I CINQUE PRINCIPI PER UNA SOCIETÀ PIÙ GIUSTA

Economia aperta nel quadro di un’Europa unita; piena contendibilità di ogni funzione, pubblica e privata; pari opportunità per tutti di accesso a ciascuna funzione; trasparenza totale di ciascuna struttura preposta a una funzione pubblica; valutazione rigorosa della sua efficienza ed efficacia

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Intervista a cura di Giada Fazzalari, pubblicata
sull’Avanti! della domenica, 25 marzo 2023 – In argomento v. anche la mia intervista a Policy Maker Magazine, Povertà, salario minimo, settimana di quattro giorni   .

“La sinistra giuslavoristica ha sempre creduto molto di più nella difesa del lavoratore dal mercato che nella sua difesa nel mercato” dice Pietro Ichino, docente universitario, giurista e già parlamentare e sindacalista, in questa intervista all’Avanti! della domenica a vent’anni dalla Legge Biagi. Ichino, da sempre sostenitore della semplificazione in materia di legislazione del lavoro e di un ritorno del rapporto a tempo indeterminato come regola generale, fa una analisi a tutto campo sullo stato dell’arte dell’occupazione e sulle proposte del governo. Sulla possibilità di istituire il salario minimo in Italia, sostiene che “è sicuramente utile ma è una misura che può avere solo effetti marginali: è sbagliato pensare che essa possa da sola risolvere il problema dei bassi salari, del lavoro povero”.

Professor Ichino, sono vent’anni dalla Legge Biagi. Un progetto che si ispirò abbondantemente a idee e tesi da lei proposte negli anni precedenti, ma che è stato duramente attaccato con l’accusa (ingenerosa, diciamo noi), di aprire una stagione di “precarizzazione selvaggia”.
La realtà è che né la legge-delega, né il decreto con cui la delega venne esercitata, contenevano la previsione alcun nuovo sotto-tipo di contratto di lavoro “precario”. La Legge Biagi ridisciplinava – sì – le collaborazioni autonome continuative, ma in senso fortemente restrittivo, coll’imporre il requisito della stretta funzionalizzazione del contratto a un progetto ben determinato.

Venivano però introdotti dei tipi nuovi di contratto di lavoro.
I sotto-tipi nuovi di contratto di lavoro erano due. Il primo era il cosiddetto Job-sharing, ovvero il “lavoro gemellato”, che non aveva in sé nulla di precario, consistendo soltanto nella coniugazione elastica di due rapporti di lavoro a tempo parziale, con coobbligazione solidale per l’intera prestazione in capo a entrambi i partner; la sua disciplina non era altro che la recezione in legge di una circolare emanata dal ministro del Lavoro Treu nel 1997. Il secondo era il cosiddetto Staff-leasing, ovvero la somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, nell’ambito della quale era previsto un rapporto di lavoro somministrato a tempo indeterminato assistito da piena stabilità. Anzi: più stabile del rapporto di lavoro ordinario, perché in questo caso non era ammesso il licenziamento collettivo da parte dell’agenzia somministratrice, neppure nel caso di cessazione del contratto di somministrazione.

A ben vedere, era molto più marcata la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro contenuta nel “pacchetto Treu” del 1997.
Per molti aspetti sì: quell’intervento legislativo aveva introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento la somministrazione di lavoro, tipicamente a termine, e aveva alleggerito i vincoli in materia di lavoro a tempo parziale. Ma quella legge era stata fatta da un Governo di centro-sinistra e dunque la sinistra giuslavoristica si limitò a qualche mugugno. Quando poi il centro-sinistra tornò al potere, nel 2006, la parola d’ordine fu “abrogare la legge Biagi”; senonché il ministro del Lavoro Damiano, al dunque, non trovò in essa nessun contenuto “precarizzante” che si prestasse a essere abrogato. Se la prese, dunque, soltanto con il Job Sharing e lo Staff leasing, i quali con la precarizzazione del lavoro non avevano nulla a che fare, ma avevano l’unica colpa di essere comunemente indicati con un nome inglese: essi furono usati come “scalpo politico” da esibire all’opinione pubblica di sinistra per poter dire che si voltava pagina rispetto alla legge Biagi.

Per quale ragione quella legge non fu compresa al punto di essere così osteggiata soprattutto a sinistra?
Perché per decenni il sistema politico italiano si era caratterizzato per una sorta di potere di veto del PCI, poi dei partiti post-comunisti che gli sono succeduti, sulla legislazione del lavoro e sindacale. Nel 2003 per la prima volta un Governo di centrodestra aveva espresso la pretesa di intervenire su questa materia senza chiedere il permesso alla sinistra. Nella sostanza, però, la Legge Biagi si poneva in piena continuità con il “pacchetto Treu” del 1997.

Viene da pensare che ci si sia rifiutati di capire la legge per prediligere vecchie rendite di posizione.
A dire il vero non c’erano ormai più molte rendite di posizione da difendere. La realtà è che l’attenzione della sinistra si è sempre concentrata molto di più sulla regolazione del rapporto di lavoro che sulla regolazione del mercato. Anche perché nella cultura della sinistra italiana ha sempre pesato molto l’eredità della negazione marxiana dell’idea stessa del mercato del lavoro come luogo di incontro negoziale tra una domanda e un’offerta, ovvia conseguenza della negazione dell’idea stessa del contratto di lavoro: “foglia di fico che copre la vergogna della dittatura de padrone sull’operaio”. È questo il motivo per cui la sinistra giuslavoristica ha sempre creduto molto di più nella difesa del lavoratore dal mercato che nella sua difesa nel mercato.

Il Reddito di Cittadinanza era una misura utile per contrastare la povertà?
Il difetto principale che vedo nella disciplina vigente di questa misura assistenziale sta nell’assenza di una vera ed efficace condizionalità del beneficio. Però non mi sembra che le modifiche decise dal Governo attuale correggano questo difetto: non lo affrontano proprio.

Nelle nuove misure messe in cantiere dal Governo Meloni intitolate alla nuova MIA, la Misura di Inclusione Attiva, non c’è un giro di vite proprio sulla condizionalità del beneficio?
Sì, ma è un giro di vite del tutto velleitario, malissimo congegnato. La misura progettata dal Governo attuale continua a imperniare il sistema della condizionalità sull’“offerta congrua”, mostrando di non accorgersi di quello che gli osservatori più attenti denunciano ormai da tempo: l’“offerta congrua” non esiste. Nessuno in Italia ha mai perso né questo sussidio assistenziale, né il trattamento di disoccupazione di natura assicurativa, la NASpI, per aver rifiutato un’offerta di lavoro proposta dal Centro per l’Impiego e considerata “congrua”. Perché nessun imprenditore formalizza una proposta di assunzione rivolta a una persona poco motivata a svolgere il ruolo offerto.

In Italia ci sono tre milioni di lavoratori poveri. Il salario minimo, già adottato quasi in tutta Europa, può essere un primo provvedimento utile?
Utile sicuramente sì. Ma è una misura che può avere solo effetti marginali: è sbagliato pensare che essa possa risolvere il problema dei bassi salari, del lavoro povero.

Qual è invece il modo in cui lo si può risolvere?
Lo si deve affrontare favorendo l’aumento della produttività del lavoro, senza il quale non si può avere un aumento delle retribuzioni; e legando più strettamente le retribuzioni stesse alla produttività. L’aumento della produttività si ottiene favorendo, incentivando e sostenendo con percorsi di formazione adeguati il trasferimento delle persone dalle imprese o dalle posizioni poco produttive a quelle più capaci di valorizzare il loro lavoro. E anche attirando gli investimenti delle grandi multinazionali, che sono mediamente molto più capaci delle imprese indigene di rendere il lavoro più produttivo. È, al tempo stesso, un problema di politica del lavoro e di politica industriale.

Da dove ripartire per una seria riforma del lavoro che abbatta la precarietà, tuteli i lavoratori fragili e si adegui al lavoro che cambia?
Oggi, in materia di lavoro, la questione di maggior rilievo e più urgente che deve essere affrontata è quella degli enormi giacimenti occupazionali inutilizzati: le imprese hanno gravi difficoltà a trovare persone qualificate o specializzate, ma anche manodopera non qualificata. Sono molte centinaia di migliaia di posti di lavoro che potrebbero essere attivati subito e che invece vanno persi per la nostra incapacità di predisporre i percorsi di formazione o addestramento necessari per l’incontro fra domanda e offerta. È urgente, in particolare, aprire un discorso serio sul controllo capillare del tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi.

Lei ha recentemente parlato anche della necessità di inserire questa riforma del lavoro in una riforma più ampia della società civile italiana. Può dirci in estrema sintesi a che cosa pensa?
L’idea è di una società fondata sulla combinazione di cinque principi, che a ben vedere sono altrettante facce di un principio solo: economia aperta nel quadro di una Europa unita; piena contendibilità di ogni funzione, pubblica e privata; pari opportunità per tutti di accesso a ciascuna funzione; trasparenza totale di ciascuna struttura preposta a una funzione pubblica; valutazione rigorosa della sua efficienza ed efficacia.

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