Perché l’approccio sistemico è indispensabile per una applicazine corretta della protezione del benessere psico-fisico del lavoratore nel luogo di lavoro – Come si configura la responsabilità del datore di lavoro per la prevenzione del rischio dell’ambiente di lavoro costrittivo e dello straining
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Intervista/discussione a cura di Silvia Caneve pubblicata sul Bollettino Adapt il 15 aprile 2024 – L’intervista è parte di una serie dedicata a una rivisitazione dei miei scritti pubblicati nell’arco degli ultimi 50 anni; questa prende spunto dalla mia relazione al Congresso mondiale di Medicina del Lavoro sul tema The Changing Structure and Contents of the Employer’s Legal Responsibility for Health and Safety at Work in Post-Indutrial Systems, pubblicata in IJCLLIR, 2006, vol. 22, n. 4, pp. 603-613 – Su questo sito sono disponibili anche tutte le altre interviste della stessa serie, alle quali si può risalire dall’ultima pubblicata, sul tema delle politiche attive del lavoro
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D.: Nell’indagare il tema della responsabilità datoriale in materia di salute e sicurezza di fronte alle sfide della digitalizzazione, nell’era che è stata definita “post-industriale”, hai ritenuto di applicare l’approccio della scuola sistemica americana nella valutazione di alcune situazioni patologiche che si possono determinare nel contesto aziendale. Nel saggio del 2006 proponi come campi di applicazione di questo approccio i fenomeni emergenti del mobbing e dello straining. Cosa ti ha spinto in questa direzione?
R.: L’occasione di quella mia relazione al congresso mondiale di medicina del lavoro era nata dalla combinazione di due circostanze. Nei primi anni 2000, avendo la responsabilità della direzione del Master Europeo in Scienze del Lavoro dell’Università statale di Milano, mi ero rivolto al professor Pier Alberto Bertazzi, ordinario di medicina del lavoro – e se non ricordo male anche direttore della Clinica del Lavoro del nostro stesso Ateneo – chiedendogli di tenere un corso per i nostri studenti sui nuovi termini in cui già allora si poneva il problema della sicurezza e del benessere psico-fisico nel contesto produttivo post-industriale. Con lui, poi, avevo discusso i contenuti del corso e in particolare la parte che egli volle dedicare ai temi dello straining e del mobbing, materie entrambe sulle quali la Clinica del Lavoro milanese stava compiendo da alcuni anni un’esperienza d’avanguardia. A seguito di alcuni scambi di opinioni su questi argomenti fra me giuslavorista e lui medico, lui mi propose di tenere una relazione al congresso internazionale di medicina del lavoro, che si sarebbe svolto nel giugno 2006 a Milano, sui contenuti della responsabilità dell’imprenditore per la salute dei dipendenti nel contesto post-industriale. Quella fu per me l’occasione per approfondire lo studio e riordinare le idee che ero venuto maturando negli anni precedenti, soprattutto nell’esperienza forense, sull’utilità di una sinapsi tra il diritto del lavoro, le più recenti acquisizioni della psichiatria sul tema del cosiddetto burn-out come fattore determinante della sindrome ansioso depressiva, e gli orientamenti della nuova scuola sistemica, i cui massimi rappresentanti in Italia erano allora gli psicologi Mara Selvini e Stefano Cirillo.
D.: Pensi che questa lettura aiuti a far luce sulle dinamiche legate alle trasformazioni più recenti del mondo del lavoro e dei sistemi di organizzazione aziendale, a chiarirne l’impatto sulla disciplina giuridica del rapporto di lavoro?
R.: Quanto più studio questa materia e me ne occupo assistendo imprese e lavoratori, tanto più mi convinco che non solo la differenza tra i fenomeni del mobbing e dello straining, ma anche e soprattutto la genesi e il meccanismo interno degli episodi di mobbing in azienda possono, per lo più, essere comprese a fondo soltanto attraverso la combinazione dell’approccio giuslavoristico con quello psicologico e in particolare quello della scuola sistemica. Di questo, subito dopo la pubblicazione della mia relazione al congresso del 2006 ebbi una conferma inattesa con la pubblicazione del libro di uno studioso che impersona questa sinapsi culturale, studiando e insegnando egli al tempo stesso il diritto e la psicologia: Il vero e il falso mobbing, di Guglielmo Gulotta (Giuffrè, 2007), frutto di una ricerca sviluppatasi a Torino in un ambiente totalmente diverso e senza alcuna occasione di comunicazione con quanto andavamo discutendo ed elaborando Pier Alberto Albertazzi e io a Milano, e che tuttavia propone una costruzione teorica del tutto sovrapponibile a quella proposta nella mia relazione, basata sull’approccio sistemico di P. Watzlavick, J. Beavin e D. Jackson e sugli studi della scuola italiana di Mara Selvini.
D.: Per poter approfondire questa tematica hai scelto di adottare un metodo originale. Come tu stesso affermi nell’introduzione alla tua relazione al congresso internazionale sulla salute occupazionale del 2006, la necessità di comunicare con discipline quali, per esempio, la sociologia del lavoro è già condivisa tra i giuslavoristi, ma risulta più difficile costruire un metodo interdisciplinare che coinvolga saperi quali la medicina del lavoro, la psicologia e la psichiatria. Credi che questa difficoltà permanga ancora oggi?
R.: In un contesto produttivo nel quale il lavoro umano si concreta sempre meno in uno sforzo fisico e sempre di più nell’uso del computer e di macchine a esso collegate, quindi nel trattamento di flussi di informazioni, i pericoli per la sicurezza e il benessere psico-fisico delle persone non derivano più soltanto dal malfunzionamento di macchine, o dalla presenza nell’ambiente di sostanze nocive, ma sempre più anche dallo stress causato dall’interazione incessante con il sistema informatico, dal controllo permanente e pervasivo cui il comportamento della persona può esserne sottoposto, nonché da disfunzioni nei rapporti tra le persone; e il pericolo è sempre meno quello di un trauma fisico, sempre più quello di un danno psichico. Da qui la necessità anche della sinapsi tra diritto e saperi psicologico e psichiatrico: un dialogo multidisciplinare che dagli inizi di questo secolo ha fatto molti passi avanti importanti.
D.: Puoi spiegare meglio il motivo per cui nel contesto produttivo post-industriale aumenta il pericolo di danno psichico alla persona che lavora?
R.: La digitalizzazione dei sistemi produttivi e l’automazione aumentano a dismisura le differenze di produttività tra chi si appropria delle nuove tecnologie e chi no. Ricordo che quando lavoravo come sindacalista nel settore metalmeccanico all’inizio degli anni ’70, fatto 100 il livello di produttività standard, le tariffe di cottimo erano strutturate in riferimento alla variazione di produttività individuale che poteva andare da un minimo di 80 o 90 a un massimo di 130 o 140: tra l’operaio più produttivo e quello meno produttivo non si arrivava quasi mai a un rapporto di 2 a 1; e anche se ci si arrivava la tariffa di cottimo non arrivava a registrarlo, perché lo si considerava una anomalia: non si andava quasi mai oltre il parametro 140. Oggi, anche ai livelli di professionalità più modesti, in riferimento a un compito anche molto elementare, di carattere esecutivo (per esempio: cercare i ristoranti aperti in una determinata zona e produrne un tabulato), il rapporto tra la produttività della persona che sa usare il computer e internet e la produttività di quella che non ne è capace può arrivare anche a 100:1. Questo per un verso riduce la solidarietà in seno al gruppo di persone che svolgono lo stesso lavoro e produce un aumento delle differenze di retribuzione; per altro verso aumenta il rischio di stress nell’ambiente di lavoro; per altro verso ancora aumenta il possibile interesse aziendale a liberarsi della persona che si rivela meno capace di aggiornare le proprie competenze in relazione all’evoluzione tecnologica, con il conseguente incremento degli episodi di mobbing.
D.: Puoi spiegare in estrema sintesi come il recepimento dell’approccio sistemico è di aiuto per individuare il fenomeno del mobbing sul piano giuridico e per distinguerlo dal fenomeno dello straining?
R.: Un tratto essenziale del comportamento che indichiamo con il termine mobbing è il dolo: precisamente l’intendimento di nuocere a un dipendente dell’azienda, di rendergli la vita impossibile in modo da indurlo ad andarsene. Ora, l’approccio sistemico aiuta a distinguere il caso caratterizzato da un intendimento di questo genere perseguito da una o più persone in azienda, dal caso in cui invece la patologia è costituita da un circolo vizioso che si instaura tra i comportamenti dei membri di un ufficio o reparto, nel quale non è possibile stabilire “chi ha fatto il cattivo per primo”.
D.: Puoi fare un esempio?
R.: Immaginiamo che un dipendente – chiamiamolo Lino – sia impiegato in un ufficio insieme a dieci altri e faccia registrare qualche difetto sul piano della qualità del lavoro svolto, non è chiaro se per negligenza o per incapacità. La responsabile tende ad affidare il lavoro più rilevante ad altri. Lino si sente svalutato e meno atteso in azienda: dunque tende ad assentarsi di più. È di fatto meno affidabile: donde una sua marginalizzazione ulteriore in seno al gruppo, sul piano operativo. Lino protesta; viene quindi percepito come un rompiscatole. Insorgono diverbi per questioni banali. Quando vengono dati in dotazione all’ufficio alcuni nuovi pc, essi vengono assegnati ad altri. Lino si impegna di meno e incomincia a essere ripreso di frequente dalla responsabile. Gli viene affidato solo il lavoro di minore responsabilità e il gap di efficienza rispetto ai colleghi aumenta, fino al punto che gli viene mossa una contestazione disciplinare. Lino, che teme di essere licenziato, si assenta lamentando una sindrome ansioso-depressiva. Al rientro al lavoro gli vengono assegnate nuove mansioni a lui sgradite. Lino agisce in giudizio contro l’impresa denunciando il trattamento a cui è sottoposto come mobbing.
D.: Un caso paradigmatico.
R.: Sì, soprattutto nel contesto della produzione post-fordista e post-industriale, nel quale le differenze di produttività tra le persone tendono ad aumentare fortemente. In un caso di questo genere, certo, può essere che a innescare il circolo vizioso abbia contribuito una qualche negligenza del lavoratore, oppure che a determinare il trattamento riservatogli abbia contribuito qualche malanimo da parte della responsabile o dei colleghi, una volontà di metterlo nell’angolo e indurlo ad andarsene; oppure che si siano verificate entrambe le cose. Ma può essere anche, invece, che il circolo vizioso si sia messo in moto da solo e che tutti i protagonisti della vicenda siano in buona fede. L’approccio proposto dalla psicologia sistemica ammonisce a non fare “punteggiature arbitrarie”, cioè ad affrontare la questione considerando prioritariamente la patologia che affligge il gruppo nel suo insieme, piuttosto che chiedersi “chi ha fatto il cattivo per primo”. Ed è responsabilità del datore di lavoro cogliere fin dall’inizio i segnali della patologia, del circolo vizioso, per disinnescarli tempestivamente.
D.: Questo vale anche per il rischio di straining?
R.: In qualche misura sì. Innanzitutto, perché – come abbiamo visto nel caso paradigmatico considerato – per lo più è difficile accertare la sussistenza del requisito del dolo da parte del responsabile dell’ufficio o dei colleghi della “vittima designata”, elemento necessario perché si possa configurare il mobbing. Ma il fatto che manchi l’intendimento doloso non esclude affatto il rischio che l’ambiente di lavoro si configuri per la persona in difficoltà come costrittivo, stressogeno, ansiogeno e dunque incompatibile con la garanzia del benessere psicofisico di cui la datrice di lavoro è debitrice verso ciascuno dei dipendenti. E questo è riconosciuto esplicitamente anche dal nostro ordinamento, dal momento che, in forza di una legge in vigore dall’inizio di questo secolo, i traumi psichici derivanti non soltanto da mobbing ma anche da straining sono eventi specificamente protetti dall’assicurazione Inail.
D.: Nel tuo saggio proponi anche soluzioni pratiche a livello di assetti organizzativi per prevenire l’insorgenza di disturbi psichici e, d’altronde, a fronte di un quadro normativo più o meno definito l’intervento decisivo è quello operato a livello delle organizzazioni. Hai potuto osservare alcune strategie aziendali particolarmente fruttuose negli ultimi anni, anche in termini di ruoli e posizioni in azienda?
R.: In alcune grandi aziende sì; ma occorrerebbe che questo approccio fosse molto più diffuso. Quasi metà del genere umano – come ci insegna l’epidemiologia psichiatrica – è esposto, nell’arco della vita, al rischio di una crisi psichica determinata dalla combinazione di avversità di vario genere; ma alla datrice di lavoro è (giustamente) vietato effettuare indagini preventive circa l’esposizione a questo rischio di ciascuno dei dipendenti. Il solo modo in cui il rischio di una patologia psichica causata da eccesso di straining può essere prevenuto consiste, almeno nelle aziende di grandi dimensioni, nell’attivare un organo deputato a sollecitare e ricevere dai dipendenti la segnalazione precoce di una situazione di stress, di disagio psichico.
D.: In chiusura della tua relazione immaginavi che la realizzazione all’interno delle aziende di campagne di sensibilizzazione, l’adozione di strumenti di mediazione, e l’assunzione di dirigenti e consulenti specifici incaricati di prevenire le tensioni indebite potessero essere promosse anche attraverso la contrattazione collettiva. Che ruolo pensi abbiano giocato su questo terreno le parti sociali negli ultimi vent’anni?
R.: In alcune grandi aziende la contrattazione aziendale ha svolto un ruolo importante su questo terreno: penso per esempio a Luxottica, a Novartis, all’IBM, o all’Istituto Italiano di Tecnologia, dove il contratto aziendale prevede appunto l’attivazione di “antenne” interne all’organizzazione deputate a raccogliere i segnali di disagio psichico e di un organo specifico deputato a prevenire o disinnescare tempestivamente i circoli viziosi. Ma questa “attrezzatura” esiste pure in numerose altre aziende, anche indipendentemente dalla previsione contenuta in un contratto aziendale. Certo, i grandi sindacati farebbero bene ad attrezzarsi meglio per promuovere in modo più efficace e diffuso il miglioramento delle attrezzature aziendali in questo campo.
D.: Rispetto ai fenomeni del mobbing e dello straining, più in generale alle disfunzioni organizzative che sono fonte di rischi per i lavoratori, sembra che la giurisprudenza abbia fatto proprio l’approccio proposto nel tuo saggio.
R.: Sì: una evoluzione positiva c’è stata e si sono registrate alcune decisioni molto importanti su questo terreno. Da ultimo, in particolare, la Corte di Cassazione si è pronunciata ripetutamente con decisioni (tra le più recenti quella della Sezione Lavoro 19 ottobre 2023 n. 29101, cui hanno fatto seguito la 26 febbraio 2024 n. 5061 e altre sei sentenze quasi contemporanee) nelle quali concordemente si afferma che anche nel caso in cui non sia ravvisabile una dinamica persecutoria ai danni del lavoratore, il giudice di merito debba valutare, sulla base dei medesimi fatti allegati, anche l’eventualità che il datore abbia ignorato colposamente l’esistenza di un ambiente di lavoro stressogeno capace di causare danno alla salute del lavoratore. Anche in questo caso, secondo la Cassazione, sussiste una responsabilità della datrice di lavoro ex art. 2087 c.c.
D.: Spostandoci sul livello sovranazionale: in Europa si parla molto in questo momento di una possibile direttiva riguardante specificamente la prevenzione e la gestione dei rischi psicosociali. Pensi che possa essere un’iniziativa utile? Cosa ti aspetti da un provvedimento di questo tipo?
R.: L’ordinamento europeo, sul terreno della protezione della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, ha il compito di promuovere l’allineamento di tutti i Paesi dell’Unione agli standard migliori praticati nei Paesi più avanzati. La direttiva in vigore su questa materia è già molto avanzata; ma sarebbe utilissimo che essa venisse integrata con una direttiva dedicata specificamente alla protezione del benessere psichico delle persone che lavorano.
D.: Che consiglio daresti ai giovani studiosi del diritto del lavoro che si trovano ad affrontare queste tematiche, oggi di ancor più stringente attualità rispetto a vent’anni fa?
R.: Un solo consiglio: quello di non studiare la materia con un approccio esclusivamente giuridico-normativo, cioè proponendosi di interpretare correttamente le norme inserendole nel loro contesto sistematico. Il buon giurista, studioso del dover essere dei rapporti sociali, deve sempre essere molto aperto e interessato alla conoscenza e alla comprensione approfondita di tutto quanto riguarda l’essere dei rapporti stessi e della vita delle persone: perché non si può governare qualche cosa di cui non si conoscono i meccanismi interni. È ovvio che il giurista non può mai pretendere di competere con l’economista, il sociologo, lo psicologo, o il medico, sul loro terreno; ma il giurista, se vuole far bene il proprio mestiere, deve saper apprendere e capire anche i risultati della loro ricerca.
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