando gli aumenti salariali che ne derivano. Però occorrerebbe anche che nel movimento sindacale prevalesse la scelta di limitare la funzione del contratto collettivo nazionale alla determinazione di uno zoccolo minimo aggiornato periodicamente in riferimento all’inflazione, e per il resto di puntare tutto sulla contrattazione aziendale. Lo zoccolo minimo, oltretutto, andrebbe modulato secondo gli indici regionali del costo della vita; e anche questa modulazione sarebbe opportuno che venisse affidata a una contrattazione decentrata.

A questo disegno si obietta che la contrattazione aziendale oggi copre soltanto un terzo della forza-lavoro italiana: puntare tutto sulla contrattazione aziendale rischia di lasciar fuori due terzi del tessuto produttivo.
L’obiezione coglie un problema reale. Che però si può superare, per esempio, introducendo nei contratti collettivi nazionali di settore la previsione di una forma elementare di collegamento della dinamica retributiva con l’andamento della produttività di ciascuna azienda, stabilendo che la disposizione contenuta in proposito nel ccnl si applichi soltanto per default, in assenza di un accordo aziendale che disciplini diversamente la materia. Per esempio, il contratto nazionale potrebbe prevedere che almeno il 25 per cento dell’aumento del margine operativo lordo verificatosi nell’ultimo anno rispetto all’anno precedente sia distribuito ai dipendenti, salvo che venga contrattata al livello di impresa una forma diversa di collegamento del premio alla produttività o alla redditività dell’azienda. Naturalmente, questo implicherebbe che il rinnovo del contratto nazionale di settore non assorbisse ogni margine di dinamica salariale con l’aumento del minimo tabellare, come di fatto sta invece avvenendo in tutti i rinnovi dei ccnl.

Un ruolo che lei affiderebbe ai sindacati è quello di documentare il lavoratore sul passato dell’imprenditore che gestisce l’azienda di potenziale interesse per un lavoratore. Perché a suo avviso non è stato fatto finora? Quali sono gli ostacoli?
Questo sarebbe molto importante, innanzitutto per gli stagisti: se l’imprenditore fosse obbligato a pubblicare sul sito web dell’azienda la relazione scritta da ciascuno dei suoi passati stagisti circa il modo in cui è stato trattato e l’esito dello stage, questo costituirebbe la migliore garanzia contro l’abuso di questa forma di ingaggio del giovane in funzione formativa all’inizio della sua vita lavorativa. Ma, più in generale, ogni impresa dovrebbe essere stimolata a raccogliere e pubblicare tutti i dati rilevanti circa la soddisfazione dei propri dipendenti, almeno nel passato recente. Perché sempre di più il mercato del lavoro sta diventando un luogo nel quale sono anche i lavoratori a scegliersi l’impresa; questa dunque deve imparare a competere con le altre anche sul piano del benessere che è in grado di assicurare ai propri dipendenti.

Ecco, un punto chiave del suo libro L’intelligenza del lavoro è questo del “rovesciamento del paradigma del mercato del lavoro”: oggi sono sempre di più anche i lavoratori a esercitare una scelta, quindi ad esercitare in qualche misura un potere negoziale, col risultato che la concorrenza non è più soltanto fra i lavoratori, ma anche tra le imprese che cercano le persone di cui hanno bisogno. A suo modo di vedere, rientra in questo rovesciamento del paradigma anche il fenomeno recente delle “grandi dimissioni”?
Negli ultimi mesi in tutti i Paesi dell’occidente sviluppato si è registrato un aumento molto marcato, rispetto agli anni precedenti, dei lavoratori che hanno abbandonato spontaneamente il proprio posto di lavoro per migrare altrove, talvolta anche per sperimentare un nuovo equilibrio esistenziale tra lavoro retribuito, lavoro di cura e leisure. In questo fenomeno vedo una conferma e una accentuazione di un fenomeno già studiato da tempo, di cui do conto nel primo capitolo del libro: un nuovo modo d’essere del mercato del lavoro. In particolare, è ormai largamente maggioritaria la frazione dei lavoratori che sono in grado di scegliere tra più alternative offerte loro dal tessuto produttivo. Questo, però, non deve far dimenticare il problema della non piccola minoranza di persone che, invece, questa capacità non l’hanno ancora: il compito di farla acquisire anche da queste dovrebbe essere assolto da una rete efficiente di servizi, di cui il mercato del lavoro dovrebbe essere innervato. Su questo terreno il nostro Paese è ancora molto indietro.

Ma i giovani con percorsi formativi e universitari “standard”, cioè la maggior parte, sono davvero in grado di scegliersi il datore di lavoro?
Quelli che hanno conseguito con un buon voto finale le lauree più richieste – come ingegneria, medicina, biologia, farmacia, matematica, economia – trovano subito l’occupazione, avendo diverse buone opportunità tra le quali scegliere. Gli altri faticano di più; ma in molti casi le loro difficoltà nel trovare un’occupazione dipende dalla scarsissima attrattività della loro laurea, oppure da un gap che si è aperto tra le loro aspirazioni professionali e le loro capacità professionali effettive. In molti casi è proprio il fatto di aver conseguito una laurea a indurre un giovane a ritenere che essa gli dia senz’altro titolo per candidarsi a determinate funzioni, per le quali invece non è sufficientemente preparato. Per questo è importantissimo il servizio di orientamento professionale, che avrebbe il compito di rilevare – quando c’è – il gap tra aspirazioni e capacità effettive, avvertirne il giovane interessato e indicargli il modo per superare l’ostacolo, oppure orientarlo verso diversi possibili percorsi.

Nel libro sono approfondite varie “crisi” aziendali, alcune di queste molto trattate anche dai media. In quale secondo lei è emerso in modo più forte il potere dei lavoratori di “scegliersi” l’imprenditore e il ruolo del sindacato di “intelligenza collettiva” che guida i lavoratori in questa scelta?
Il fenomeno dei lavoratori che, anche in forma collettiva, “si scelgono l’imprenditore” in occasione di una crisi aziendale è evidente in tutti i casi discussi nel terzo capitolo del libro. Il problema è che solo in alcuni casi – come quello della Nissan di Sunderland nel 1985, o quello della Fiat nel 2010 – i lavoratori, sostenuti da un sindacato che sa guidarli nella valutazione del piano aziendale e della qualità dell’imprenditore che lo presenta, compiono la scelta giusta. In altri casi invece, come quello dell’Alitalia nel 2008 e poi di nuovo nel 2017, o quello dell’Almaviva di Roma del 2016, i lavoratori compiono la scelta sbagliata, o perché non si fidano dell’indicazione del sindacato, o perché – come nel caso Alitalia nel 2008 – è il sindacato stesso a svolgere male il proprio ruolo di “intelligenza collettiva” dei propri rappresentati.

Per affrontare il problema della divergenza tra la formazione impartita nel percorso formativo, scolastico o accademico, e le competenze richieste dal mercato del lavoro, lei sostiene l’idea di istituire un'”anagrafe della formazione” che consenta di verificare se il proprio percorso formativo è servito effettivamente a trovare un’occupazione. Ci sono a suo avviso i margini per realizzarla in Italia?
L’istituzione dell’anagrafe della formazione e la previsione dell’incrocio sistematico dei suoi dati con quelli delle Comunicazioni Obbligatorie delle assunzioni al ministero del Lavoro, delle iscrizioni ad albi e ordini professionali nonché alle liste di disoccupazione, sono previste da sette anni in una legge dello Stato: il d.lgs. n. 150/2015, articoli da 13 a 16. Se queste norme – che prima di essere emanate erano state debitamente oggetto di un’intesa tra Stato e Regioni – sono rimaste lettera morta, è perché dopo la loro emanazione nessun ministro del Lavoro se ne è più occupato; e nessun Assessore Regionale competente per questa materia ha ritenuto di complicarsi la vita sottoponendo la formazione professionale finanziata col denaro pubblico alla rilevazione del tasso di coerenza con gli sbocchi occupazionali effettivi. Ma la possibilità – io dico, anzi, la necessità – di implementare queste norme ci sarebbe stata, eccome; e ci sarebbe tuttora, poiché le norme citate sono tuttora in vigore.

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