LA RIFORMA POSSIBILE DEL REDDITO DI CITTADINANZA

Oggi in Italia la sola condizionalità praticabile è quella riferita alla disponibilità del beneficiario del sussidio per la frequentazione di un corso di formazione mirato a una delle occasioni di lavoro esistenti; ma l’idoneità del corso a produrre sbocchi coerenti dovrebbe essere oggetto di un monitoraggio rigoroso, che invece manca del tutto

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Intervista a cura di Carlotta Scozzari, pubblicata su
Huffington Post il 18 aprile 2023 – In argomento v. anche l’intervista all’Avanti! di tre settimane prima, I cinque principi per una società più giusta

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Marina Calderone

Nel nuovo decreto Lavoro in arrivo, anche definito decreto sul Reddito di cittadinanza, il governo Meloni si appresta a modificare radicalmente il sussidio introdotto dal primo governo Conte a sostegno delle fasce reddituali più basse, ridimensionandolo fortemente e abbassandolo di 1 miliardo all’anno nelle casse statali. Professor Ichino, secondo lei il governo Meloni si sta muovendo bene o si rischia di creare nuovi poveri?
Qualsiasi programma di assistenza contro la povertà dovrebbe trovare un buon equilibrio tra l’esigenza di sovvenire alle esigenze vitali di chi è in grave difficoltà e quella di non disincentivare la partecipazione di chi ne beneficia al mercato del lavoro.

E come lo si realizza questo equilibrio?
Il primo problema è quello di distinguere le persone “occupabili”, concetto dai contorni assai sfumati, da quelle che non lo sono. L’altro è quello di attivare la “condizionalità” del sostegno del reddito per le persone “occupabili”. Ora, a me sembra che su entrambi questi punti l’intervento legislativo proposto dal Governo attuale sia difettoso. Come, del resto, lo era anche quello del Governo giallo-verde del 2019.

Come dovrebbe essere strutturata a suo giudizio una corretta riforma del reddito di cittadinanza?
Nel nostro Paese prevale il brutto vizio di considerare che la legge possa tutto e che il problema sia sempre e soltanto quello di migliorare il dettato legislativo, trascurando del tutto i problemi dell’implementazione.

Cosa si dovrebbe fare invece?
Soprattutto in questa materia, nella quale contano moltissimo l’assistenza alle persone sul campo e il comportamento concreto delle persone stesse, la bontà di una riforma dipende per la maggior parte dalla predisposizione effettiva dei servizi appropriati, dunque dalle risorse operative necessarie e dall’acquisizione del relativo know-how: cose che non si realizzano dall’oggi al domani, come si approva una nuova norma e la si pubblica sulla Gazzetta Ufficiale. Qui occorrerebbe, per esempio, un controllo capillare e rigoroso sull’efficacia dei corsi di formazione cui viene subordinato il godimento del beneficio, che è previsto da una norma del 2015 ma di fatto manca del tutto. E sul quale il decreto tace.

Vuole dire che finché non funzionano questi servizi la lotta alla povertà in Italia non si può fare?
No: voglio dire che la lotta alla povertà deve andare di pari passo con una progressiva attivazione di questi servizi. Nella consapevolezza che l’“occupabilità” di una persona non è cosa dai contorni netti: dipende dalle circostanze e dalla quantità e qualità dei servizi di orientamento, informazione e formazione efficace mirata agli sbocchi esistenti.

In Italia è come evocare l’araba fenice.
Sta di fatto che, se questi servizi non funzionano, anche la nozione di “occupabilità” diventa evanescente e il contrasto alla povertà resta difettoso, col rischio di essere persino controproducente. Stesso discorso per la “condizionalità” cui deve essere subordinato il sostegno del reddito: non ci può essere una condizionalità seria, senza politiche attive del lavoro funzionanti.

Il Governo infatti prevede un investimento sulle politiche attive.
Sì; però nel testo del decreto si continua a imperniare la condizionalità del sostegno del reddito sul rifiuto dell’“offerta congrua di lavoro”, ignorando quello che ormai tutti sanno: cioè che l’“offerta congrua” in Italia non esiste.

Che cosa intende dire?
Che a sud delle Alpi nessun disoccupato ha mai perso il sussidio per aver rifiutato una offerta di lavoro, per il semplice motivo che le offerte di lavoro non passano per i Centri per l’Impiego. Anche perché l’incontro fra domanda e offerta di manodopera passa sempre di più dalla formazione specifica. Oggi in Italia la sola condizionalità praticabile può essere quella riferita alla disponibilità del beneficiario del sussidio per la frequentazione di un corso di formazione mirato a una delle occasioni di lavoro esistenti; del quale deve essere però controllata l’idoneità a produrre sbocchi occupazionali coerenti.

Ma se il lavoro non c’è…
Ci sono centinaia di migliaia di posti di lavoro, in tutti i settori e a tutti i livelli, che restano permanentemente scoperti per mancanza di candidati idonei.

Luigi Di Maio

Il governo si appresta a intervenire anche sul decreto Dignità firmato dall’ex ministro Di Maio sempre nel governo Conte 1, prevedendo un alleggerimento del meccanismo della causale per i contratti a termine. Che ne pensa di questo provvedimento?
La storia recente insegna che il meccanismo della “causale” per la limitazione dei contratti a termine giova soltanto agli avvocati: da quando sono state adottate tecniche di limitazione diverse il contenzioso giudiziale si è drasticamente ridotto. Se il decreto Calderone correggesse davvero il “decreto Dignità” del 2018 tornando al regime previsto dal Jobs Act, sarebbe una scelta tutto sommato ragionevole. Però la previsione in questo senso contenuta in un precedente draft del decreto sembra essere stata sostituita dal solo rinvio alle causali previste dai contratti collettivi: se questo sarà il contenuto della nuova norma non cambierà molto su questo fronte.

I contratti a termine restano comunque troppi.
Attenzione, però, a non confondere – come troppo spesso fa l’informazione giornalistica poco accurata – tra la percentuale dei contratti a termine nel flusso delle nuove assunzioni, che è sempre fisiologicamente alta (perché questo contratto viene usato come periodo di prova), con la percentuale di contratti a termine sul totale dell’occupazione: questa quota, in Italia, è perfettamente allineata alla media europea, che vede circa cinque sesti della forza-lavoro impiegati a tempo indeterminato.

Sono in arrivo anche incentivi per i NEET, i giovani che non studiano né lavorano. Tuttavia, il tetto previsto alla spesa complessiva è di soli 80 milioni. Non è un po’ poco per un intervento incisivo?
Sì: lo stanziamento appare poco più che simbolico. Ma anche qui non ci si può illudere di risolvere il problema con un tocco di bacchetta magica: il problema dei NEET si risolve soltanto con servizi di orientamento scolastico e professionale efficienti e capillari, capaci di raggiungere ogni adolescente all’uscita di ogni ciclo scolastico e di individuare l’eventuale gap tra il profilo delle sue capacità e quello delle sue aspirazioni.

Restando nel mercato del lavoro, con un’inflazione che sta dando segnali di discesa ma resta comunque alta e con salari che in Italia non sono cresciuti per tenere il passo dei prezzi al consumo, è giusto ipotizzare un impoverimento costante dei lavoratori dipendenti, legato proprio alla perdita del potere di acquisto?
Sì, l’inflazione erode il potere di acquisto delle retribuzioni. Però il problema più grave non è questo: ciò che deve preoccuparci di più è che ormai da un quarto di secolo la produttività del lavoro in Italia ristagna: finché essa non aumenta non è pensabile un aumento “indipendente” delle retribuzioni.

E qual è la ricetta perché aumenti la produttività del lavoro, in modo che possano aumentare anche i salari reali?
Innanzitutto, favorire in tutti  i modi la mobilità delle persone verso le imprese più capaci di valorizzare il loro lavoro: come dicevo prima, sono centinaia di migliaia i posti che restano scoperti per difetto dei servizi nel mercato del lavoro. Inoltre migliorare il sistema scolastico insieme a quello della formazione: e qui torniamo al problema dei servizi al mercato del lavoro. Infine rendere più attrattivo il nostro Paese per le imprese multinazionali, che invece noi tendiamo a considerare come dei soggetti socialmente pericolosi.

Non lo sono?
Non certo più di quanto lo siano le imprese nostrane. Ma la produttività del lavoro nelle imprese di grandi dimensioni è mediamente molto maggiore che nelle piccole e medie; e le nostre sono per lo più piccole o medie.

 

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