SE È IL GIUDICE A STABILIRE IL MINIMUM WAGE

Un nuovo orientamento giurisprudenziale, che vede la magistratura assumersi il compito di determinare direttamente la giusta retribuzione caso per caso, evidenzia l’urgenza dell’istituzione per legge di uno standard minimo, che però tenga conto anche delle differenze del costo della vita

Articolo pubblicato sul sito lavoce.info il 6 ottobre 2023 – In argomento v. anche la mia ampia intervista del 27 luglio scorso, Salario minimo: un’idea giusta ma…

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Il nuovo orientamento giurisprudenziale

Due sentenze della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione pubblicate il 2 ottobre 2023 (n. 27711 e n. 27769), entrambe sul tema dell’applicazione del principio costituzionale della retribuzione sufficiente, di contenuto tra loro quasi identico, vengono giustamente indicate come fortemente innovative: una vera e propria svolta giurisprudenziale.

La stessa Corte di Cassazione aveva in passato ripetutamente affermato che il parametro fondamentale per determinare la “giusta retribuzione” dovuta al lavoratore dipendente è costituito dallo standard minimo stabilito dal contratto collettivo nazionale di settore, stipulato dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. Alcune sentenze ammettevano la possibilità che il giudice si scostasse da quel parametro, condannando il datore di lavoro al pagamento di una retribuzione superiore; ma questa possibilità era prevista in via eccezionale, in riferimento a circostanze particolari: la regola generale era quella del riferimento ai minimi previsti dai c.c.n.l. stipulati dai sindacati maggiori di ciascuna categoria produttiva, quasi sempre Cgil Cisl e Uil. Proprio su questo orientamento giurisprudenziale dominante si fondava l’idea di una “estensione erga omnes di fatto” dell’efficacia di quei contratti, nonostante la perdurante inattuazione dell’articolo 39 della Costituzione. Ora, invece, la Corte di  Cassazione afferma in modo molto incisivo il dovere del giudice di controllare l’idoneità dello standard (anche se previsto dal contratto collettivo stipulato dai sindacati maggiori) a soddisfare i requisiti indicati dall’articolo 36 della Costituzione, cioè a stabilire una retribuzione “sufficiente ad assicurare una esistenza libera e dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia”. Lo fa individuando nuovi parametri che dovrebbero essere considerati dal giudice di sua iniziativa, quali la soglia di povertà individuata dall’Istat, il salario medio o mediano individuabile attraverso i dati Uniemens censiti dall’INPS, e numerosi altri, precisando altresì che la retribuzione non deve soltanto proteggere dalla povertà, ma deve anche assicurare un’esistenza “libera e dignitosa”, implicante qualche cosa di più rispetto all’emancipazione dalla povertà: per esempio – dicono le due sentenze della Corte – la possibilità di assistere a uno spettacolo o a iniziative di carattere culturale e sociale.

Con queste decisioni la Cassazione annulla due sentenze di merito, rispettivamente della Corte d’Appello di Milano e di Torino, che avevano invece considerato rispettosa dei principi sanciti dall’articolo 36 della Costituzione la retribuzione determinata secondo il contratto collettivo nazionale rinnovato pochi mesi fa da Cgil Cisl e Uil per il settore dei servizi fiduciari: guardiania, reception, ecc., nonostante che il compenso orario complessivo ivi previsto si collocasse al di sotto, sia pur di poco, dei 7 euro l’ora.

Le questioni irrisolte

Le due sentenze di Cassazione pubblicate il 2 ottobre scorso costituiscono una sorta di costituzione in mora e di sollecitazione nei confronti del sistema delle relazioni industriali, incapace di debellare per mezzo della contrattazione collettiva il lavoro povero nei settori dei servizi a basso livello di qualificazione professionale e di produttività. Qualcuno ha ritenuto però di ravvisare in esse anche una risposta all’inerzia del potere legislativo, che lascia il Paese privo di quello strumento – lo standard retributivo minimo universale, il c.d. minimum wage – che è invece in vigore nella maggior parte dei Paesi dell’Occidente sviluppato.

Se solo di questo si trattasse, si potrebbe salutare questa svolta giurisprudenziale come uno scossone utile per convincere il Parlamento a provvedere. Senonché la svolta giurisprudenziale va oltre i limiti della denuncia di un ritardo del legislatore; nelle due sentenze della Cassazione si afferma che il controllo da parte del giudice sui livelli retributivi non si estende soltanto ai contenuti della contrattazione collettiva, bensì anche ai contenuti delle leggi ordinarie che regolino la materia (come accade nel caso delle cooperative di lavoro). Ben potrebbe accadere, dunque, che anche lo standard minimo universale in ipotesi fissato domani dal legislatore non superasse il vaglio di un giudice, il quale lo ritenesse inidoneo ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa. La determinazione degli standard retributivi “giusti” verrebbe in questo modo sottratta non solo alla contrattazione collettiva, ma anche allo stesso legislatore, per essere affidata alle sensibilità dei singoli magistrati, assai differenti tra loro anche all’interno di uno stesso ufficio giudiziario. Con la conseguenza di un’enorme dilatazione dell’alea dei giudizi.

Bene, dunque, che queste sentenze pongano in evidenza i ritardi e l’inadeguatezza del nostro sistema delle relazioni industriali e della legislazione su questa materia. Ma il ruolo di supplenza giudiziaria che in esse si delinea appare eccessivo: il singolo giudice ordinario non può assumersi il compito – costituzionalmente proprio della politica e del sistema delle relazioni sindacali – di stabilire il bilanciamento migliore tra il valore della piena occupazione e quello del necessario sostegno ai livelli salariali più bassi; né tanto meno il compito di vagliare la legittimità costituzionale di una ipotetica norma legislativa su questa materia, compito che spetta soltanto alla Corte costituzionale.

Come se ne può uscire

Non è eccessivo paventare il caos che potrebbe derivare dal consolidarsi di un regime nel quale il minimum wage fosse stabilito dal giudice caso per caso: un caos dal quale la sola categoria che trarrebbe vantaggio sarebbe quella degli avvocati. Proprio questo rischio dovrebbe consigliare al Governo di porre mano con urgenza a due interventi che appaiono indispensabili per rimettere in piedi un sistema delle relazioni industriali efficiente, capace di governare in modo ordinato gli standard retributivi minimi anche in ottemperanza alla direttiva UE n. 2022/2041 su questa materia.

Il primo è l’intervento legislativo necessario per risolvere finalmente l’annosa questione dell’efficacia generale dei contratti collettivi nazionali e dei possibili conflitti fra di essi. La maggior parte dei giuslavoristi concorda sul punto che l’unica soluzione praticabile passa attraverso la sostituzione degli ultimi tre commi dell’articolo 39 della Costituzione con un comma che dica semplicemente: “La legge regola l’estensione dell’efficacia del contratto collettivo, stipulato dalle associazioni sindacali e imprenditoriali maggiormente rappresentative, a tutto il settore cui il contratto stesso si riferisce”. La legge ordinaria, poi, potrebbe prevedere che sia il Cnel a verificare la rappresentatività delle associazioni, secondo i criteri stabiliti dagli accordi interconfederali, nell’ambito della categoria definita dal contratto; e che, nel caso di sovrapposizione di contratti riferiti a “perimetri” diversi, prevalga il contratto stipulato dalle associazioni più rappresentative nell’ambito del perimetro minore (così prevalendo la disciplina collettiva negoziata al livello più vicino al luogo di lavoro, in coerenza con quanto previsto dall’Accordo interconfederale 28 giugno 2011).

L’altro intervento legislativo del quale il nuovo orientamento giurisprudenziale sottolinea l’urgenza è quello volto a istituire uno standard retributivo orario minimo universale, questo sì destinato a realizzare il bilanciamento migliore tra il valore della piena occupazione e quello del necessario sostegno ai livelli salariali più bassi. Qui è lo stesso contenuto delle due sentenze della Corte di Cassazione a evidenziare un problema che solo il legislatore e le parti sociali – non certamente il singolo giudice – possono e devono risolvere, là dove si sottolinea la necessità che nella determinazione dello standard minimo si tenga conto delle condizioni particolari di ciascuna zona, di ciascun contesto: ciò che significa tenere conto anche del potere d’acquisto effettivo della moneta, assai diverso tra regione e regione, ma anche tra zone metropolitane e zone circostanti. Altrimenti lo standard minimo stabilito in termini nominali, senza alcuna modulazione in relazione al potere d’acquisto effettivo, in un Paese come il nostro sarà sempre troppo basso per le zone più ricche (con conseguente effetto controproducente sui livelli salariali rispetto alle finalità perseguite) e/o troppo alto per le zone più povere, dove causerà aumento del lavoro nero o della disoccupazione.

L’unica soluzione possibile del problema è che si affidino all’Istat la determinazione e l’aggiornamento periodico di un coefficiente del costo della vita in ciascuna provincia, regione, e/o area metropolitana. E nel consentire che lo standard minimo universale sia modulato e aggiornato di volta in volta in relazione a quel coefficiente, in modo da garantire lo stesso livello minimo sostanziale di “vita libera e dignitosa” in ogni parte del Paese.

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